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I livelli essenziali di assistenza sociale

In tema di integrazione tra i servizi, un punto importante è rappresentato dall’indivi-duazione dei livelli essenziali di assistenza sociale: su questo tema è ancora poco ciò che è stato prodotto, mentre molto è oggetto di ricerca e di sperimentazione. Di fatto finora pos-sono essere definiti livelli “possibili” di assistenza, non essendoci l’obbligatorietà delle prestazione e dei servizi sociali.

Il mutamento delle politiche sociali e i limiti delle risorse economiche, le restrizioni dei bilanci comunali, i limiti dalla spesa pubblica, anche dovuti al rispetto del “Patto di sta-bilità”, sono spesso causa di restrizioni diseguali delle risorse e di un esercizio

differenzia-to dei diritti.

La titolarità dei diritti formali non abilita automaticamente al loro esercizio sostanzia-le, poiché si determina una sorta di competizione per le risorse pubbliche tra i gruppi di cittadini e di “non cittadini” che sono presenti in un territorio e hanno quindi biso-gni/interessi determinati dalla condizione di vita. Tale realtà diversificata e competitiva an-che nell’esercizio dei diritti richiede un maggior sostegno all’esercizio della cittadinanza e condizioni istituzionali e personali che favoriscono l’integrazione tra gli individui e i grup-pi, sulla base del riconoscimento delle differenze.

La ricerca degli elementi che permettono una crescita della comunità o della società “multietnica” rappresenta un percorso verso l’interesse comune o verso il bene comune, inteso come vantaggio dell’essere uniti. Solidarietà e tolleranza possono quindi essere

3Cfr. per esempio Bologna (Provincia), Piano provinciale per la promozione e sviluppo delle politiche di tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (2008).

4Firenze (Comune), Protocollo operativo per la presa in carico di stranieri non accompagnati segnalati per pro-blemi correlati all’uso e abuso di sostanze stupefacenti o di alcool, deliberazione 25 ottobre 2006, n. 67; Azien-daUSLdi Bologna, Bologna (Comune), Minori soggetti a decreto dell’Autorità giudiziaria, a cura di Lelia Govo-ni; Bologna (Provincia), Coordinamento affido e comunità, Strutture socio-assistenziali per minori nella Provin-cia di Bologna, 2007;CISMAI, Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri, in «Maltrattamento e abuso all’infanzia», n. 1/2006; Emilia Romagna. Direzione generale sanità e politiche sociali, Nuova procedura per l’accertamento dello stato di salute delle coppie disponibili all’adozione nazionale ed internazionale , prot. 17 luglio 2006, n.ASS/SCS/06/24876.

considerate comprese nel concetto di interesse comune, orientato a una convivenza de-mocratica.

Una definizione di cittadinanza la propone come «l’insieme dei diritti soggettivi che spettano a tutti i cittadini in modo uguale, indipendentemente dalla loro posizione nel mercato, esclusivamente in relazione alla loro appartenenza alla società-comunità demo-cratica […]. I diritti di cittadinanza, o diritti sociali, sono quelli che riguardano il pieno esercizio di tutti gli altri diritti che consentono ai soggetti, individuali e collettivi, la piena autonomia della propria vita e del personale progetto di felicità, l’opportunità di parteci-pare alla vita associata e civile e il diritto-dovere di contribuire alla crescita della qualità della vita» (Sgritta, 1993, p. 49).

Rispetto alle tipologie di servizi è utile osservare come l’affidamento e l’adozione rap-presentino due misure di protezione intorno alle quali vi è una notevole produzione di esperienze e di documenti, in quanto da più di 20 anni costituiscono una forma di tutela di bambini. Su altre tipologie di interventi, quali ad esempio i servizi 0-3, vi sono punte di eccellenza, ma solo recentemente si sta verificando un impegno per una loro maggiore dif-fusione a livello locale. Lo stesso avviene per quegli altri interventi che sono assurti a li-vello di tipologie di intervento con l’input della L. 285.

È comunque molto utile per orientarsi nella gamma di tipologie di servizi il “Nomen-clatore” proposto dalCISIS(2009). Il Nomenclatore si propone di dare un linguaggio co-mune, utilizzabile dai programmatori e dagli operatori, finalizzato anche a facilitare l’identificazione dei livelli essenziali di assistenza sociale e a rendere possibile il confronto su voci omogenee tra i diversi sistemi di welfare regionali.

3. Le idee: approcci culturali e letture della situazione

Negli ultimi 15 anni il tema del lavoro di rete nel campo delle politiche sociali ha as-sunto un livello di importanza e di “consistenza” sempre maggiore.

La rete, che si è affermata come grande metafora della complessità della società mo-derna, viene evocata continuamente, divenendo spesso una sorta di “capro espiatorio” delle disfunzioni sociali, oppure una specie di “coperta di Linus” capace di risolvere qual-siasi difficoltà.

La realtà com’è noto è invece più complessa e articolata, ricca di sfaccettature e soprat-tutto attraversata e fortemente orientata dalla legislazione nazionale e regionale. Del resto, il lavoro di rete consiste in un insieme di cose collegate tra loro in modo inscindibile e por-ta con sé una serie di conseguenze; possiamo dire che la rete sia non solo uno strumento, ma anche un metodo e un obiettivo. È strumento perché si traduce in meccanismi tecnico-formali che obbligano, a vari livelli, più soggetti a lavorare in modo congiunto: si pensi ad esempio all’accordo di programma (introdotto dalla L. 241/1990). La rete è certamente un

metodo, perché al di là dei vincoli formali ora descritti, introduce e rappresenta un

model-lo particolare dell’agire pubblico e privato, e cioè quelmodel-lo della partecipazione attiva degli at-tori coinvolti, della sinergia tra setat-tori e professioni diverse, dell’integrazione tra culture e sistemi che agiscono insieme. La rete, infine, è anche un obiettivo, perché tende a raggiun-gere un risultato concreto che è quello della sintesi e della condivisione concreta dei pro-grammi di lavoro elaborati secondo gli strumenti e i metodi prima descritti.

Una considerazione generale da farsi è che l’integrazione deve coniugarsi, in qualche modo, anche con il conflitto, nel senso che costituisce la riposta costruttiva a tutte quelle

situazioni che esprimono un conflitto: degli utenti/clienti dei servizi, ad esempio tra “inte-ressi” dei bambini a essere tutelati e dei genitori/adulti a salvaguardare la loro potestà; tra bisogni (ad esempio di cura o di repressione nei casi dei minori nel circuito penale); tra competenze dei servizi: sociali, sanitari, educativi. L’approccio che accoglie l’integrazione tende a promuovere una modalità di confronto che dall’oppositivo “o ... o” passa al con-ciliativo “e ... e” o, almeno, più realisticamente all’“e/o”. In questo senso sono interessan-ti diversi documeninteressan-ti che – al di là del contenuto specifico – esprimono un impegno: nella modalità in cui sono stati costruiti da un gruppo integrato di professionisti di diversa pro-venienza istituzionale e nei processi e strumenti che prevedono. Vi è cioè un’attenzione culturale e metodologica a rappresentare la complessità e tendere all’integrazione, consi-derando i diversi punti di vista.

Un altro livello rilevante di attenzione è dato dallo sforzo di declinare caratteristiche, ruoli e funzioni dei diversi attori e quando possibile anche i punti di intersecazione. Pur essendoci tante diversità tra le diverse aree del Paese, alcuni documenti offrono una serie di spunti di riflessione su questo punto perché esplicitano un approccio collaborativo di servizi e di operatori e permettono quindi di lavorare sulle rappresentazioni culturali, spes-so implicite, che ostacolano i processi di integrazione, o su dei modelli organizzativi spes- sot-tintesi che non permettono di vedere i processi di lavoro e di costruire interazione. La tra-sformazione della pubblica amministrazione da un assetto burocratico a un soggetto pro-duttore di servizi immateriali non è scontata né omogenea e quindi è molto interessante leggere e utilizzare quanto viene proposto in questa linea per sostenere processi di cambia-mento.

È interessante notare come si siano diffusi e vengano esplicitati nei documenti anche normativi i presupposti dell’integrazione, in particolare con riferimento alla necessità di un approccio multidisciplinare: come dire che le categorie della complessità e dell’interdi-pendenza in qualche modo entrano oggi nell’approccio organizzativo e che si tende a in-crinare l’autoreferenzialità che prevalentemente caratterizza le organizzazioni.

La multidisciplinarietà e l’integrazione possono peraltro fungere, in un contesto così organizzato, da fattore di prevenzione rispetto alle situazioni di pericolo per i bambini (Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, 2007; Società italiana di pediatria, 2007; Italia. Ministero della giustizia, Commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti con le regioni, gli enti locali ed il volontariato, 2008).

Il processo di integrazione ha come finalità primaria l’unitarietà del percorso del citta-dino in crescita, senza necessità di innumerevoli e frammentati passaggi tra operatori e ser-vizi diversi, che spesso aumenta il senso di precarietà e di fragilità del giovane e della sua famiglia. Il processo di integrazione riguarda sia l’ambito preventivo-diagnostico che quel-lo assistenziale-riabilitativo.

Un tema ricorrente che si coniuga con l’integrazione, sia pure con diverse accezioni non omogenee o in qualche caso contrastanti tra loro, è la sussidiarietà. In questo sen-so, mentre prevale il pensiero sul mantenimento della titolarità pubblica di alcune fun-zioni, e tra queste in particolare quella della tutela dell’infanzia, non mancano voci di-scordi soprattutto da parte di alcune componenti del terzo settore. Il rapporto tra ente pubblico e le realtà del terzo settore, secondo il principio della sussidiarietà, dovrebbe essere in grado di superare sia il concetto di integrazione, in cui il pubblico decide qua-li spazi debba occupare il privato sociale, sia il concetto di supplenza, in cui il privato sociale si prefigge, in modo unilaterale, di intervenire quando il pubblico non è ancora attivo. Si auspica invece una compartecipazione, una collaborazione e una

corresponsa-bilità tra pubblico e privato nel rispetto delle specifiche competenze e del mandato isti-tuzionale degli enti locali.

La lettura dei documenti prodotti in questi anni da vari soggetti istituzionali e non, su-scita una serie di riflessioni sulle diversità di terminologie usate e di strumenti adottati per costruire l’integrazione.

Si riscontra comunque la consapevolezza diffusa del valore dell’integrazione a livello istituzionale attraverso la creazione di strumenti quali accordi di programma, tavoli inte-ristituzionali, gruppi tecnici, che promuovono e garantiscono dei luoghi in cui i diversi at-tori istituzionali possono sedere e confrontarsi. È vero che non sempre a un assetto for-male di coordinamento corrisponde una reale integrazione, ma ciò è dovuto anche al fat-to che i processi di integrazione sono lunghi e complessi perché impegnano dimensioni cul-turali, metodologiche, di gestione del potere. Tuttavia vi è uno sforzo anche descrittivo dei diversi strumenti che permette un confronto e una costruzione di processi di verificabili-tà.

Il lavoro di rete si realizza attraverso protocolli di intesa, accordi di programma ecc., ma richiede uno sforzo organizzativo a partire dalla routine e dalla prassi di lavoro con-solidate nelle modalità di funzionamento di ogni servizio (Dente, 2001). Un nodo critico è rappresentato dalle diverse terminologie impiegate, tanto che è utile rimandare al già citato Nomenclatore delCISISper individuare alcuni riferimenti comuni per leggere e comparare in-formazioni relativamente ai servizi.

4. Le questioni emergenti: criticità e prospettive

Sulla base delle argomentazioni e delle evidenze fin qui presentate, si possono indivi-duare alcuni punti di forza e alcune criticità del sistema integrato dei servizi che sono, in modo specifico per ogni servizio, qui di seguito individuate.