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I DOCUMENTI: IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO

1. GLI SPAZI MIGRANTI NELLA PIANA DEL SELE

1.4 I DOCUMENTI: IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO

Diversi autori aggiungono allo status d’immigrato quello di undocumented o di sans- papier (Adam 2002, Ambrosini 2012, et Al.) per indicare la condizione dei migranti senza permesso di soggiorno. Status giuridico che, come delineato in precedenza, sottende ad una costruzione tutta politica (Balibar, 2012): «La differenza tra status giuridico e status sociale segnala un confine non giuridico né sociale ma politico, come se il confine si trasformasse e si incarnasse nel migrante: si ovunque c’è un migrante c’è un confine e ovunque c’è un confine c’è Stato, allora ovunque c’è un migrante c’è Stato.» (Raimondi, 2016, p.28). La recessione degli anni ’70 è stato il punto di svolta in cui la funzione simbolica del confine ha assunto il compito di produrre “inclusione differenziale” (Pécoud 2010, Mezzadra 2012, et Al.). In questo senso è utile ricostruire, seppur brevemente, i dispositivi giuridici che mettono in luce il ruolo performante dello Stato: «lo Stato è un modo di pensare, una struttura mentale» (Avallone – Torre, 2013). La legge Bossi-Fini, modificata nel 2014 rispetto al solo reato di clandestinità, non intende, d'altronde, scardinare tali dispositivi anzi: “il provvedimento, infatti, definisce i problemi della politica migratoria italiana in modo radicalmente diverso dai precedenti, trasformando i limiti della legislazione precedente [Turco-Napolitano N.d.A.] - l'assenza di una politica attiva degli ingressi e di una strategia di stabilizzazione della popolazione straniera residente – in obiettivi esplicitamente rivendicati e in strategie apertamente perseguite” (Colombo, Sciortino, 2004, p. 68). Le procedure per emanare i decreti di programmazione dei flussi, dunque, non solo permangono rigide e del tutto non trasparenti, ma viene consentito al presidente del Consiglio di scegliere liberamente anno per anno se emanare o meno tali decreti, esplicitando ciò che timidamente le leggi precedenti avevano ipotizzato, ovvero di mantenere un alto livello di precarietà. Ciò avviene aumentando ad un anno il periodo di permanenza necessario per il rilascio della carta di soggiorno, creando difatti un ulteriore ostacolo alla stabilizzazione amministrativa degli stranieri regolarmente presenti; cambiando il rinnovo del permesso

di soggiorno che deve essere chiesto 90 giorni prima della scadenza contro i 30 della legge precedente; inoltre si ha una riduzione dei nuovi permessi di soggiorni, consentendo in occasione del rinnovo soltanto il rilascio di un permesso di durata pari al precedente: “Com’è noto, la riproduzione dell’immigrazione irregolare corrisponde all’assenza di canali di ingresso legale per la ricerca di lavoro, mentre le cause che spingono all’emigrazione aumentano e permane la domanda di lavoratori, in particolare irregolari, per le attività del sommerso. È ovvio che questo proibizionismo non può che favorire passeurs improvvisati e anche organizzazioni criminali che godono di complicità nelle polizie dei paesi di partenza, sempre più interessati a mercanteggiare con quelli di arrivo la stretta o l’allentamento delle maglie degli espatri.” (Palidda, 2009, p. 200). La strategia messa in atto è di creare condizioni di vulnerabilità sociale (Colombo, Sciortino, 2004) cercando di tenere “legalmente” fuori dalla Europa i migranti, che invece in tal modo, possono soddisfare la domanda di lavoro a basso-costo tramite il mercato nero e il sistema corruttivo.

Lo stesso Fulvio Vassallo Paleologo, esperto in materia di tutela dei diritti umani e di immigrazione, afferma che: “I controlli più rigorosi da parte delle unità navali e aeree nel Mediterraneo, soprattutto dopo l’avvio delle missioni Frontex nel 2005, hanno indotto i passeurs a fare ricorso sempre più frequente a imbarcazioni medio-piccole che più facilmente possono sfuggire agli avvistamenti. Inoltre, spesso vengono preferiti dei quasi rottami, per ridurre il danno in caso di sequestro o affondamento. Si tratta delle cosiddette carrette del mare, molto pericolose perché ad alto rischio di affondamento in caso di mare un po’ forte.” (Paleologo in Palidda, 2009, pp. 200-201). Il giurista fa riferimento al fenomeno che da circa due decenni i media, in particolare, definiscono degli “sbarchi”, in special modo in Sicilia. I media, inoltre, ne parlano come di una vera e propria “invasione”; “eppure le stesse statistiche ufficiali mostrano che essi incidono solo per poco più del dieci per cento sugli irregolari identificati dalle polizie italiane poiché la grande maggioranza è composta da overstayers.” (ibidem). “Invasione” che i decision maker italiani, soprattutto in passato, hanno voluto “arrestare” con la riproposizione del blocco navale in aperta violazione sia dei trattati internazionali, sia della C.E.D.U., che della D.U.D.U. L’idea del “blocco navale” non è infatti nuova: fu tristemente sperimentata nel 1997 con l’affondamento della nave albanese “Kater I

Rades”. Adesso con l’applicazione letterale della legge Bossi-Fini, tale strumento viene “legalizzato”. Infatti per effetto del comma 9 bis dell’art.11 del Testo Unico sull’immigrazione, norma aggiunta proprio dalla legge Bossi-Fini nel 2002: “la nave italiana in servizio di polizia che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua una nave di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla a ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello stato.”55 In base al successivo art. 9 quater: “i poteri di cui al comma 9 bis possono essere esercitati al di fuori delle acque territoriali, oltre che da navi della marina militare, anche da parte delle navi in servizio di polizia, nei limiti consentiti dalla legge, dal diritto internazionale, o da accordi bilaterali o multilaterali, se la nave batte la bandiera nazionale o anche quella di altro stato, ovvero si tratti di una nave senza bandiera o con bandiera di convenienza. In pratica, le autorità navali italiane possono procedere, e procedono, al blocco e al respingimento delle imbarcazioni cariche di migranti (sin da allora presunti clandestini) già al confine tra le acque internazionali e le acque territoriali dei paesi rivieraschi del Nord Africa (in una fascia che oscilla tra le 20 e le 30 miglia dalle coste africane): “Ovviamente nessuno potrà mai distinguere a distanza se a bordo di una tale imbarcazione ci sono potenziali richiedenti asilo o migranti cosiddetti “economici”. Come segnala anche l’Acnur, le procedure di respingimento in mare, attraverso i pattugliamenti congiunti ora organizzati dal governo italiano dopo le missioni del ministro Maroni in Tunisia e in Libia, rischiano di negare il diritto d’asilo e di incrementare il numero delle vittime dell’immigrazione clandestina.” (Palidda, 2009, p. 202). Inoltre le forme di tutela per i migranti colpiti da forme di sfruttamento lavorativo, sono nebulose o non sempre molto chiare. Anche se si registra un'inversione, anche a livello comunitario, dell'atteggiamento nei confronti della speculazione che si perpetua sulla pelle dei migranti in ambito lavorativo.

Il d.lgs. N° 109/2012, infatti, recepisce la direttiva dell’Unione europea 2009/52, contenente “norme minime relative a sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. La direttiva è

55 Legge Bossi-Fini nel 2002

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stata recepita tardivamente dalla legislazione italiana, prevista per il 20 luglio 2011, lasciando in tal modo la regolamentazione della tutela dei migranti irregolari vittime di sfruttamento in ambito lavorativo al diritto interno. L'ordinamento italiano, sino all'applicazione del d.lgs. n° 109/2012, non si è munito di specifici strumenti di tutela, anzi probabilmente l'impianto normativo della Bossi-Fini ha scoraggiato l'emersione di situazioni di grave sfruttamento. Anche se non si può negare, anche precedentemente al recepimento della direttiva, l'esistenza di alcuni strumenti di tutela dei migranti vittime di sfruttamento in ambito lavorativo. L'art 18 del TU, sebbene sia concepito essenzialmente per le vittime della tratta e per lo sfruttamento della prostituzione, può diventare, ed in alcuni casi è stato, un utile mezzo per difendere anche le vittime di grave sfruttamento lavorativo. Anche gli art. 600 e 601, seppur punendo specificatamente i delitti sulla riduzione in schiavitù e la tratta, potrebbero trovare, e talune volte lo è stato, un'applicabilità più ampia. Tuttavia, la casistica ha dimostrato la scarsa applicazione della concessione di un permesso di soggiorno temporaneo per soggetti con condizione di grave sfruttamento lavorativo in applicazione degli articoli precedentemente elencati, se non nei casi più gravi e di risonanza pubblica, come ad esempio in relazione ai fatti di Rosarno. Ciò dovuto alla tendenza dei questori a ritenere il permesso di soggiorno ex art. 18 T.U. puramente discrezionale e a interpretare in maniera restrittiva la norma. A tal riguardo, è dimostrata l'incapacità sistematica e puntuale delle attività di controllo e repressione degli illeciti. Incapacità dovuta alla impostazione “settoriale degli uffici” (Paggi, 2010, p. 40) ed anche alla notevole difficoltà di acquisire nell'ambito delle indagini la prova rigorosa della riduzione del lavoratore in uno stato di soggezione continuativa. Più in generale, va osservata come l'art. 18 TU fosse pensato, in origine, per donne e minori in situazione di grave sfruttamento.

La Direttiva europea tenta, dunque, di supplire ad un vuoto normativo ben evidente anche in Italia. Ma va colta anzitutto un’ambivalenza di fondo nella filosofia cui la direttiva stessa sembra ispirarsi, rimarcando di fatto la riproduzione di una forza “lavoro differenziata” (Mezzadra, 2004). Se si sottolinea giustamente la necessità di colpire lo sfruttamento dei lavoratori cittadini di Paesi terzi, essa tende tuttavia a mettere

fuorilegge il lavoro prestato dai migranti irregolari56. Tale ambivalenza è espressa in modo emblematico dall’art. 3, che reca il titolo “divieto del lavoro illegale” affermando che “1. Gli Stati membri vietano l’assunzione di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. […] 3. Uno Stato membro può decidere di non applicare il divieto di cui al paragrafo 1 ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare e il cui allontanamento è stato differito e che sono autorizzati a lavorare conformemente alla legislazione nazionale”.57 Da tale disposizione non è ricavabile, a nostro avviso, una vera e propria tutela sia sul piano legale che rispetto al diritto al lavoro, così come garantito anche dalla costituzione italiana all'articolo 1. La non-tutela del lavoro in quanto principio fondante crea, perciò, dei canali differenziali, tutelando reti lavorative che occupano posizioni di comando nell'attuale sistema economico e spingendo, d'altra parte, una grande massa di lavoratori verso l' “illegalità”.

Non si può, certo, non evidenziare gli elementi di positività che la direttiva introduce, come il cambiamento dell’atteggiamento verso il “clandestino”, soprattutto nel mainstream degli ordinamenti interni degli Stati, quale non solo autore di reati, ma anche vittima. Infatti, dopo un decennio in cui lo straniero irregolare è stato oggetto di prassi che hanno favorito la criminalizzazione dello stesso, culminate nel 2009 con l'introduzione del reato di ingresso e soggiorno irregolari (il cd. “reato di clandestinità” di cui all'art. 10bis t.u. imm.), le fonti comunitarie impongono finalmente al legislatore interno di tenere conto delle condizioni di grave sfruttamento lavorativo cui sono spesso sottoposti gli stranieri irregolari, riconoscendo un permesso (temporaneo) di soggiorno a colui che trovi il coraggio di denunciare il reato di cui è vittima. In tal senso, l'art. 13, co. 4, prevede per l'appunto la possibilità di concedere, sia pure in base a valutazioni caso per caso, permessi di soggiorno di durata limitata ai cittadini di Paesi terzi che siano occupati in condizioni lavorative di particolare sfruttamento o durante la minore età. Un aspetto che avrebbe meritato una maggiore definizione è quello della possibilità – non prevista dal d.lgs. - di conversione del permesso temporaneo rilasciato alla vittima di sfruttamento lavorativo, qualora si verifichi un cambiamento nelle condizione della

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Fonte giuristi democratici

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direttiva comunitaria 2009/52

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stessa; in tal modo sarebbe stata equiparata la condizione delle vittime per grave sfruttamento in ambito lavorativo a quelle tutelate dall'art. 18 TU. Siffatta specificità è lasciata alla volontà degli Stati essendo d'altronde la direttiva stessa ad armonizzazione minima lasciando margini di discrezionalità in relazione anche al pagamento degli arretrati (art.6 e 7) e delle agevolazioni delle denunce (art. 13).

La direttiva prevede, poi, l'obbligo del pagamento degli arretrati ai lavoratori di Paesi terzi assunti ed impiegati (art. 6) o l'esclusione, per un certo periodo, dei datori di lavoro dal beneficio di prestazioni, sovvenzioni, aiuti pubblici, compresi i fondi europei, nonché dalla partecipazione ad appalti pubblici, e la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti (art. 7) per coloro che sfruttano la manodopera migrante. Le possibili sanzioni sono applicabili anche al subappaltatore (art.8), anche se solo nel caso in cui quest'ultimo fosse a conoscenza dell'impiego vietato. Inoltre l'art. 13 della direttiva prevede che gli Stati membri si dotino di meccanismi volti ad agevolare le denunce da parte dei cittadini dei Paesi terzi, ipotizzando la possibilità di denuncia anche da terzi, come associazioni o sindacati, così come già previsto nell'art. 18 del TU.

Infine, l'art. 4 del d.lgs., come prescritto dall'art. 14 della direttiva, prevede per il Ministero del lavoro l'obbligo di "effettuare controlli adeguati ed efficaci sull'impiego di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare", comunicando ogni anno alla Commissione europea "il numero totale di ispezioni effettuate l'anno precedente per ciascun settore di attività a rischio, specificandone oltre al numero assoluto anche il rapporto percentuale rispetto al numero totale dei datori di lavoro del medesimo settore" (Masera, 2012).

Ma anche in questi elementi è possibile ritrovare l'ambivalenza di fondo che caratterizza la direttiva che, da una parte, si pone come obiettivo quello di contrastare lo sfruttamento dei lavoratori/trici migranti/e e, dall'altra, ne mette fuorilegge - di fatto - la prestazione. Un esempio di quanto affermiamo è rinvenibile nella previsione del pagamento degli arretrati ai lavoratori “clandestinamente” assunti, per i quali non vi è il differimento del rimpatrio fino al pagamento di detti arretrati.

Analizzando il recepimento della direttiva in Italia, notiamo come il d.lgs n° 109/2012 prevede, nelle sue disposizioni transitorie, anche delle misure per sanare le posizioni dei lavoratori non in regola con la normativa sul soggiorno in Italia. Viene inoltre consentito ai datori di lavoro di presentare domanda di emersione dal lavoro nero di propri dipendenti, previo pagamento di un contributo forfettario di 1.000 euro e la dimostrazione dell’avvenuto pagamento di stipendi e oneri per almeno 6 mesi imponendo dei:

1. limiti relativi al datore di lavoro: non può fare domanda di regolarizzazione colui che ha avuto condanne relative all’immigrazione clandestina, allo sfruttamento della prostituzione e attività illecite con i minori; colui che ha partecipato a flussi e sanatorie in precedenza e non si è presentato a stipulare il contratto di soggiorno per colpa imputabile a lui.

2. Limiti relativi al lavoratore: non può essere soggetto a regolarizzazione colui che ha una espulsione da un paese Schengen (segnalato nel SIS). Bisognerebbe, se ci sono i termini, fare richiesta di cancellazione dal SIS o, in alternativa, si potrebbe fare domanda se la questura non fosse in grado di dimostrare l’iscrizione al SIS; colui che ha una condanna anche non definitiva penale per reati per cui è previsto l’arresto obbligatorio (come la rapina). Per i reati di furto, resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio a pubblico ufficiale è prevista denuncia a piede libero e non l’arresto, evitando così l'automaticità della preclusione dalla regolarizzazione.

Se i documenti presentati per ottenere il permesso di soggiorno risultassero ottenuti mediante frode, falsificati o contraffatti, si procederà con una revoca del nulla osta al lavoro. Le pene previste per i datori di lavoro possono aumentare nel caso in cui il numero dei lavoratori occupati sia superiore a tre, oppure quando si tratta di minori o di lavoratori sottoposti a condizioni di particolare sfruttamento.

La sanatoria realizzata, la prima dopo quella prevista nel 2002 dalla legge Bossi-Fini, non ha riguardato solo colf e badanti, ma varie categorie di lavoratori. Va detto che colf e badanti costituiscono l’unica categoria che è possibile regolarizzare part-time: tutte le

altre categorie devono avere un contratto di lavoro full time. La disciplina prevista dal d.lgs. 109/2012 con riguardo alla “sanatoria” dimostra delle diversità tra i diritti e la dignità riconosciuti ai migranti, i quali sono così disumanizzati anche nei confronti dei loro compagni di lavoro, rivitalizzando una sorta di nazionalismo dei diritti. Va anche detto che se il lavoratore viene truffato non sono previste forme di tutela. La doppia traccia di lettura della direttiva, ovvero quella ambivalenza concettuale sul lavoro precedentemente menzionata che punta ad una governabilità delle migrazione imponendo forme di lavoro differenziato (Mezzadra, 2004), si ripropone dunque parimenti anche nel decreto italiano. Ciò è ancora più esplicito dal fatto che l'integrazione all'interno del mercato del lavoro non significa necessariamente che i migranti siano pagati allo stesso modo o abbiano le stesse opportunità di accesso all'occupazione dei non migranti, sebbene l'ordinamento italiano preveda, de jure, una uguale retribuzione e condizione di lavoro paritarie per tutti i lavoratori, italiani e stranieri.

Il decreto n° 109/2012, e la direttiva UE cui dà attuazione, sono certamente dei punti di partenza su cui provare a costruire politiche e strumenti di contrasto dello sfruttamento del lavoro migrante. Tuttavia ci si ritrova comunque a dover affrontare tutte le problematiche che la proposizione di una “diga Europa” (Mezzadra, 2004) mette in campo.

Tenendo fede all’indicazione che il lavoro sul campo ha dato (ovvero lavoro, documenti e casa) si procederà nell’analisi delle zone migranti indagando gli spazi abitativi che come ci suggerisce J. sono clandestini.