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L’IDEA DI CITTÀ TRA DISCORSI E CONTRO-DISCORSI MIGRANTI

2 ZONE MIGRANTI: LE PRATICHE DELL’ABITARE MIGRANTE

2.4 L’IDEA DI CITTÀ TRA DISCORSI E CONTRO-DISCORSI MIGRANTI

In sintesi la città è uno spazio condiviso che spinge ciascuno ad accordarsi con l’Altro, e forse, di conseguenza, con se stesso. Lefebvre, e gli altri autori richiamati, hanno colto pienamente l’essenza dell’effetto città: la coesistenza di elementi differenziati in uno stesso spazio e in uno stesso tempo, la quale produce radicali trasformazioni nella vita

sociale degli individui (1976). Queste caratteristiche della vita urbana, però, non devono far approdare ad uno schema interpretativo ingenuo che dimentichi la strutturazione urbana delle disuguaglianze sociali basata sui differenti capitali a disposizione degli individui e dei gruppi sociali; «nelle città sono rintracciabili sia i segni di dominazione della vita sociale, sia elementi emancipatrici e rivoluzionari» (Daconto, 2015).

Infatti proprio i e le migranti/e vivendo e abitando i territori in cui lavorano producono una pratica di resistenza al potere. Questa “lotta”, per coniare un'espressione di Sayad, oscilla tra il “diritto al sangue” e il “diritto al suolo” (Sayad, 2002, pp. 324-325). Come ricordato in precedenza, nelle pratiche dell'abitare, in particolare in quelle migranti, esistono delle contro-risposte alle poste messe in gioco dai dominanti. In particolare il potere ha conquistato l’esigenza del desiderio, che prima reprimeva, visto che l’affermazione della propria identità passa sempre più attraverso l’avidità dei consumi, la mercificazione e un rapporto simulato con la città. Infatti, secondo G. Amendola, «desiderio di piacere, ricerca della distinzione sociale, avidità di consumi, affermazione di identità» (2004) sono le qualità delle persone che vivono nella città contemporanea. Il cittadino si è trasformato in generale da produttore a consumatore.

E nella quotidianità si può rintracciare la possibilità a costruire una contro-risposta alle dinamiche sin qui descritte. Infatti resistere con il mantenere in ordine la casa, non imparare la lingua non partecipando ai corsi organizzati, anche gratuitamente, per evitare in qualche misura di “sacralizzare” il mito della naturalizzazione, sono la risposta alla volontà di costruire un'altra storia. Una storia che vuole rompere con il passato e che ha come obiettivo: “Il “diritto” alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il “diritto” a ritrovare, al di là di tutte le oppressioni o “alienazioni”. In fondo non è ciò lo sfondo su cui si muovono i/le migranti/e?

I migranti resistono anche a faccendieri e sfruttatori (non è difficile imbattersi nella Piana del Sele, in avvocati che promettono permessi di soggiorno, o imprenditori sociali che sulle retoriche migranti impostano la loro mobilità sociale). Essi si muovono contro delle barriere alimentate da confini materiali e margini sociali. Pertanto, lo slittamento e lo sconfinare nello spazio altro della città dei bianchi diventa anch’essa pratica di resistenza.

Vero è che i migranti della Piana non sono riusciti ad organizzarsi unitariamente contro il sopruso subito, ciò dovuto probabilmente all'estrema frammentazione dei gruppi, od

anche alle continue intimidazioni delle forse di polizia, o del costante ricatto padronale, attraverso i caporali, di perdere le giornate di raccolta, od anche l'accondiscendenza di associazioni che avevano condotto azioni pseudo caritatevoli per poi sparire nel momento del reale bisogno. Ma il desiderio ad un’altra storia e di costruzione di contro- discorsi a quelli dominanti è lampante nella voce e nelle parole dei migranti:

«Nel mio credo i soldi e il lavoro sono un dono di Dio. Non posso dire che questi [riferito ai clandestini N.d.A.] mi rubano il lavoro. Basta con questo discorso che la gente ruba il lavoro agli altri.

[…] Non seguo da molto la politica in Italia. La cosa che aumenta in Europa è la xenofobia, il razzismo e l’estrema destra. Questo succede in molti paesi e questo lo sento. Sento che c’è un’ondata di odio verso gli altri. La televisione ci porta solo flash, non c’è più interesse perché l’immagine sembra la stessa.» [Intervista a H. dicembre 2015].

In maniera altrettanto chiara è la richiesta di partecipare «Voglio votare. Perché non posso votare. » [Intervista a H. dicembre 2015]. Infatti, come ben sottolineato da Harvey, il diritto alla città non si esaurisce nella libertà individuale di accedere alle risorse urbane, ma è il diritto di cambiare noi stessi cambiando la città. È un diritto collettivo, più che individuale, perché una trasformazione dei processi di urbanizzazione richiede inevitabilmente l’esercizio di un potere comune. La formazione delle zone migranti implica il sorgere di un particolare tipo di bisogno sociale, che parafrasando Lefebvre sono il bisogno «di luoghi qualificati, di simultaneità e di incontro. Infatti, l’essere umano ha bisogno di accumulare e di dimenticare; ha bisogno simultaneamente o successivamente di sicurezza e di avventura, di socialità e di solitudine, di soddisfazioni e di insoddisfazioni, di squilibrio e di equilibrio, di scoperta e di creazione, di lavoro e di gioco. Questi bisogni non soddisfatti nella città industriale spingono alla rivendicazione del diritto alla città che si manifesta come forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città.» (Lefebvre, 1976, p. 121). In altri termini garantire il diritto ad accedere al bene città appropriandosi di uno

spazio-tempo in maniera relazionale, ovvero per il soggetto la sfida consiste nel diventare, nel segno dell’autonomia, motore e creatore di uno spazio-tempo incomparabile, perché espressione delle proprie qualità.

La città non è più solo teatro della lotta tra capitalisti e proletari ma si trasforma in «posta principale di tutte le azioni e le lotte che si pongano un obiettivo» (ibidem) infatti una trasformazione della società presuppone la proprietà e la gestione collettiva dello spazio, e il continuo intervento degli «interessati», con i loro diversi interessi, che possono anche essere contraddittori. (Daconto, 2015).

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Zone d’accoglienza. Il sistema delle accoglienze e le trasformazioni