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Pietro Aretino: una penna mordace alla corte romana

Già svariate volte abbiamo fatto il nome dell’Aretino. Lo abbiamo fatto non secondo una scelta dettata dal caso: tra i vari intellettuali dell’epoca, egli si innalza quale rappresentante emblematico di una vera e propria rivoluzione epistemica che vede i versi erotici ed arditamente pornografici come un nuovo paradigma letterario rinascimentale. Perché proprio l’Aretino abbia assunto tale ruolo, è una domanda che a ragione va posta. Nel tentativo di dare anche una risposta chiamiamo alla mente le parole del De Sanctis, che, contro la diffidenza dei moralisti settecenteschi, meglio di ogni altro ha saputo raccontare dell’istinto di libertà e ribellione che guizza nel temperamento del poeta:

La sua vita interiore, cosi spontanea e piena di forza produttiva, mal vi si può adagiare [al pedantismo]. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo. E chiama «pedantismo» quel veder le cose non in se stesse e per visione diretta, ma attraverso preconcetti, di libri e di regole. Quegli inviluppi di parole e di forme gli sono odiosi come l’ipocrisia, quel coprirsi della larva di un’affettata modestia, invilupparsi nella pelle della volpe e predicar l’umiltà e la decenza, senza valer meglio degli altri204.

Da queste parole emerge chiaro come in Aretino ci sia prima di tutto una volontà di indagare il vero, nonostante si riveli il più delle volte spiacevole. È come se egli prendesse il mondo e lo sollevasse contro luce, a voler palesare gli aspetti più segreti e vili di cui esso è fatto: tutto è osceno e libidinoso, tutto è sul mercato ed è falso, non resta nulla di sacro205. Aretino si fa, dunque, coscienza e specchio del suo secolo e, del

resto, è proprio il suo secolo a renderlo grande e popolare, in quanto «corteggiato dalle donne, temuto dagli emuli, esaltato dagli scrittori, così popolare, baciato dal papa e che

204 F. De Sanctis, Storia della letteratura Italiana, introduzione di R. Wellek, note di G. Melli Fioravanti, BUR, Milano 2018, p. 656.

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cavalca a fianco di Carlo V»206. Ma prima di procedere nell’esaminare l’opera di un

personaggio tanto particolare, una figura tanto temuta quanto acclamata, sarà bene conoscerlo meglio e dare alcuni cenni essenziali relativi alle sue vicende biografiche, alle circostanze storiche in cui si trova a vivere e al suo percorso letterario207.

Pietro Aretino nasce il 4 aprile 1492 ad Arezzo, città dove trascorre i primi quindici anni di vita, per poi trasferirsi a Perugia per circa un decennio: qui avviene la sua iniziazione alla pittura e alla poesia, chiaramente petrarcheggiante, come le tendenze del tempo impongono. Nel 1512 viene pubblicata l’Opera nova del Fecundissimo Giovene Pietro Pictore Aretino, opera che si presenta per lo più come un’esercitazione scolastica su temi precostituiti, ma che reca traccia del costituirsi nel poeta di un «un bagaglio stilistico-retorico tendenzialmente aulico, di cui l‘Aretino non riuscirà mai a liberarsi completamente»208, oltre che di un dignitoso insieme di conoscenze, prova di

una certa competenza culturale spesso messa in dubbio dagli avversari.

Successivamente, nel 1517, assistiamo al suo trasferimento a Roma. Qui egli trova una città sottoposta all’egemonia del papato, le cui circostanze economiche e politiche sono piuttosto svantaggiose, a dispetto di una situazione culturale ed artistica irripetibile ed eccezionale. Le vicende che interessano la città in questo periodo storico sono strettamente intersecate alla lotta per la supremazia d’Europa, che vede in prima linea il contendere di Francia e Spagna. L’armistizio di Lione (1504) aveva segnato le rispettive sfere d’influenza sul territorio italiano delle due grandi nazioni: francese al nord, spagnola al sud. Questo eccessivo dominio straniero in Italia preoccupa Papa Giulio II (1443-1513), il quale istituisce una nuova alleanza volta a ridimensionare il potere francese, la Lega Santa (1511), appoggiata da Spagna, Inghilterra, Venezia e Svizzera. Segue una serie di scontri: dopo svariate vittorie della fazione francese (nel 1512 con la battaglia di Ravenna e, di nuovo, nel 1515 con la battaglia di Marignano), le sorti si volgono a favore della Spagna: Carlo V d’Asburgo (1500-1558) sconfigge i

206 De Sanctis, Storia della letteratura Italiana, cit., p. 650.

207 Per le vicende biografiche sinteticamente delineate all’interno di questo paragrafo sono state seguite le notizie tratte dagli studi: F. Sberlati, L’infame. Storia di Pietro Aretino, Marsilio, Venezia 2018; P. Larivaille, Pietro Aretino, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, IV (Il primo Cinquecento), Salerno Editrice, Roma 1996; P. Larivaille, Pietro Aretino, Salerno Editrice, Roma 1997.

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francesi a Pavia (1525) facendo prigioniero il re Francesco I (1494-1547) e costringendolo alla resa con il Trattato di Madrid (1526); ma Francesco I non rispetterà il trattato, e darà vita ad una nuova alleanza antiasburgica, la Lega di Cognac (1526), cui aderiranno Inghilterra, le città di Firenze, Milano, Venezia ed, infine, allarmato dall’eccessivo potere della Spagna in Italia, anche papa Clemente VII (1478-1534), cui spettano le responsabilità delle sorti di Roma.

La città che l’Aretino trova al suo arrivo, dunque, è una città che è tesa alla costruzione di un’immagine gloriosa di sé, alla legittimazione del potere pontificio e impegnata anche nella delicata gestione delle alleanze giocate sul territorio italiano. In questo contesto il poeta viene accolto sotto l’ala di Agostino Chigi alla corte del quale conosce Raffaello, artista che susciterà la profonda ammirazione del poeta principalmente per la sua capacità di incarnare una risposta individuale alla crisi culturale del Rinascimento209.

Presto, probabilmente grazie allo stesso Chigi, riesce a mettersi a servizio del cardinale Giulio de’ Medici (1478-1534) e successivamente alla corte di papa Leone X (1475-1521), figura di grande magnanimità, in grado di dare ordine alla repubblica in maniera tale da farla riapparire con lo splendore dei tempi antichi. La morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1521, offre all’Aretino la tempestiva occasione di potersi affermare come autore di pasquinate, delle quali si andava rianimando il genere, e di farlo a favore dell’amico cardinale, in vista del conclave che di lì a breve avrebbe condotto a nuove elezioni.

In queste circostanze Aretino perfeziona il filone della pasquinata: la sua scarsa conoscenza della cultura classica gli permette di volgere il genere dal nobile ambiente aristocratico verso una «dimensione urbana parecchio più vasta»210, elaborando un

personalissimo stile intarsiato di «allusività insidiosa e subdola malignità»211 che

ritornerà poi in numerose delle sue opere.

209 Sberlati, L’infame, cit., p. 19. 210 Ibid., p. 37.

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‘Pur evitando ogni indebita sopravvalutazione di questa produzione giovanile, è fuor di dubbio che Aretino riesca ad adeguare alla rigida struttura della pasquinata una pluralità di toni e motivi, affidati a una complessità sintattica che trova corrispondenza nella fluida varietas della poesia comico-realista di fine Quattrocento’212.

Commenta così Sberlati, intendendo affermare con ciò che la grande innovazione del poeta consiste nel rompere la codificazione del genere, debordando dal genere satirico e andando a denigrare anche gli aspetti politici e talora religiosi dell’epoca, e adottando, allo stesso tempo, gli stilemi della poesia volgare “alla burchia” a lui immediatamente precedenti.

La nuova strada letteraria intrapresa, dunque, gli permette parallelamente di insinuarsi tra le vicende politiche del tempo, promuovendo se stesso attraverso una fitta rete di conoscenze e ottenendo appoggio dalle figure più importanti della società; si tratta di un aspetto fondamentale, che vede il delinearsi nella figura dell’Aretino l’immagine di uno scrittore consapevole del valore commerciale e sociale della propria letteratura, quale strumento attraverso cui il potere politico può garantirsi la sua sopravvivenza213.

La notorietà politica va di pari passo con quella sociale, così, la precocissima fama di mordacità che lo accompagna, di uomo «gioviale e intelligente, dotato d'una sfacciataggine ch'era insieme improntitudine e oculata sagacia, prudente all'occorrenza e sempre attento a captare impressioni e sensazioni d'ogni genere»214 lo rendono presto

un personaggio insostituibile all’interno del panorama culturale romano.

Tuttavia, lo sappiamo già, avere a che fare con il potere politico significa essere anche facilmente passibili di censura e condanne, così, dopo l’elezione a nuovo pontefice del fiammingo Adriano VI (1459-1523), il forte risentimento violentemente espresso dall’Aretino per questa scelta, lo costringeranno presto ad un allontanamento da Roma e ad un periodo di brevi soggiorni prima a Bologna, poi ad Arezzo, a Firenze,

212 Sberlati, L’infame, cit., p. 38.

213 Corsaro, La regola e la licenza, cit., p. 13; una prima rivendicazione della consapevolezza dello scrittore circa la valenza “economica” della sua opera, dice Corsaro, era già accennata nei «passi del Furioso XXXV» dell’Ariosto, riguardanti «la poesia come attività che costruisce la fama del signore nella storia». 214 Cit. tratta alla voce ARETINO, Pietro, in G. Innamorati, Dizionario bibliografico degli italiani, IV (1962) in www.treccani.it, risorsa online.

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a Mantova nel febbraio del 1523, su invito del marchese Federico II Gonzaga (1500- 1540) e, infine, a Reggio Emilia, presso Giovanni de’ Medici, il famoso condottiero delle Bande Nere (1498-1526).

Sarà un periodo di peregrinazioni che finirà prima del previsto, dal momento che nel settembre 1523 Adriano VI muore e Giulio de’ Medici, amico del poeta, diviene nuovo pontefice con il nome di Clemente VII. L’Aretino, illudendosi di poter accedere ora a funzioni importanti, torna a Roma, ma contrariamente alle aspettative, le speranze del poeta s’infrangono contro l’incerta politica del nuovo papa e soprattutto contro la volontà del datario pontificio Gian Matteo Giberti, uomo poco disposto a tollerare le spavalderie dello scrittore. In particolare, tra la primavera e l’estate del 1524 (o del ’25, secondo una diversa ipotesi), lo scontro tra i due avviene a carte scoperte: motivo scatenante è la scoperta di alcuni disegni ritraenti atti osceni, realizzati da Giulio Romano e successivamente incisi su delle calcografie da Marcantonio Raimondi. L’incarcerazione di quest’ultimo incontra il disaccordo dell’Aretino, il quale cerca di farlo liberare e, in occasione di questa circostanza, realizza la celebre serie dei Sonetti lussuriosi, da accompagnare alle incisioni.

L’equilibrio con la corte pontificia è ormai rotto. Oltre alla raccolta dei Sonetti, sulla quale verterà il nostro maggiore interesse, nella primavera del ’25 scrive sia la Cortigiana, all’interno della quale forti sono i tratti caricaturali e pasquineschi che investono l’immagine della curia, che i Dubbi amorosi, una serie di componimenti in ottave che descrive le coeve questioni in voga negli ambienti degradati, tra cortigiane, prostitute e mariti. Il risultato complessivo è quello della manifesta espressione di una volontà fortemente demistificatoria dell’élite di corte, di uno sguardo disilluso e al tempo stesso rabbioso, gettato sulla classe aristocratica romana.

Ma le vicende politiche non sono il solo aspetto da considerarsi. La lotta dell’Aretino è volta a mettere in ridicolo non soltanto i rappresentanti del potere, contro i quali, sembra chiaro, ha intrapreso una dura guerra personale, ma, inserendosi nel momento antipetrarchista e antibembiano del tempo, si indirizza anche contro le varie «petrarcherie», con una volontà di ripensamento stilistico dichiaratamente oppositivo rispetto alla forma illustre che in questi anni domina la scena.

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In tal modo il nostro poeta fa parte (anzi, risulta essere una delle voci più forti) del quadro culturale e sociale già sufficientemente delineato: quello di una cultura letteraria da troppo tempo soffocata dal culto del Petrarca, che sente dirompente l’esigenza di opporsi a esso, anche praticando un modo di poetare che mette in scena l’osceno ed il turpe senza scrupoli e senza paludamenti.

L’Aretino avverte la necessità di attinenza al vero linguistico e lo concretizza, servendosi di un linguaggio che si svincola da preziosi arcaismi e dalla pedanteria, come anche dall’adesione alla sola lingua tosco-fiorentina, e s’indirizza piuttosto verso un plurilinguismo rappresentativo di uno stretto legame tra verità della rappresentazione e verità dei linguaggi. Siamo di fronte ad opere proprie di un Pasquino che, oltre che il toscano,

cicala ogni tempo greco, còrso, francese, todesco, bergamasco, genovese, veneziano e da Napoli; e questo perch‘una Musa nacque in Bergamo, l‘altra in Francia, questa in Romagna, e quella in Chiasso, e Calliope in Toscana215.

I Sonetti lussuriosi partecipano a questa poetica di adesione al vero; la scelta stessa di commentare le incisioni del Raimondi per mezzo del componimento scritto, è quanto di più controtendenza si potesse attuare. Riallacciandosi all’uso di Raffaello di comporre sonetti sugli stessi fogli sui quali aveva steso i suoi disegni, il poeta cerca di costruire una «conformità ideologica, che intride perfino il lessico, tra paradigma letterario e composizione visiva»216. I componimenti non vogliono limitarsi ad

illustrare, o imitare, le incisioni a cui si legano, ma si rapportano ad esse con spirito di «emulazione fra scrittura e disegno», che mira ad andare oltre la forza dell’incisione e mettere in poesia, attraverso una forte densità espressiva, la realtà stessa rappresentata nell’immagine217.

Chiaramente, l’Aretino sa che l’intercessione a favore dell’amico incisore è una scelta che va inevitabilmente ad irritare le figure di spicco della società romana; va da sé che, a questo punto della vicenda, però, i già difficili rapporti con il Giberti

215 Pietro Aretino, Cortigiana (1525), in ID., Teatro, a cura di P. Trovato – F. Della Corte, I, Salerno, Roma 2010 (Edizione Nazionale delle Opere di Pietro Aretino, V) pp. 29-204 , p. 65.

216 Sberlati, L’infame, cit., p. 69.

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peggiorano a tal punto che, nel luglio del medesimo anno, il poeta subisce un’aggressione fisica da parte di un mandato, Achille Della Volta, e si vede nuovamente costretto ad abbandonare la città218. Dopo aver fatto di nuovo una tappa presso l’amico

Giovanni de’ Medici, Pietro Aretino si ferma alcuni mesi alla corte mantovana, cedendo alle insistenze di Federico Gonzaga, per poi stabilirsi a Venezia nel marzo del 1527. La città lagunare, si presenta, agli occhi dello scrittore, ben diversa dalle altre corti settentrionali: essa vive un peculiare momento socio-economico, all’interno del quale chi detiene il potere gestisce il bene comune in maniera tale da consentire una diffusa distribuzione della ricchezza, piuttosto che farne uno strumento di perseverazione dinastica, ragione per cui la popolazione si trova a vivere tra gli agi e l’opulenza, arricchita da una fiorente stagione artistica e culturale219.

In questo ambiente l’Aretino trova un luogo sicuro all’interno del quale vivere protetto, puntando sulla bizzarria della sua personalità e sull’estro mordace della sua penna, più che sull’autorevolezza letteraria, diviene in breve uno dei punti di riferimento per tutta la città, e per trarre il maggior vantaggio possibile dallo status di immigrato che lo circonda, punta a mette in evidenza la condizione di intellettuale in fuga da Roma, cosa che lo rende una figura affascinante al nuovo220; tuttavia, assistiamo

contemporaneamente ad una maturazione letteraria dello scrittore-Pasquino, che si indirizza verso la ricerca di un’espressione non più immediata e vicina al parlato, ma più meditata e più ricercata nella forma. Di certo c’è di fondo una diversità di atteggiamento che deriva da una nuova percezione della propria figura di scrittore e della funzione che il poeta si sente chiamato a svolgere e, nei termini propri di una novità poetica, a incarnare. Sono anni in cui stringe amicizia con Tiziano e con il Sansovino e si amalgama con estrema facilità agli esponenti culturali e politici principali entrando nelle grazie dei ceti dirigenti. L’evento del Sacco di Roma (1527),

218 Dell’attentato troviamo testimonianza anche all’interno di Niccolò Franco, Rime contro Pietro Aretino, a cura di E. Sicardi, Carabba, Lanciano 1916, 125, vv. 1-4, p. 60: «Achille de la Volta, bolognese,/ le man ti bascio de le man reine/ per quelle pugnalate pellegrine,/ch’a l’Aretino desti su l’arnese» 219 Sberlati, L’infame, cit., p. 156.

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parallelamente, accresce la sua fama di esperto in fatti politici, in quanto il fatto era già stato da lui pronosticato, tanto più che si guadagna il nome di “Quinto Evangelista”221.

La Repubblica veneta diviene, insomma, patria d’elezione del nostro poeta e questi può così proseguire, senza troppi ostacoli, la sua attività di scrittore contro il potere, continuando a stilare fino al 1534 i Pronostici, detti anche Giudizi, componimenti satirico-burleschi nei quali ogni anno distribuisce «lodi e sarcasmi proporzionati alla considerazioni manifestatagli da principi»222. La sua fama, anzi, accresce al punto che

anche le personalità più importanti della scena del tempo gli recano omaggi: Carlo V gli offre una pensione annua di 200 ducati in virtù della sua influenza sui fatti di politica, mentre da Francesco I riceve in dono una collana d’oro. Una serie di riconoscimenti che rendono ancor più solida ed affermata l’immagine di un poeta la cui penna tutto può, immagine alla quale Aretino ambisce sin dai suoi esordi letterari e che vedrà fine soltanto con la sua morte, che avviene nell’ottobre del 1556.

Genesi dei Sonetti lussuriosi

Abbiamo per ora solamente accennato alle vicende che riguardano la nascita dei Sonetti lussuriosi dell’Aretino, ma se scendiamo nel dettaglio della documentazione che permette di ricostruire il contesto storico e culturale, ci rendiamo conto che le circostanze che riguardano la realizzazione della serie sono piuttosto controverse e non permettono di giungere a un parere condiviso gli studiosi223. Punto su cui tutti

221 L’appellativo rimanda al parodico Iudicio over pronostico de Mastro Pasquino quinto evangelista de l’anno 1527, un libello composto tra il febbraio e il marzo 1527 che conteneva impetuose invettive e augurava imminenti rovine sul papato, poi confermate dalla devastazione del maggio di quell’anno. Vedi: A. Luzio, Pietro Aretino nei primi suoi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga, E. Loescher, Torino, 1888, pp. 8-9. 222 Larivaille, Pietro Aretino, cit., 1996, p. 758.

223 Per la ricostruzione delle vicende che interessano la genesi dei sonetti sono stati tenuti in considerazione gli studi effettuati da Paul Larivaille, Danilo Romei e Bette Talvacchia: P. Larivaille, Sulla datazione dei Sonetti Lussuriosi, in Pietro Aretino. Nel cinquecentenario della nascita, (Atti del Convegno di Roma- Viterbo-Arezzo (28 set.-1ott. 1992), Toronto (23-24 ott. 1992), Los Angeles (27-29 ott. 1992)), t. II, Salerno Editrice, Roma 1995, pp. 599-617; Pietro Aretino, Sonetti lussuriosi, ed. e commento di Danilo Romei (nuova ed. riveduta e corretta), in Banca Dati “Nuovo Rinascimento”,

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sembrano concordare è lo spunto figurativo piuttosto che letterario della vicenda: prima di ogni altra cosa, sono i disegni di Giulio Romano; una serie di sedici scene ritraenti varie posizioni dell’atto sessuale, si potrebbe quasi dire una sorta di «kamasutra rinascimentale»224.

Negli anni ’20 del Cinquecento Giulio è un artista che sembra godere di una certa notorietà a Roma; la sua formazione ruota attorno la conoscenza di motivi antichi e classici ai quali applica una serie di argute variazioni, frutto di audaci improvvisazioni225.

La paternità dei disegni ritraenti “i Modi”, dai quali tutta la vicenda ha origine, gli viene riconosciuta dalla maggior parte degli esperti, supportata dalle parole dello stesso Aretino nella lettera dedicatoria che invia, insieme ai sonetti, al chirurgo Battista Zatti: [1] Dapoi ch’io ottenni da papa Clemente la libertà di Marcantonio Bolognese, il quale era in prigione per avere intagliato in rame i XVI modi etc., mi venne volontà di veder le figure, cagione che le querele gibertine esclamavano che il buon vertuoso si crocifigesse; e vistele, fui tocco da lo spirito che mosse Giulio Romano a disegnarle. [2] E perché i poeti e gli scultori antichi e moderni sogliono scrivere e scolpire alcuna volta per trastullo de l’ingegno cose lascive, come nel Palazzo Chisio fa fede il satiro di marmo che tentava di violare un fanciullo, ci sciorinai sopra i sonetti che ci si veggono ai piedi, la cui lussuriosa memoria vi intitolo con pace degli ipocriti, disperandomi del giudizio ladro e de la consuetudine porca che proibisce agli occhi quel che più gli diletta. [3] Che male è il veder montare un uomo adosso a una donna?226

Tuttavia, altri documenti ci testimoniano una diversa paternità dei disegni: Ludovico Dolce coinvolge nella vicenda Raffaello, pur con una certa riserva, affermando che fu questi che «disegnò in carte e fece intagliare a Marc’Antonio in rame»227;

un’affermazione che sottolinea una certa continuità di stile tra i due artisti228, sostenuta

www.nuovorinascimento.org, immesso in rete nel 2019, pp. 5-30; B. Talvacchia, Taking Positions, On the Erotic in Renaissance Culture, Princeton University Press, Princeton, 1999.

224 Pietro Aretino, Sonetti sopra i “XVI modi”, a cura di Giovanni Aquilecchia, Salerno Editrice, Roma, p. 8.

225 Cfr. Talvacchia, Taking Positions, cit., p. 4.

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