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ZONE MIGRANTI: VIVERE VICINO ALLA SS18

2 ZONE MIGRANTI: LE PRATICHE DELL’ABITARE MIGRANTE

2.2 ZONE MIGRANTI: VIVERE VICINO ALLA SS18

A differenza delle zone migranti, precedentemente descritte, ciò che emerge dalle rilevazioni etnografiche, avvenute in alcune delle case dei migranti stanziati presso la rotonda di Santa Cecilia e la SS18 e che la maggior parte delle stesse è al piano terra, di solito in traversine mal illuminate e ben nascoste, e che all’interno il più delle volte esiste un alto tasso di coabitazione, come ci conferma anche Giovanna della Filt CGIL:

La maggior parte vivono a Campolongo, nelle villette a schiera. Il proprietario affitta a gruppi non ad uno solo. Chi ha famiglia invece ha una casa in affitto ed ha una condizione migliore, perché spesso ha figli. Ovviamente chi ha il permesso di soggiorno ha queste possibilità altrimenti si vive con tutti gli altri. Le abitazioni sono spesso carenti di acqua, servizi sanitari ed igienici adeguati, ma la situazione é migliorata da San Nicola Varco [Intervista a Giovanna giugno 2015].

Il fenomeno della co-abitazione è stato rilevato anche durante una fase di attività etnografica presso un’abitazione vicino alla fascia costiera a 500 metri dalla strada statale. Vicino all’appartamento è collocata una piccola villetta, utilizzata da vacanzieri occasionali. La casa è di circa 50 mq ed è composta da un unico spazio che funge da sala da pranzo e da cucina. Vi sono poi, un bagno, due stanze da letto e uno sgabuzzino. La casa è abitata da 5 marocchini, provenienti da regioni diverse. Quattro di essi hanno un'età che oscilla tra i venti e i trent'anni, l'ultimo, il più grande, ha quasi quarant’anni, ed è colui che si occupa principalmente della cucina. Tutti lo chiamano chef. L'accesso all’appartamento è delimitato da un cancelletto e da una vetrata chiaro scura che da luce a tutta la casa. Lo spazio principale è la sala comune, dove è posizionato un televisore sintonizzato sui canali arabi. Rappresenta il luogo condiviso dove avvengono le trattative domestiche e “negoziazioni” alimentari tra gli occupanti. Questo spazio comune è anche usato come sala per gli ospiti, fungendo da zona esterna necessaria a gestire o facilitare il controllo della sfera pubblica.

Il “cuoco” è colui che detta l'ordine all'interno dello spazio comune, questione di forte tensione e litigio degli abitanti. Tutti sono tenuti a tenere pulito tale spazio e a lasciare gli oggetti personali nelle camere da letto. Ogni elemento di disordine96 è oggetto di richiamo da parte dell’abitante più vecchio che sembra il vero proprietario della casa. Non si tratta esclusivamente di confini fisici, ma anche – e soprattutto – di confini

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Scrive ancora Mary Douglas: «La capacità della casa di allocare spazio, tempo e risorse nel luogo termine è una legittima questione per stupirsi. Non siamo sorpresi se l’armadio è spesso vuoto; dovremmo sorprenderci se spesso contiene una straordinaria varietà di cose che saranno utilizzate negli anni, etichettati mentalmente per tipi differenti di eventi attesi. Più sorprendentemente, vengono sistemati in modo da essere trovati al tempo giusto. I più preziosi devono essere utilizzati nelle grandi occasioni, sono più sicuri sugli scaffali più alti e fuori dalla portata di un utilizzo frequente, mentre gli oggetti della quotidianità più resistenti ed economici sono a portata di mano. Lo spazio delle provviste offre un altro promemoria per la totalità della vita all’interno della casa» (1975, p. 20).

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simbolici, ossia di qualcosa che ci rappresenta, che restituisca l’idea del nostro abitare lo spazio. Non a caso,

Il disordine accorcia le distanze tra le persone o meglio le confonde, mischiando i generi, ignorando i diritti di possesso oltre che su un territorio anche sugli oggetti. Cancella i punti di riferimento, non tiene conto alcuno della distanza critica di una persona, ovvero di quel tratto di spazio oltre il quale si scatena una risposta aggressiva. […] Pulire è in un certo senso un modo per cancellare le tracce dell’altro […] Riordinare o pulire un ambiente è un modo di ristabilire la distanza giusta e riconfermare l’appartenenza di un territorio spesso costruendo delle barriere invisibili che scoraggino l’altro dal superarle (Pasquinelli 2004, pp. 46-47).

Nonostante le difficoltà di gestione, il cuoco è anche colui che prepara il te ed i piatti nel tajine per gli altri. Dispone anche di una couscoussiera in alluminio che utilizzano. Il cibo diviene spesso il mezzo per superare i conflitti interni, d'altro canto, la cucina, intesa come luogo in cui preparare e consumare i pasti, si configura come spazio in cui si ridefiniscono continuamente i confini di puro ed impuro. Lo stesso concetto di disordine assume nello spazio della cucina un significato costantemente negoziato. Proprio l’accesso a tale luogo mi permette di comprendere se i 4 uomini hanno deciso di considerarmi un’amicizia intima. E’ proprio il cuoco a chiedermi di restare a cena. Noto che il ritmo degli ingressi e delle uscite è scandito dagli orari di lavoro e dai turni di pulizia. H., in particolare, si occupa delle questione legate alle problematiche del lavoro, garantendo in tal modo anche a chi non ha avuto la possibilità di partecipare alla giornata lavorativa un minimo di sostentamento. A. è impegnato relativamente ai rapporti con la vicina moschea, e da consigli su come rispettare i dettami religiosi. Gli altri due abitanti hanno un ruolo più marginale, dovuto alla loro relativa giovane presenza nella piana, circa un anno e mezzo, e le loro difficoltà legate alla lingua.

Sebbene i rapporti di convivenza comportino delle chiare modifiche e trasformazioni del sé, tale situazione abitativa, con diverse camere e delle pareti divisorie tra le diverse zone della casa, permette l’appropriazione di uno spazio attribuendone un senso, valorizzandolo ed assegnandogli una propria identità. Individuare una ben definita zona relax dove mediare inoltre le istanze pubbliche con quelle private, favorisce ancor di più

questo tipo di operazione. Esso è vissuto in una dimensione collettiva e meno sono gli spazi individuali se non quelli puramente virtuali. In questo senso il legame con la propria terra e i propri parenti viene rinsaldato grazie ai social network. I legami invece con l’esterno del complesso e quindi con la città rispecchiano lo stigma che è attribuito ai migranti, con gli stessi che non si accostano ad alcuni luoghi della città. Anche i luoghi di relazione esterna costituiscono delle zone migranti, come il bar di Santa Cecilia o la moschea a Battipaglia, all’interno dei quali si riversa e si palesa la conflittualità tra nazionali e non nazionali:

Questa breve descrizione degli spazi ci mostra un microcosmo organizzato in cui si prova a negoziare anche simbolicamente il proprio diritto ad esserci. Forme in tal senso di resistenze solitarie e striscianti che con difficoltà, hanno cercato di trovare forme di solidarietà. Zone dell’abitare migrante che all’interno delle strategie relazionali del territorio, vengono accettate ed occultate perché funzionali al sistema di produzione locale. Sia i produttori che i proprietari, a differenza dell’ex-Apoff, mettono in “sicurezza” tali luoghi. Tale sicurezza è spazzata via però, allorquando i migranti devono fare i conti con le proprie narrazioni esistenziali. Loro stessi raccontano:

La mia vita qui è clandestina. Se domani viene il padrone e mi dice vai fuori non posso fare niente. Primo vivevo in un’altra casa più grande con altri amici miei eravamo quattro/ cinque poi siamo arrivati a tre e sono venuto in questa casa perché non potevo pagare l’affitto. Avevo una stanza tutta mia era bellissimo. Qui mi sono dovuto trasferire anche per il lavoro [Intervista a H. febbraio 2015].

Nell’estate del 2015, infatti, gli abitanti della casa sono stati mandati via, due di loro si sono trasferiti in un appartamento a Pontecagnano altri, invece hanno reciso i rapporti d’amicizia e hanno deciso di abitare in altre case tra la SS18 e la Litoranea. Il racconto della clandestinità ricorda a loro stessi e a me quanto è difficile mantenere rapporti e legami in situazioni di così alta precarietà, sia lavorativa che abitativa, e che la loro vita quotidiana è soggetta a rapide e continue trasformazioni.

H. invece si è trasferito in un altro nucleo abitativo che a differenza dell’appartamento precedente, è a circa due cento metri dalla statale e a 500 dal mare. In lontananza, infatti, si possono sentire le onde del mare quando è agitato, mentre quando il vento

soffia dal mare verso terra l’aria è carica di salsedine. Un ulteriore elemento di diversità rispetto all’esperienza precedente è che ci si trova in presenza di più caseggiati, forse ex-rimesse per le barche o garage, che formano un agglomerato di abitazioni per i migranti (come si può notare dalla ricostruzione sottostante).

Ogni casolare è abitato da un numero diverso di migranti. H. ha più di 30 anni, e ha fatto e fa da anni diversi lavori. E’ passato dalla agricoltura all’edilizia e poi all’industria. E’ ossessionato dall’idea del lavoro, mentre parla continua a lavorare. Sembra non potersi fermare un attimo, perché ripete più volte.

Se hai i soldi è tutto a posto. Solo se hai i soldi è tutto a posto. Poi gli amici ti danno una mano. Sempre devi avere degli amici. Così è facile. Qualcuno ti deve aiutare. A me Battipaglia non mi piace. In Marocco facevo il muratore. Avevo 21 anni adesso ho più di trent’anni. I padroni non ti trattano bene, mai. Gli italiani lavorano nel bel posto. I lavoratori pesanti li facciamo noi, con la zappa. Vai abdul, vai abdul muovet amma’ fa veloce. Questo ci dicono sempre. Per come lavoriamo,

se ci fosse in Marocco il lavoro tenevamo un sacco di soldi [Intervista a H. focus group novembre 2016].