Martino Mazzonis
La guerra in Ucraina ha radici profonde, una dinamica complicata e la fine del conflitto dipende dal complesso mosaico di forze in azione a Mosca e a Kiev, sul campo di battaglia e nella diplomazia internazionale.
Come siamo arrivati alla guerra in Ucraina? Le cause sono diverse, si incrociano e sovrappongono tra loro e per metterle in fila occorre andare indietro di qualche anno. È certo che sulla pelle dell’Ucraina si gioca una battaglia sugli assetti geopo-litici che avrà effetti di lungo periodo. Nella strategia di Vladimir Putin non c’è solo l’idea di proteggere le popolazioni russofone del Donbass e neppure l’even-tuale possibilità che Kiev entri a far parte a pieno titolo dell’Alleanza atlantica. Il problema cruciale per la Russia è la relazione con l’occidente e l’Europa (forse più questa che la Nato) e la necessità quasi biografica di riscattare il suo Paese dopo che l’Urss uscì sconfitta dalla guerra fredda e subì quelle che ha vissuto come una serie di umiliazioni.
L’Alleanza atlantica è stata estesa a molti Paesi del blocco ex sovietico, anche su pressione di alcuni di questi, preoccupati per l’influenza di Mosca, senza che si creasse un più ampio sistema di sicurezza europeo capace di integrare anche la Russia. Questo ha mandato a Mosca il segnale che la Russia continua e essere percepita come un nemico, e in questo Stati Uniti ed Europa sono stati assai miopi. E con l’invasione dell’Ucraina la logica dei blocchi militari rischia di allargarsi ancora: la Moldavia e la Georgia si sono ulteriormente avvicinate a Europa e Nato.
In Ucraina le radici della crisi sono nel 2004-2005, con le rivolte anti-corru-zione, le mobilitazioni per la democrazia, le spinte nazionaliste, le pressioni filo-russe in varie regioni del paese, variamente sostenute dall’occidente da un lato e dalla Russia dall’altro. L’alternarsi di governi corrotti, sia filo-occidentali che filo-russi, non offre stabilità al paese e nel 2014 scoppiano le proteste di “Euro-Maidan” contro il presidente Viktor Yanukovych, dopo che questi aveva congelato la firma sull’accordo di partnership economica con l’Unione europea citando la necessità di ulteriori negoziati con la Russia. La dura repressione alimenta scontri armati tra forze governative e milizie nazionaliste e di estrema destra, con il loro
portato di vittime e rancori depositati. Il presidente lascia e il nuovo governo di Petro Poroshenko apre all’occidente.
La risposta russa alla rivolta a Kiev è l’annessione della Crimea e il sostegno più attivo alla spinta indipendentista delle regioni a maggioranza russa, nel Donbass, dove le forze filo-russe si scontrano con le milizie armate dei gruppi nazionalisti di estrema destra sostenuti da oligarchi e politici ucraini. In queste regioni le divi-sioni politiche si riflettevano fin dal voto alle elezioni presidenziali tra il 1999 e il 2010, con linee di demarcazione geografica molto evidenti; in tutti questi anni la politica nazionale e internazionale non ha fatto nulla per ricomporre il conflitto.
Dal 2014 in poi Crimea a Donbass non votano più nelle elezioni ucraine.
Una possibile soluzione del conflitto emerge con gli accordi di Minsk del 2014, che garantivano più autonomia alle regioni dell’est e il mantenimento delle frontiere esterne dell’Ucraina. Ma nessuna delle parti ha davvero lavorato per realizzarli; l’occidente accompagna i governi di Kiev, fino all’elezione di Zelen-sky, senza adoperarsi per isolare le forze più radicali nazionaliste e il potere delle milizie di estrema destra; Mosca fornisce sostegno materiale e giustificazione ideologica (e passaporti) agli indipendentisti. Su entrambi i fronti si combattono nazionalismi esclusivi e radicali, sostenuti direttamente o indirettamente da forze esterne. Il cocktail perfetto perché, prima o poi, la situazione degeneri.
È in questo contesto che Putin ha deciso di invadere l’Ucraina, immaginando che l’Europa e gli Stati Uniti avrebbero preso strade in parte diverse e contando su una certa acquiescenza nei confronti delle sue azioni. L’uso della forza militare era già stato sperimentato da Mosca che nell’ultimo decennio ha “rimesso a posto” la Georgia, è intervenuta in Ucraina occupando la Crimea, ha sostenuto il generale Haftar in Libia e, soprattutto, ha di fatto vinto la guerra civile siriana grazie a un uso massiccio e brutale della forza. La risposta occidentale è stata in alcuni casi il sostegno agli oppositori di Mosca e nuove sanzioni, ma non un confronto diretto e neppure indiretto (in Siria). L’America, da parte sua, era scottata dai disastri delle sue guerre in Iraq e Afghanistan e con la presidenza di Donald Trump si era ripie-gata su se stessa.
Nella strategia di Putin hanno contato anche gli equilibri di potere a Mosca.
La politica verso l’Ucraina è anche il riflesso della cultura politica del presidente russo, che mescola nazionalismo, autoritarismo, valori tradizionali con i quali ottiene il sostegno della (conservatrice) chiesa ortodossa e che vede nella spinta all’occidentalizzazione dei Paesi vicini un pericolo per la sua Russia. In questo
senso è anche una questione di tenuta interna. E la rivolta in Bielorussia è forse stata cruciale: che succederebbe se attorno alla Russia i Paesi cominciassero a somigliare più a una democrazia europea che non a Stati autoritari e corrotti?
E poi ci sono le trasformazioni al vertice del potere a Mosca. Gli oligarchi, la classe dirigente arricchitasi con le privatizzazioni corrotte delle risorse natu-rali russe e delle imprese ex-statali, hanno trasferito in occidente buona parte delle proprie ricchezze, ma hanno avuto destini diversi. Alcuni sono emigrati in occidente, Mikhail Khodorkhovsky è finito in carcere, Boris Berezovsky si è misteriosamente “suicidato” a Londra, dopo essere stato sostenitore di Putin, suo oppositore, finanziatore in Ucraina della rivoluzione arancione del 2004 e, forse, anche della campagna presidenziale del filo occidentale Viktor Yuschenko.
Quel gruppo di potere mantiene ricchezze e sostiene il regime ma è stato messo ai margini del potere politico da Putin, utilizzando una nuova generazione di oligarchi, come scrive Anatol Lieven: “La grande maggioranza dell’élite sotto Putin proviene dal Kgb o da ambienti associati (anche se non dalle forze armate).
Questo gruppo è rimasto notevolmente stabile e omogeneo sotto Putin, tutti sono (o erano) vicini a lui personalmente. Sotto la sua guida, hanno saccheggiato il loro paese (anche se, a differenza dei precedenti oligarchi, hanno mantenuto la maggior parte della loro ricchezza all’interno della Russia) e hanno partecipato o acconsentito ai suoi crimini (…). Questa guardia pretoriana di poche persone, tutte al vertice dello Stato e del suo apparato di sicurezza è stato accuratamente ritratta come profondamente corrotta – ma la loro corruzione ha caratteristi-che speciali. Il patriottismo è la loro ideologia e l’auto-giustificazione della loro immensa ricchezza” (Anatol Lieven, Inside Putin Circle. The Real Russian Elite, Financial Times, 10 marzo 2022, https://www.ft.com/content/503fb110-f91e-4bed-b6dc-0d09582dd007).
L’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di un ristretto gruppo di oligarchi ha indebolito gravemente l’economia e la tenuta sociale del paese.
È stato questo l’esito di come, con la dissoluzione dell’Unione sovietica, l’occi-dente ha favorito la transizione verse un’economia di mercato. Secondo Katharina Pistor, che insegna alla Columbia Law School di New York, negli anni ’90 “i rifor-matori e i loro consiglieri occidentali hanno deciso che le riforme del mercato dovevano precedere quelle costituzionali. Le sottigliezze democratiche avrebbero ritardato o addirittura minato la politica economica. (…) Con riforme radicali di mercato, il popolo russo avrebbe visto ritorni tangibili e si sarebbe innamorato
della democrazia” – ha scritto. “È stato un errore, la presidenza Eltsin si è rivelata un disastro economico, sociale, legale e politico. Rivedere un’economia pianifi-cata nello spazio di 13 mesi si è rivelato impossibile. La liberalizzazione dei prezzi e del commercio da sola non ha creato mercati. Ciò avrebbe richiesto istituzioni legali, ma non c’era tempo per crearle (…), la terapia d’urto ha generato disor-dini sociali ed economici così gravi e improvvisi che ha messo il pubblico contro le riforme e i riformatori” (Katharina Pistor, From Shock Therapy to Putin’s War, https://www.project-syndicate.org/commentary/1990s-shock-therapy-set-stage-for-russian-authoritarianism-by-katharina-pistor-2022-02). La Russia sta ancora facendo i conti con gli errori di quella transizione, che si sono ora irrigiditi nelle strutture economiche e sociali del paese e che alimentano la politica nazionalista e autoritaria di Mosca.
Quali sono allora le forze che possono spingere per un accordo di pace? Il terreno per un negoziato che metta fine alla guerra è particolarmente incerto.
Il presidente Putin sembra fermo nelle sue richieste – demilitarizzazione, indi-pendenza delle regioni autonome, riconoscimento dell’annessione della Crimea, neutralità e non ingresso in Europa. In queste settimane in diversi si sono propo-sti come mediatori nel conflitto, ma l’Europa non è apparsa come un interlocutore credibile, piuttosto come una parte in causa: i tentativi di dialogo di Macron e Scholz sono stati messi in ombra dai clamori bellicisti e dalle forniture di armi europee a Kiev.
Altri sono così i Paesi che stanno svolgendo un lavoro di intermediazione. Il loro ruolo, gli equilibrismi e le complicazioni regionali, le alleanze e compor-tamenti non coerenti con l’ordine mondiale che conosciamo, ci indicano come negli ultimi dieci anni molte cose siano cambiate. Israele, storico alleato ameri-cano, è in una posizione ambigua per via della questione siriana: se vuole colpire come fa miliziani islamisti e filo iraniani in quel territorio deve mante-nere buone relazioni con Mosca, che è pure seduta al negoziato sul nucleare con l’Iran, che Israele non vuole – per questo ha mantenuto una posizione ambigua nel condannare l’invasione.
La Turchia ha un rapporto complicato con Mosca: ha comprato armi facendo infuriare la Nato, dipende per il 40% dal gas russo, ma si è schierata sul fronte opposto a Mosca nelle guerre in Siria, Libia, Nagorno-Karabakh (dove l’Azerbai-jan ha sconfitto l’Armenia, protetta di Mosca). Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba hanno tenuto il loro primo
incon-tro ad Antalya, in Turchia. Anche gli Emirati Arabi Uniti sono al lavoro: il piccolo e ricco Paese ha investito molto in Russia, coopera con Mosca in Libia e sta diven-tando la base di molti dei nuovi ricchi di Mosca.
Sullo sfondo due grandi potenze asiatiche: India e Cina. Il premier indiano Modi è parte dell’iniziativa americana per contenere la Cina (il Quad), ma il suo esercito dipende molto dall’industria delle armi russa e New Delhi si è astenuta nel voto di condanna dell’invasione all’assemblea Onu.
La Cina è un difensore storico del principio di non ingerenza e sovranità, clamo-rosamente violato da Mosca in Ucraina, ma ha stabilito una varietà di accordi con la Russia e si è si è astenuta nel voto all’assemblea dell’Onu. Può avere benefici dall’indebolimento reciproco dell’occidente e della Russia, ma vuole mantenere buoni rapporti con l’Europa, con cui aveva nel 2021 un surplus commerciale di 248 miliardi ed è soprattutto preoccupata di evitare un’instabilità internazio-nale che renderebbe più complicata la sua ascesa come potenza globale. Da qui la cautela e l’ambivalenza di Pechino, ma anche l’atteggiamento “responsabile”
che è emerso nel colloquio tra Xi Jinping e Joseph Biden del 18 marzo. Pechino sembra avere un ruolo crescente, ma come spesso accade tende a volerlo svolgere lontano dal clamore mediatico.
Che di fronte ai negoziati diretti tra Kiev e Mosca e allo stallo su alcune questioni cruciali – quale neutralità e quali garanzie di sicurezza per Mosca, quale status giuridico accettabile per i territori autonomi – l’Europa non abbia una posizione precisa e non avanzi le sue proposte rende ancora più complicato immaginare come sarà il “dopo-guerra” per il continente. Intanto, in Ucraina, la guerra continua.
21 marzo 2022