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I pacifisti italiani nell’ex Jugoslavia

Nel documento I pacifisti e l Ucraina (pagine 160-164)

Giulio Marcon

Le esperienze dei 15 mila pacifisti italiani che si sono recati nei paesi dell’ex Jugoslavia negli anni dei conflitti – con carovane di pace, missioni di solidarietà, accoglienza dei profughi – sono analizzate nel volume di Giulio Marcon “Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace” (Asterios, 2000).

Riprendiamo qui le parti che descrivono le pratiche di solidarietà del ‘pacifismo concreto’ (pagine 185-190).

In ex Jugoslavia le iniziative di volontariato, le esperienze di diplomazia popolare dal basso, l’azione umanitaria e il sostegno alle forze democratiche e non naziona-liste sono state le forme più originali di intervento e di mobilitazione della società civile italiana ed europea contro la guerra. I numeri evidenziano l’ampiezza che ha assunto questo movimento. Dall’inizio della guerra in ex Jugoslavia, si sono recati nelle zone.di conflitto oltre 15 mila volontari e operatori umanitari; sono stati promossi in loco oltre 900 progetti (interventi nei campi profughi, attività di assistenza, spedizione continuativa di beni umanitari), sono stati organizzati oltre 2200 convogli di aiuti, mentre in Italia – solamente attraverso la struttura del volontariato e delle associazioni – sono stati accolti oltre 4000 profughi. Difficile la quantificazione finanziaria di questi interventi; stime approssimative relative al valore degli aiuti inviati, allo spostamento di risorse in denaro e alla mobilitazione di mezzi e volontari danno una cifra di oltre 300 miliardi di lire (...).

La novità di questi anni è che la solidarietà si è dimostrata una via della politica e il volontariato una sua forma concreta. La denuncia, la protesta, la contestazione si sono via via arricchite della responsabilità attiva, dell’agire in prima persona volto ad aiutare le vittime della guerra. Dopo la guerra in Jugoslavia, l’importanza dell’impatto pacifista del lavoro di solidarietà nelle guerre civili è un punto fermo nella cultura del movimento per la pace: tale lavoro è uno strumento per conqui-stare la fiducia delle comunità coinvolte nel conflitto e per ristabilire dei ponti di dialogo, esercitando un ruolo di pacificazione concreto e sul campo.

Ha detto Alex Langer: “I pacifisti, anzi, sono più presenti che mai nel conflitto jugoslavo. Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinita quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace

e quant’altro. Un pacifismo (finalmente!) meno gridato, ma assai più solido e concreto. Il che vuol dire anche più complicato, perché la vita è complicata, e la pace non si ottiene per vie semplicistiche: né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute ‘buone’, e neanche con l’idea che un massiccio intervento armato esterno potrebbe pacificare la regione”.

Per usare la terminologia di Langer, questo “pacifismo concreto” ha reso possi-bile la crescita della cultura politica del movimento per la pace, emancipatasi dallo schematismo e dal dogmatismo politico e ideologico ereditato da altre epoche, verso una maggiore consapevolezza delle cause delle guerre civili, delle soluzioni possibili, del rapporto con i soggetti che si oppongono al nazionalismo. Il lavoro di solidarietà in ex Jugoslavia si è distinto dalla pratica della solidarietà internazio-nale terzomondista, legata al sostegno ai movimenti di liberazione, molto vicina a una solidarietà politica più che a una politica della solidarietà, come è stata portata avanti in ex Jugoslavia. Nell’esperienza italiana, il superamento del paci-fismo tifoso non ha avuto come conseguenza l’adesione a un pacipaci-fismo neutrale, ma – come andrebbe fatto in una guerra civile – la costruzione di un atteggia-mento rivolto ad apprendere e conoscere le ragioni di tutte le parti nel conflitto, pur condannando i crimini, le violenze, le violazioni dei diritti umani di tutte le parti in gioco.

Ha affermato Jean-Marie Muller: “Ma i membri di una missione di pace, di una missione cioè che mira, se non alla riconciliazione, quanto meno alla conci-liazione tra le due parti impegnate nel conflitto, non sono affatto investiti del mandato di non prendere parte per ‘nessuno dei due’ avversari, bensì di prendere partito ‘per tutti e due’. Essi si impegnano due volte, prendono partito due volte.

Questo doppio partito preso non è però mai senza condizione: ogni volta consiste invece in un partito preso di discernimento e di equità. In tal senso è possibile dire che i membri di un intervento civile non sono neutrali, bensì ‘equi’: essi si sfor-zano di dare a ciascuno il suo. In questo modo essi possono conquistarsi la fiducia di entrambi gli avversari e favorire il dialogo tra loro”.

Si potrebbe aggiungere che proprio questo è l’atteggiamento che la comu-nità internazionale non ha preso all’inizio dello scoppio delle guerre jugoslave, rinunciando a farsi carico di tutte le domande e le ragioni che le diverse parti rivendicavano. Naturalmente il pacifismo in ex Jugoslavia ha avuto molte anime, molteplici espressioni, diverse esperienze. Nell’intervento umanitario e di soli-darietà, accanto a esperienze politicamente consapevoli e critiche di solidarietà

si sono registrate iniziative culturalmente arretrate, acritiche, senza progettua-lità positiva. L’ambiguità dell’umanitario è sempre in agguato. È stata proprio la consapevolezza politica e critica del pacifismo a evitare o almeno ad arginare il rischio dell’ambiguità, costruendo una metodologia dell’intervento umanitario fondata sulla correttezza della scelta degli interlocutori locali, sulla valutazione dell’impatto di pacificazione e di quello sociale degli interventi e della promo-zione del dialogo tra le parti.

È evidente un dato di fatto: migliaia di pacifisti che avevano fino ad allora partecipato solamente a manifestazioni e a marce, a catene umane e a sit-in hanno scoperto il valore politico e di pacificazione dell’intervento umanitario, facendo volontariato, gestendo un progetto, accogliendo i profughi. Ma non si è trattato in molti casi della sostituzione di una pratica con un’altra; è stata invece un’in-tegrazione tra culture ed esperienze diverse. Non è un caso che molte di queste organizzazioni impegnate nell’azione umanitaria e solidale nella ex Jugoslavia siano state poi capaci anche di promuovere manifestazioni, azioni nonviolente, iniziative di lobby sul governo, di mettere in campo iniziative di diplomazia dal basso. A differenza del movimento contro gli euromissili degli anni ‘80 e anche, in parte, di quello contro la guerra del Golfo, è stata mantenuta una maggiore indipendenza dalle forze politiche: con la guerra in ex Jugoslavia il movimento pacifista ha rafforzato un’importante autonomia politica. In secondo luogo quest’e-sperienza ha prodotto un profondo radicamento sociale e nel territorio.

Sono nate dal lavoro in ex Jugoslavia centinaia di nuove organizzazioni e associazioni, reti e coordinamenti con una dimensione progettuale e attività permanenti. Infine è da ricordare che, essendo stata la guerra jugoslava una guerra europea che ha investito alcuni punti critici della modernità e che si è svolta proprio nel momento cruciale della costruzione europea, questo arcipelago di pacifismo solidale ha avuto modo di mettere in relazione concreta il lavoro umanitario con le prospettive dell’integrazione europea e con le trasformazioni delle politiche occidentali di fronte ai temi della cittadinanza, dello stato, della convivenza.

Non è dunque un caso che le prime esperienze di volontariato pacifista siano nate proprio negli ambienti pacifisti più radicalmente politici e che l’idea di creare il Consorzio Italiano di Solidarietà – ICS, coordinamento di centinaia di organiz-zazioni pacifiste, di volontariato, di solidarietà , sia stata proposta formalmente in una riunione a latere del III congresso dell’Associazione per la pace (Bologna,

marzo 1993), che era stata fondata cinque anni prima all’insegna dello slogan:

“portare il pacifismo nella politica”. Nove mesi prima (giugno 1992), circa 300 pacifisti e volontari si erano incontrati a Padova per dare vita a un’Assemblea nazionale dei progetti di pace e di solidarietà con i territori della ex Jugoslavia, aprendo un processo di coordinamento e di iniziativa comune del volontariato pacifista. Da appena un mese e mezzo era scoppiata la guerra a Sarajevo e in Bosnia Erzegovina.

L’identità dell’ICS fu chiara sin dall’inizio. In una delle prime pubblicazioni dell’ICS (1993), parlando del fenomeno del volontariato si affermava: “Si è trat-tato all’inizio di un moto di solidarietà spontaneo. Poi si è meglio organizzato, si è dato strutture, servizi, una maggiore programmazione dell’intervento in loco, nell’invio degli aiuti umanitari, nell’accoglienza dei profughi. Nel corso del nostro lavoro abbiamo stretto contatti e collaborazioni permanenti con gli organismi internazionali (ACNUR, Programma alimentare mondiale, UNICEF) e con le isti-tuzioni italiane (Ministero Affari Esteri, Tavolo di coordinamento per la Bosnia), gli enti locali (...). Ma c’è anche un aspetto (principale e non secondario) che ha caratterizzato l’azione del Consorzio Italiano di Solidarietà. Un’azione non pura-mente umanitaria, ma che – attraverso la solidarietà – ha svolto un ruolo di pace:

di promozione del dialogo, della riconciliazione, della difesa dei diritti umani.

L’azione di solidarietà del Consorzio è stata anche una sorta di ‘diplomazia popo-lare dal basso’, di sostegno alle forze democratiche, non nazionaliste, contrarie alla guerra”.

L’esperienza del volontariato pacifista ha avuto e continua ad avere delle conse-guenze, oltre che sulla cultura del movimento per la pace, anche sulle politiche e sull’intervento umanitario della cooperazione governativa e non governativa (...).

L’esperienza dell’intervento umanitario in ex Jugoslavia ha valorizzato concreta-mente, al contrario di quello che era avvenuto negli anni passati nelle politiche della Cooperazione italiana, il ruolo degli enti locali e della cooperazione decen-trata, le organizzazioni di base, le associazioni e le forze sociali, il volontariato popolare. Si è sviluppato durante l’emergenza in Jugoslavia un consistente movi-mento di solidarietà e cooperazione popolare e diffusa, con cui alcuni settori e funzionari più lungimiranti della Cooperazione italiana sono entrati in proficuo dialogo stabilendo un rapporto di efficace collaborazione.

Giulio Marcon, “Dopo il Kosovo. Le guerre nei Balcani e la costruzione della pace”, Asterios, 2000, pp. 195-190

Nel documento I pacifisti e l Ucraina (pagine 160-164)