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La "regola" e la "licenza" nell'espressione letteraria del pieno Rinascimento: l'ascesa dell'oscenità verbale in Aretino e Vignali

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

La “regola” e la “licenza” nell’espressione letteraria del pieno

Rinascimento: l’ascesa dell’oscenità verbale in Aretino e Vignali

CANDIDATO

RELATORE

Elisa Tarulli

ANNO ACCADEMICO

2018/2019

Chiar.mo Prof.

Michelangelo Zaccarello

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Giorgio

Masi

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2

A mia sorella Laura,

con l’augurio che possa ogni giorno

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SOMMARIO

PREMESSA ... 5

1. LA CONDANNA DEL TURPILOQUIO ATTRAVERSO IL MEDIOEVO. ... 9

La nascita del turpiloquio: la Bibbia e i Padri della Chiesa. ... 9

Cos’è la scurrilitas. ... 13

La condanna dei Padri dell’espressione teatrale. ... 15

La parola del buffone a corte ... 19

Auctoritas aristotelica nei trattati morali medievali. ... 21

Turpiloquio nei trattati morali del XII e XIII secolo. ... 26

Parole nel contesto dei banchetti. ... 30

Classificazione negli autori del XIII secolo. ... 31

Turpiloquio all’interno della dinamica pensieri/parole/opere. ... 34

Il linguaggio osceno dei ceti bassi. ... 37

La condanna dei giullari tra XIII e XIV secolo. ... 39

Linguaggio osceno nell’uso letterario medievale. ... 42

2. VERSO IL SECOLO D’ORO DELL’OSCENITA’ LINGUISTICA: IL CINQUECENTO. ... 46

Diffusione della cultura greca e rilassatezza nei costumi tra XV e XVI secolo. . 46

Un genere sovversivo rispetto al canone. ... 52

Una della espressioni della comicità cinquecentesca. ... 56

Circolazione della letteratura oscena. ... 63

Letteratura oscena contro il clero. ... 66

“Umanizzazione” della sessualità ... 72

Le prime manifestazioni di una sessualità femminile ... 73

3. I PROTAGONISTI: PIETRO ARETINO E I “SONETTI LUSSURIOSI” ... 80

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Genesi dei Sonetti lussuriosi. ... 87

La componente visiva dei Sonetti. ... 92

Problemi di datazione... 95

Alcuni cenni sulla tradizione dei sonetti. ... 100

Un parlare spontaneo oltre i limiti del consentito. ... 108

I protagonisti e l’azione all’interno dei sonetti... 112

4. I PROTAGONISTI: “LA CAZZARIA” DI ANTONIO VIGNALI ... 116

Vicende della Siena raccontata dal Vignali ... 116

L’Arsiccio Intronato e l’Accademia ... 119

Cazzària o Cazzarìa ... 124

Tradizione e storia editoriale della Cazzaria. ... 125

Il dialogo tra l’Arsiccio e il Sodo. ... 130

Un problema di genere ... 136

Il Vignali, L’Aretino e Antonio Rocco ... 145

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5 PREMESSA

Caratteristica propria tanto della società occidentale quanto delle società più disparate, nel tempo e nello spazio, è la presenza di un certo numero di parole considerate tabù; in ogni forma di aggregazione sociale, si può dire, vige una spontanea distinzione tra parole “normalizzate” che vengono accettate dal sentimento comune e parole le quali, invece, generano effetti di repulsione, timore, ribrezzo ed evitamento. L’influenza reciproca che sussiste tra il linguaggio e ciò che può essere ammesso o meno nell’ordine sociale è uno dei presupposti ancestrali di ogni civiltà; ciò è messo in luce soprattutto da Freud (1856-1939), che nel suo scritto di massima importanza Totem e tabù indaga lo stretto legame tra l’uso linguistico delle primitive tribù australiane e l’ordine totemico attorno cui costruiscono il nucleo primo della loro società1.

La a riverenza di un gruppo nei confronti della “parola”, manifestata sin dai tempi più antichi, ha origine nella convinzione primordiale che il verbo condivida l’essenza della cosa che va ad identificare, e sia perciò pregno di valenza magica2; questa

particolarità riguarda in maniera intrinseca e caratterizzante anche la civiltà a noi più vicina e meglio nota, quella occidentale. È sempre il grande filosofo austriaco, del resto, a porre in evidenza come al concetto di tabù corrisponda quello che per noi è traducibile come «orrore sacro»3. Tipica nell’occidente europeo, infatti, è la guerra

intrapresa dalla religione cristiana, volta a contenere ed estirpare tutta una determinata tipologia di parole considerate immorali, legate alla carnalità e alla sessualità, nonché capaci di corrompere gli animi ed indurli ad azioni altrettanti turpi; intendiamo ovvero quelle parole che rientrano sotto la più generica etichetta di obscaenitas.

L’elaborato presente, il cui titolo ha un diretto richiamo al saggio La regola e la licenza di Antonio Corsaro4, è volto ad esaminare non solo i retroscena e gli esiti legati

1 S. Freud, Totem e tabù, Laterza Editori, Bari 1930, p. 15. Si pensi alle denominazioni di parentela di cui questo popolo si serve, legati non all’idea di una reale consanguineità, ma piuttosto a rapporti sociali. 2 R.G. Capuano, Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia, Costa & Nolan, Milano 2007; G.W. Allport, La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 261; J. Piaget A. Szeminska, La genesi del numero nel bambino, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 67-68.

3 Freud, Totem e Tabù, cit., p. 27.

4 A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Vecchiarelli Editore, Roma 1999.

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alla condanna socio-culturale, all’interno della storia occidentale, di questa peculiare tipologia di linguaggio, ma anche il suo faticoso farsi strada sovrapposto e contrapposto a quella che può definirsi la “norma”, ovvero i paradigmi linguistici e letterari che sul linguaggio esercitano un costante controllo.

Il punto da cui prende avvio la nostra ricerca si colloca ben distante nel tempo: la prima parte di questo studio, infatti, è volta ad esaminare il fenomeno che vede la condanna del linguaggio osceno a partire dalle fondamenta della cultura cristiana fino al suo sviluppo in tutto l’arco del Medioevo. La possibilità di avere una panoramica piuttosto ampia relativa ai peccati di scurrilitas e turpiloquium5, ci è data a partire dalle

testimonianze interne alla Bibbia, ricca di avvertenze sulla gravità del parlare, e dalle parole dei Padri della prima cristianità, severi nel proibire ogni forma di immoralità verbale. Vedremo, poi, come su queste solide basi, a cavallo tra XII e XIII secolo, la trattatistica medievale fornisce una rigida impalcatura morale per la classificazione dei peccati di parola. Si hanno così i famosi penitenziari: raccolte di peccati classificati a seconda della loro gravità o del loro genere, realizzate da personalità religiose, il cui scopo è principalmente quello di facilitare il sacramento della confessione ad opera di monaci e preti. Il potere della parola, in tal modo, è sempre più sentito all’interno delle comunità cristiane: «Sit autem sermo vester: “Est, est”, “Non, non”; quod autem his abundantius est, a Malo est» (‘Sia invece il vostro parlare “sì, sì” e “no, no”; il di più viene dal maligno’)6; così si riassume quella che è la legge implicita che tutti devono

osservare.

Il peccato di turpiloquio può assumere una gravità tale da riguardare anche la sfera del diritto: attraverso i documenti che ce ne prestano testimonianza, come i registri notarili conservati dai processi, saremo altresì in grado di stabilire in quali circostanze ed in quali modalità l’uso di un linguaggio esplicitamente turpe andasse incontro a procedure di carattere penale, incidendo in maniera irrevocabile sulla realtà più concreta e quotidiana di quest’epoca. Parallelamente alla sua condanna, a partire dal XII secolo il linguaggio osceno trova maggiore possibilità d’espressione nel

5 Così sono comunemente definiti i termini proibiti che esplicitamente chiamano in causa la sfera della sessualità, del turpe e dell’osceno.

6 Mt., 5.37. Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia, a cura di F. Frezza, Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015.

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contesto letterario, specialmente all’interno del genere goliardico e buffonesco, a fianco al registro più cautamente metaforico e dominato da intenti parodici; proprio il fatto di essere disturbante e spudorato, lo renderà emblematico di una volontà sovversiva rispetto al potere e rispetto alla norma che allo stesso tempo va determinandosi con maggior rigore.

Percorrendo questa via giungiamo alle soglie del Cinquecento italiano, la cui letteratura apre uno spazio sempre più delineato, all’interno del quale l’obscaenitas si afferma come espressione linguistica della volontà di opporsi al registro dominante e di essere provocatorio; uno spazio il quale, tuttavia, conosce breve gloria, prima di essere nuovamente soffocato dai provvedimenti del Concilio Tridentino (1545-1563), ovvero, da una rinnovata condanna dell’immoralità e dalla prima pubblicazione dell’Indice dei Libri Proibiti (1559). Proprio su questo periodo storico e culturale si concentra la seconda parte del presente lavoro: il linguaggio osceno, agli occhi di molti scrittori rinascimentali, appare del tutto anticonvenzionale e diviene emblematico di un preciso intento di sovvertire la consuetudine letteraria dominante, la quale vuole il Petrarca come modello letterario assoluto.

L’occasione è offerta dalla riscoperta di una cultura classica che va ben al di là della canoniche personalità di Virgilio e Cicerone, una cultura che promuove la sessualità e la carnalità in quanto fatti del tutto naturali e che è legittimata dall’auctoritas di nomi come Catullo, Orazio, Marziale. In tal modo, il linguaggio osceno trova basi legittime su cui fondarsi e diviene vera e propria cifra stilistica di alcune opere rivoluzionarie, le quali hanno condizionato in modo permanente la fama di autori come Pietro Aretino o Antonio Vignali. Su questi due nomi e sulle loro opere più oscene, rispettivamente i Sonetti lussuriosi e La Cazzaria, si concentreranno gli ultimi due capitoli di questo studio, all’interno del quali analizzeremo in maniera più ravvicinata le vicende storiche, le implicazioni linguistiche e le peculiarità stilistiche che fanno di queste due composizioni tra le più emblematiche del fenomeno letterario osceno.

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1. LA CONDANNA DEL TURPILOQUIO ATTRAVERSO IL MEDIOEVO.

La nascita del turpiloquio: la Bibbia e i Padri della Chiesa.

La comprensione del discorso circa il peccato di turpiloquium e scurrilitas che si apre nel Medioevo ci impone di soffermarci a considerare quale siano le radici e in quali circostanze questa tipologia di peccato venga inizialmente nominato. Non possiamo che rivolgere l’attenzione a quanto è scritto nella Bibbia ed a come ciò sia stato recepito nel contesto della cristianità primitiva.

Le Sacre Scritture hanno da dire molto a proposito dell’uso generico della parola e della bocca: una fondamentale considerazione preliminare, tratta dall’esegesi cristiana, è che l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio, dunque la possibilità della “parola” gli sarebbe concessa per tramite e ad imitazione della Parola divina e farne un buon uso rientra nei doveri fondamentali del buon cristiano. A tale scopo, numerosi passi biblici mettono in guardia il fedele dalla doppiezza della lingua; dice Giacomo nella sua lettera: « Ex ipso ore procedit benedictio et maledictio. Non oportet, fratres mei, hæc ita fieri» (‘Dalla stessa bocca escono benedizione e maledizione. Non dev'essere così, fratelli miei’)7, poco dopo aver realizzato la felice metafora tra la lingua,

“piccola parte del corpo” la cui forza può arrivare a corrompere l’intera persona, ed un piccolo fuoco, capace di estendersi ed incendiare una foresta intera8.

7 Giac. 3.10.

8 Giac. 3.2-6: «In multis enim offendimus omnes. Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir : potest etiam freno circumducere totum corpus. Si autem equis frena in ora mittimus ad consentiendum nobis, et omne corpus illorum circumferimus. Ecce et naves, cum magnæ sint, et a ventis validis minentur, circumferuntur a modico gubernaculo ubi impetus dirigentis voluerit. Ita et lingua modicum quidem membrum est, et magna exaltat. Ecce quantus ignis quam magnam silvam incendit! Et lingua ignis est, universitas iniquitatis. Lingua constituitur in membris nostris, quæ maculat totum corpus, et inflammat rotam nativitatis nostræ inflammata a gehenna» (‘tutti infatti pecchiamo in molte cose. Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. Se mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo. 4Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e spinte da venti gagliardi, con un piccolissimo timone vengono guidate là dove vuole il pilota. Così anche la lingua: è un membro piccolo ma può vantarsi di

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Per quanto attiene al caso più specifico del turpiloquio e della scurrilitas, l’ammonimento viene soprattutto dall’apostolo Paolo che, nel rivolgersi alla comunità di Colosse, invita i credenti ad abbandonare le abitudini viziose: «Nunc autem deponite et vos omnia : iram, indignationem, malitiam, blasphemiam, turpem sermonem de ore vestro» (‘Ma ora anche voi deponete tutte queste cose: ira, collera, malizia, parlare ingiurioso e discorso osceno vi esca dalla bocca’)9, e che nella lettera agli Efesini

predica: «Fornicatio autem, et omnis immunditia, aut avaritia, nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo, aut stultiloquium, aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet : sed magis gratiarum actio» (‘La fornicazione e l’impurità di ogni sorta o l’avidità non siano neppure menzionate fra voi, come si conviene a persone sante; né condotta vergognosa né parlar stolto né scherzi osceni, cose che non [vi] si addicono, ma più il rendimento di grazie’)10, vietando così addirittura il riconoscere l’esistenza di

questo genere di peccato. La parola di Paolo, insieme al vangelo di Matteo, sarà d’ispirazione alla predicazione sul turpiloquio di Clemente Alessandrino (c.150- c.215 d.C.):

Dobbiamo astenerci assolutamente dal turpiloquio e dobbiamo ridurre al silenzio chi se ne riempie la bocca, o con lo sguardo severo o voltando il capo o, come si dice, arricciando il naso o, più ancora, con parole severe. Infatti, le cose che escono dalla

bocca, è detto, contaminano l’uomo (Mt. 15,18): lo mostrano volgare, pagano, maleducato

e impudente, non certo distinto, saggio e costumato11.

La lista delle citazioni bibliche che potremmo enumerare è lunga, ma occorre qui soffermarci ad aggiungere una considerazione: all’interno del testo biblico possiamo vedere che il rischio di incorrere nell’uso di un linguaggio osceno è spesso in stretta relazione con un altro tipo di peccato, incluso nella casistica dei vizi capitali, quello di gola. Dal peccato di gola discendono gli impulsi più volgari ed istintivi dell’uomo, tra cui quello sessuale, che articolato in parole realizza il turpiloquio e la scurrilitas. Questa

grandi cose. Ecco: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geènna’).

9 Col. 3.8.

10 Ef. 5.3-4. Da notare che la Lettera agli Efesini riprende molto da vicino le tematiche della Lettera ai Colossesi.

11 Clemente Alessandrino, Il pedagogo, 2,49, in La teologia dei padri. Testi dei padri latini greci orientali scelti e ordinati per temi, Città Nuova Editrice, Roma , vol. III, p. 171.

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considerazione ci permette di mettere in evidenza l’origine fondamentalmente “carnale” e “fisica” di questo vizio: è una colpa che nasce prima di tutto da un impulso corporale, ancor prima di articolarsi in parole e di sfociare, successivamente, in atteggiamenti.

In molti passi biblici, dunque, il progredire verso espressioni di oscenità si presenta come una conseguenza dell’ingordigia e degli eccessi alimentari; tra gli esempi più emblematici è l’episodio evangelico, di fortissima potenza evocativa e spesso favoleggiato nella letteratura medievale, che narra del ricco Epulone: essendosi lasciato andare a lauti banchetti mentre era in vita, egli sconta la pena di avere la lingua arsa dal fuoco infernale una volta morto, quale punizione per la colpa della loquacitas, e supplica Abramo di poter avere refrigerio12. Una penitenza, del resto, che ricorda da vicino

quella subita dal personaggio di Sinone, arso dal fuoco infernale dell’Inferno dantesco, il quale viene punito insieme ai falsari di parola per aver ingannato i troiani con lo stratagemma del cavallo di legno. A lui si rivolge Maestro Adamo, falsario di monete e compagno di sorte: «Così si squarcia/ la bocca tua per tuo mal come suole;/ ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,/ tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,/ e per leccar lo specchio di Narcisso,/ non vorresti a ’nvitar molte parole»13, andando a sottolineare

proprio l’arsura della bocca che colpisce il greco. Il vizio di gola, d’altra parte, è persino alla base del peccato originale quale male attraverso cui tutte le colpe ed i peccati entrano nel mondo: non fu forse la tentazione del frutto proibito ad indurre Adamo, il primo uomo, a cadere nella lussuria?14.

Un altro momento, interno alle Sacre Scritture, che segna una svolta legata al peccato di gola quale motore della lussuria riguarda l’introduzione della carne nella dieta alimentare a seguito del diluvio universale: Noè e i suoi figli, scampati alle acque,

12 Lc, 16, 19-31.

13 Dante, La Divina Commedia. Inferno, cura di T. Di Salvo, Zanichelli, Bologna 1985, XXX, vv. 124-129, pp. 516-517; Lo stile di questo passo, forte e canzonatorio, ricorda quello della tenzone comico-realistica che vedremo tornare anche nella famosa tenzone tra Dante e Forese Donati, è significativo però che il poeta prenda subito le distanze da questo genere volgare all’interno del canto stesso, rimproverato da Virgilio per il fatto di trattenersi ad ascoltare compiaciuto la diatriba verbale, dal momento che «voler ciò udire è bassa voglia».

14 Gen., 3.1-7. Non tutte le letture della Bibbia sono propense a questa interpretazione: Agostino (305-430) nella Città di Dio identifica il primo peccato come peccato di superbia piuttosto che agito per il desiderio di un cibo proibito (Agostino, De Civitate Dei, trad. italiana a cura di c. Carena, Einaudi, Roma 1992, cap. IV, II).

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ricevono il permesso da Dio di uccidere ogni genere animale e di cibarsi delle loro carni15. Questo passaggio contribuisce ad associare alla carne un sentimento religioso

misto tra la reverenza e il timore, destinato a perpetuarsi nel corso del Medioevo; d’altronde non possiamo non considerare che già prima del sopravvento della cristianità, molteplici dottrine prescrivono il divieto di mangiare carne o quantomeno attribuiscono ad esso un significato particolare, basti l’esempio di Plutarco (I sec. d. C.), sostenitore del vegetarianesimo, come esplica nella sua opera giovanile De esu carnium: egli, riprendendo temi cari al pensiero pitagorico, era persuaso della dottrina della reincarnazione e, dunque, contrario al carnovorismo16.

Se, poi, volgiamo lo sguardo ai precetti che intarsiano i formulari della prima cristianità, vediamo che la penitenza del digiuno è auspicata e rimanda, sul piano allegorico, alla necessità di astenersi da pensieri dannosi e lussuriosi. Giovanni Crisostomo (c. 344 -407) predica:

Non malum est comedare; absit: sed gula damnosa est […] quemadmodum nihil mali est, vinum ad mensuram bibere, sed ebrietati se dedere, et intemperantia judicium rationis subvertere. […] Dominum enim […] neque enim abstinentiam a cibis et inediam simpliciter a nobis exiget […] sed ut a saecularibus operibus nos abdicantes, omne nostrum otium in spiritualibus consumamus. […] Propterea enim hanc a cibis abstinentiam adhiberi praecipit, ut refrenantes carnis lascivas, eam obsequentem reddamus ad mandata Dei implenda.

(‘Non è male mangiare, ma la gola è dannosa […]. Così non è male bere moderatamente del vino, ma lo è abbandonarsi all’ubriachezza e lasciar chela smodatezza ci sconvolga il giudizio e la ragione. […] Il nostro Signore […] non ci chiede l’astinenza dal cibo e il digiuno per sè stessi […] ma perché riusciamo nelle faccende della vita e dedichiamo tutto il nostro impegno alle realtà spirituali. […] …questo è lo scopo per cui egli ci comanda di astenerci dal cibo: frenare la petulanza della carne, rendendola docile all’adempimento della legge di Dio’)17.

15 Gen., 9.2-3.

16 Cfr. Plutarco, Del mangiare carne : trattati sugli animali, introd. di D. Del Corno, trad. di D. Magini, Adelphi, Milano 2001.

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13 Cos’è la scurrilitas.

La personalità di Crisostomo è quella di un uomo desideroso di riformare la morale e la vita della cristianità e la sua voce costituisce certamente un’autorità di cui restano cospicue tracce. Nel delineare la somma di termini che definiscono il linguaggio peccaminoso egli inaugura una longeva tradizione che racchiude sotto il concetto di scurrilitas un’ampia casistica di parole: è scurrilitas ogni forma di facezia linguistica in quanto essa rientra tra i verba risoria, seppure non sia specificatamente oscena.

La componente del “riso” come origine del degrado lessicale è essenziale in Crisostomo; è a causa del “ridere inopportuno” che il linguaggio si lascia andare all’oscenità, scaturendo inevitabili conseguenze anche sul piano dell’azione fisica18:

«Qui ergo dicit urbana et faceta, non est sanctus: etiamsi sit Graecus, is est ridiculus: iis solis qui sunt in scena haec permittuntur. Ubi est turpitudo, illic est etiam scurrilitas; ubi est risus importunus, illic est etiam scurrilitas» (‘L'uomo che dice cose scherzose non è un santo: se anche fosse un greco, egli sarebbe disprezzato. Queste sono cose concesse solo a coloro che sono sul palco. Dove c'è turpitudine, lì c'è anche scurrilitas; dove c'è del riso inopportuno, lì c'è anche scurrilitas’)19. Sul medesimo piano si allineerà

diversi secoli più tardi san Bernardo (1090-1153): «Verbum scurrile, quod faceti urbanive nomine colorant, non sufficit peregrinari ab ore, procul ab aure religandum» (‘La parola scurrile, che è mascherata dal nome di scherzosa o spiritosa, non basta che sia lontana dalla bocca; deve essere tenuta lontana anche dall’orecchio’)20, passo nel

quale sottolinea come la pericolosità della parola scurrile risulti insidiosa in più di una

18 Crisostomo, In Matthaeum, Homil. LXXXVI, 3, (PG, LVIII, 767): «Hic animum adhibe. Risit quis intempestive, alius reprehendit; alius metum repulit dicens: Nihil hoc est. Quid enim est ridere? Quid hinc mali oriatur? Hinc scurrilitas oritur, inde turpiloquium, et actio turpis. Rursum alius incusatus quod proximum calumnietur, quod convincetur ei, quod maledicat, id neglexit, dixitque: Maledicere nihil est. Hinc odium partum est ingens, inimicitia irreconciliabilis, convicia infinita; ex conviciis plagae; ex plagis saepe caedes»; (Fate attenzione a questo esempio: un uomo ride a sproposito; uno lo riprende, mentre un altro gli toglie ogni scrupolo, asserendo che non c'è niente di male in ciò. Che è infatti il ridere? Che cosa può derivare da ciò? Eppure, è da questo ridere inopportuno che derivano la scurrilità, il turpiloquio, l'azione disonesta. Se poi si riprende un altro perché calunnia il prossimo, lo ingiuria e lo maledice, costui non si cura del rimprovero e dice: Maledire non è nulla. Eppure, da ciò hanno origine odio indicibile, inimicizie irriconciliabili, ingiurie senza numero; dalle ingiurie provengono le ferite, dalle ferite, spesso, gli assassinii e la morte).

19 Crisostomo, In Epist. ad Ephes. Cap. V Homil. XVII, 2, (PG, LXII, 119).

20 Bernardo di Chiaravalle, De consideratione, lib. II, cap. 13, Ex Typographia Francisci Vigoni, Mediolani, 1667, p. 91.

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direzione, corrompendo non solo chi ne fa uso ma anche chi si trova ad ascoltarla, dal momento che se ascoltarla è cosa di minore importanza, è pur vero che da una serie di piccole cose ne risulta una grande, e dunque occorre prendere accortezze anche difronte a un pericolo minimo.

Una tradizione che si oppone a Crisostomo, invece, ritiene il turpiloquio fondamentale nel determinare cosa sia scurrilitas, e ammette la liceità di una serie di parole atte a suscitare il riso, parole che ricadono, piuttosto, sotto la generica denominazione di urbanitas ed affabilitas: in questo caso si tratta di termini detti “giocosi” o “scherzosi”, i quali, come il riposo del corpo smaltisce la fatica fisica, permettono all’anima di smaltire la fatica spirituale, arrecando un piacere leggero21. Ciò

non vuole certo significare che tutti i vocaboli atti a suscitare “riso” senza riferire oscenità siano leciti: esiste in questa categoria una serie di parole che, pur non essendo turpi, sono considerate altrettanto peccaminose. Cassiano (c. 360-435 d.C), all’interno del suo sistema di vizi capitali, ritiene, comune manifestazione della fornicatio (la lussuria), il turpiloquium, la scurrilitas, i verba ludicra e lo stultiloquium, riconoscendo, dunque, nei verba ludicra una tipologia di parole condannabili. Ritornerà successivamente sulla questione anche Rodolfo Ardente, prete della diocesi di Poitiers, vissuto a cavallo tra XI e XII secolo, affiancando ad un lecito e inoffensivo sermo iocundus un ben più condannabile sermo risorius, che inserisce tra i peccati contro l’utilitas22.

Restando al sistema di Cassiano, tuttavia, è interessante notare come egli, discostandosi dall’opinione prevalente, sostenga che questi peccati verbali discendano non tanto dal vizio di gola quanto da quello di lussuria, la quale va combattuta anzitutto sul piano dell’interiorità: “la carne è al servizio dei comandi del cuore”; ma a ben guardare, ciò è da ricondursi ancora una volta all’imperativo secondo cui la nostra interiorità è condizionata dal nutrimento del nostro corpo: «Caro enim ejus arbitrio atqe imperio famulatur, et idcirco summo studio parcimonia jejuniorum sectanda est, ne escarum abundantia referta caro, praeceptis animae salutaribus adversata, rectorem

21 La distinzione è approfondita anche in: C. Casagrande- S. Vecchio, I peccati della lingua, Treccani, Roma 1987, p. 397-398.

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suum spiritum dejiciat insolescens» (‘Bisogna dunque ricercare con ogni sforzo la frugalità nel mangiare attraverso i digiuni, per evitare che la nostra carne, rimpinzata di cibo, si opponga ai salutari precetti dell'anima e, nella sua insolenza, sottometta lo spirito che la guida’)23. Egli ritiene il peccato d’ingordigia inoffensivo di per sé, ma esso

espone l’anima ad altri gravissimi rischi, dunque tale vizio è tanto grave non in relazione al suo immediato contenuto, né tantomeno rispetto alla persona che lo commette, ma piuttosto rispetto alle sue conseguenze, tra cui, per l’appunto, la lascivia del parlare e delle azioni.

La condanna dei Padri dell’espressione teatrale.

Uno dei contesti in cui il linguaggio osceno si manifesta più palesemente, attraverso l’espressione non solo della bocca, ma anche del corpo, è proprio quello del teatro. Carmelo Bene, noto attore e drammaturgo contemporaneo venuto a mancare ai primi del XXI secolo, dice che «il teatro può dare osceno, proprio nell'etimo, porno nel senso proprio greco»24. Contro questo tipo di ambiente è di nuovo la prima

cristianità ad inaugurare una vera e propria lotta: essa intraprende una rivoluzione culturale a partire dal rifiuto della cultura classica, di cui il teatro è l’espressione più mondana, e se vogliamo, “diabolica”. I primi scrittori cristiani si trovano difronte ad attori che mimano veri e propri atti sessuali sulla scena, e condannano il teatro nella sua totalità, senza fare distinzioni sul genere di spettacolo25.

Tertulliano (150-230) ne è uno dei principali avversari: egli riconduce la venerazione per gli spettacoli principalmente alla loro origine legata alle divinità pagane. Essi, dunque, sono disonesti, ma proprio la disonestà stessa è prova del fatto che le divinità pagane sono solo illusorie parvenze dietro alle quali agisce il maligno, e

23 Cassiano, De coenobiorum instit. Lib. VI, 2 (PL, tom. I, XLIX, 269).

24 U. Artioli – C. Bene, Un dio assente. Un monologo a due voci sul teatro, a cura di A. Attisani, M. Dotti, Medusa ed., Milano 2006, p. 33.

25 Per approfondimenti: S. Pittaluga, Voce e gesto nel teatro medievale, Università di Genova, Genova 1997, pp. 65-78.

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l’immoralità della rappresentazione ne è una conferma26. Tertulliano mette in guardia

sul rischio di cadere nel peccato di idolatria anche con le semplici parole: «Nam, sicut scriptum est: -Ecce homo et facta ejus- (92), ita (Matth. XII, 37): -Ex ore tuo justificaberis-» (‘ trova scritto infatti: -Ecco l’uomo e le sue azioni-; ma è anche detto: -Troverai giustificazione per quello che la tua bocca saprà pronunziare-‘)27. Dopo il suo

passaggio al Montanismo, distingue due principali categorie di peccati: quelli “remissibili”, ovvero emendabili tramite penitenza, e quelli “irremissibili”, che non possono ottenere il perdono ecclesiale28. Il rendersi spettatori di pubbliche

rappresentazioni oscene rientra nella prima categoria; è infatti la spettacolarizzazione, non l’atto osceno in sé, lo scandalo maggiore, proprio per la particolarità del rapporto che lega lo spettatore alla figurazione e lo spinge all’imitazione di essa. Sempre Tertulliano dice:

[…] Ita summa gratia ejus de spurcitia plurimum concinnata est, quam Atellanus gesticulator, quam mimus etiam per mulieres, repraesentat, sexum pudoris exterminans un facilius domi quam in scena erubescant; […] Quod si nobis omnis impudicitia exsecranda est, cur liceat audire qua eloqui non licet? Cum etiam scurrilitatem et omne vanum verbum judicatum a Deo sciamus, cur aeque liceat videre, quae facere flagitium est? Cur quae ore prolata communicant hominem, ea per oculos et aures admissa non videantur hominem communicare: cum spiritui appareant aures et oculi, nec possit mundus paerstari, cujus apparitores inquinantur?

[…] il suo (del teatro) grandissimo successo si deve soprattutto alle nefandezze che l’attore di Atellane mostra coi gesti e l’attore di mimi riproduce anche in abiti femminili, annullando completamente il pudore del sesso (sì da arrossire più facilmente a casa che sulla scena), […] Che se dobbiamo giustamente esecrare ogni forma d’impudicizia, perché dovrebbe essere lecito udire ciò che non è lecito dire? Perché, analogamente, dovrebbe esser lecito vedere ciò che è peccaminoso fare? Perché gli stessi atti che, espressi dalla bocca, contaminano l’uomo, se percepiti attraversi gli occhi e le orecchie non dovrebbero sembrar tali da contaminare l’uomo,

26 Tertulliano, De Spectaculis, XVI-XVII, (PL, I, 722-725). 27 Tertulliano, De Idolatria, XX, 691 (PL, I, 768).

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essendo le orecchie e gli occhi al servizio dello spirito e non potendo questo conservarsi puro se i suoi servitori vengono contaminati?29

Il passo, del resto, fa cenno della spudoratezza che l’attore dimostra nel coprirsi di abiti femminili, svelando quella che in Tertulliano è una chiara tendenza alla misoginia, tipica del credo Montanista e ben più radicata in altre opere: se, infatti, all’interno dello scritto De virginibus velandis raccomanda alle fanciulle di coprirsi al meglio sia in chiesa che in strada per non contravvenire ai precetti divini, come potrebbe mai concedere ad un uomo di indossare vesti muliebri in uno spettacolo pubblico?

Come avviene il processo d’identificazione psicologica che lega lo spettatore alla rappresentazione è sinteticamente delineato anche da Agostino all’interno della predicazione che fa in occasione della festa di San Cipriano: egli rivela come attraverso la rappresentazione teatrale si manifesti nello spettatore il desiderio di partecipare alla scena, che rende la persona fuori di sé e le fa perdere il dominio delle passioni proprie del buon cristiano30. Inoltre, nel commento che fa al vangelo di Matteo, riflettendo sul

funzionamento dei sensi, mette in guarda il fedele dal peccato che può investire anche l’orecchio nel prestare ascolto a ciò che non deve:

Quis teneat aurem vel oculum? Oculi, cum volueris, claudi possunt, et cito clauduntur: aures cum conatu claudis; manum levas, pervenis ad illas: et si tibi aliquis manus teneat, patent; nec potes eas claudere adversus verba maledicta, impura, blandientia et decipientia. Cum aliquid, quod non oportet, audieris, etsi non feceris, nonne aure peccas? Audis mali aliquid libenter. Lingua mortifera quanta peccata committit! liquando talia, quibus homo de altari separetur. Ad illam pertinet materies blasphemiarum. Et multa et inania dicuntur, quae ad rem non pertinent. Nihil mali faciat manus; non currat pes ad aliquid mali; non dirigatur oculus in lasciviam; non auris libenter pateat turpitudini; non moveatur lingua ad id quod non decet.

(‘Chi potrebbe mettere un freno all'orecchio o all'occhio? Gli occhi, quando lo vorrai, si possono chiudere e si chiudono immediatamente; le orecchie invece ci vuole uno sforzo per tapparle; alzi le mani ed arrivi ad esse, ma se uno ti trattiene le mani, le orecchie restano aperte e non potrai tapparle per non sentire maldicenze, discorsi

29 Tertulliano, De Spectaculis, XVII, 649-650 (PL, I, 724).

30Agostino, Sermo 313/A, 3, XIV, 3 (PL XLVI, 864): «Sed infamis est ille, qui spectatur; qui spectat, honestus est.» (Ma se ignobile è colui che è osservato, chi osserva è forse onesto?)

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osceni, parole ingannatrici e adulatrici. Quando udrai qualcosa che non bisogna udire, anche se non lo farai, non peccherai forse con le orecchie? Ascolti volentieri qualcosa di cattivo. Quanti peccati commette una lingua micidiale! Alle volte commette tali peccati che, a causa di essi, si viene separati dall'altare. È proprio essa lo strumento delle bestemmie. Da essa escono anche discorsi frivoli, e senza scopo. La mano non deve fare alcuna azione cattiva né il piede correre a compiere il male, l'occhio non deve fissarsi su oggetti lascivi né l'orecchio sentire il turpiloquio né la lingua dire cose indecenti’)31.

Tutto ciò conduce, soprattutto a partire dal V secolo ad un susseguirsi di ammonimenti, esortazioni, e condanne nei confronti degli spettacoli popolari, occasioni di trasgressioni e libertà pericolose per la vita spirituale della comunità cristiana32; l’immagine dei commedianti, fortemente legata ad uso grottesco ed

espressivo del corpo, è a lungo e fortemente disprezzata dalle gerarchie ecclesiastiche e civili: i sapienti li definiscono instrumenta damnationis e infames, e giudicano le loro parole sconvenienti tanto quanto le loro gestualità, ragione per cui viene generalmente imposto loro il silenzio.

Per contro, compresa l’importanza del meccanismo per cui l’ascoltatore/spettatore è coinvolto nella rappresentazione, si diffondono, sul versante totalmente opposto, manuali ad uso dei predicatori, perché colui che detiene il monopolio della “parola” si astenga da una possibile contaminazione della scurrilitas. Vedremo, ad esempio, Ruggero Bacone (c. 1214 –1294) prescrivere ai predicatori una serie di tecniche retoriche tratte dal contesto del linguaggio poetico, perché la voce autorevole possa provocare, come a teatro, le emozioni degli ascoltatori e possa in tal modo coinvolgerli verso la via della rettitudine33. Non a caso anche Rodolfo Ardente,

31Agostino, Sermo LVI, VIII, 12 (PL, XXXVIII, 392-393)

32Teodorico (454-494) a Roma fa istituire un tribunus voluptatum, magistrato volto al controllo morale e giuridico di tutto ciò che è spettacolo; il suo questore Cassiodoro (480-570), nei Variarum libri XX tramanda una serie di indicazioni circa i problemi che comportano il teatro; l’imperatore Giustino (V sec.) emana un divieto che fa restringere lo spazio d’azione dei mimi alle sole città di Bisanzio ed Alessandria. Nel 572 l’editto del vescovo Martino di Braga avverte che nessun sacerdote o membro del clero può assistere a spectacula in occasione di feste o matrimoni, bensì è fatto obbligo di lasciare la sala del banchetto prima che questi abbiano inizio. Per questi ed altri provvedimenti vedi: W. TYDEMAN, The Medieval European Stage 500-1550, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 24 e ss. 33 Ruggero Bacone, Moralis philosophia, III, 1, ed. E. Massa, Thesaurus mundi, Zurigo 1953, p. 73 ss.

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a supporto della distinzione tra sermo iocularis e sermo risorius che abbiamo menzionato in precedenza, citerà l’esempio di Cicerone34.

La parola del buffone a corte

Se la condanna nei confronti degli spettacoli teatrali popolari è avvertita in maniera così necessaria, è certamente anche perché si tratta di un fenomeno che assume progressivamente proporzioni significative nella società medievale e che vede in prima linea quel genere di intrattenitori “della piazza”, altrimenti chiamati giullari, saltimbanchi o giocolieri. Occorre, anzitutto, specificare che il tipo di intrattenimento praticato da questi personaggi è di carattere prevalentemente fisico: mimi e giullari si cimentano per lo piò in esibizioni di nudità, acrobazie ed imitazioni goliardiche: tutto un repertorio volto ad sottolineare gli aspetti più grotteschi della corporeità.

Accenniamo solamente, a tal proposito, alla fondamentale diffidenza della civiltà medievale nei confronti della fisicità, dovuta al fatto che la disciplina dei gesti è considerata fondamentale per mantenere la padronanza dell’anima sul corpo, mentre, contrariamente, l’eccessiva gestualità, per giunta inopportuna, disdicevole e offensiva, è indice di disordine interiore35. Questo tipo di diffidenza si sposa alla nuova

concezione del teatro che, nel corso dell’alto Medioevo, va a sostituirsi a quella degli antichi, e che opera una netta separazione tra l’uso scenico della voce e del corpo.

Ciò non toglie che nel repertorio delle esibizioni giullaresche sia prevista la recitazione di brevi scene a carattere satirico che ci lasciano supporre che questa categoria di intrattenitori facciano uso, in alcune circostanze, anche delle parole. D’altra parte uno scurra, cioè un giullare di professione, ci viene segnalato come interprete della Cena Cypriani36; più tardi, Remigio d’Auxerre (841 - 908) sostiene un’unità fondamentale

34 Rodolfo Ardente, Speculum universalis, XIII, f. 163vb.

35 Per ulteriori approfondimenti su questo aspetto rimandiamo a S. Pietrini, I giullari nell’Immaginario medievale, Bulzoni Editore, Roma 2011, pp. 94-98.

36 La Cena Cypriani, racconto datato tra il V e il VI secolo è un esempio di pantomimo conviviale che permette di trarre preziose informazioni su menù, usanze e dettagli dei banchetti del tempo. Per

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tra parola e azione, ammettendo che la voce partecipa al movimento, così come «il gesto è l’abito della voce»37. Ma anche in queste circostanze, siamo ancora lontani

dall’attribuire una qualsiasi legittimazione all’espressione verbale di istrioni e giullari: la riabilitazione del giullare avverrà solamente in seguito al suo inserimento nella struttura forte della corte, avvenuto per lo più alle soglie del XIV secolo; da questo momento si crea uno spartiacque tra quelli che sono saltimbanchi e cantastorie di strada e quelli che invece vengono oramai considerati come buffoni di corte. Chiaramente, anche così, si tratta comunque di una riabilitazione solo parziale; il ruolo di questi intrattenitori passa da emarginato a subalterno e, implicando una totale subordinazione, non si allontana molto da quello del servo38.

Tuttavia, il mutamento della condizione implica un mutamento anche nei rapporti con il pubblico, il quale ore è costituito principalmente dal signore e dal suo seguito, e facezie e buffonerie, che generalmente sono considerate blasfemia, trovano in un certo modo uno spazio di legittimazione, protetto dall’incombente condanna morale della cristianità39. I buffoni di corte passano a rappresentare «la rivendicazione

di una valvola di sfogo […], ma rivelavano anche una certa fiducia: poiché se simili eccessi erano tollerati significava che non si dubitava della solidità dei valori»40.

Dunque, scherzare è lecito, anzi, più saldi sono i valori morali in cui si crede e su cui si fonda la società, più si avrà “piacevolezza” e divertimento nel vederli parodiati. A tal proposito ci sembra opportuno riferire le considerazioni fatte da Lever, che descrivono al meglio il nuovo rapporto tra intrattenitore e spettatore:

‘I rapporti del re e del suo buffone si basano in definitiva su questa convenzione unimamente accettata. Il buffone fa spettacolo della sua alienazione e acquisisce a questo prezzo il diritto di parlare liberaemnte. In altri termini, la verità è tollerabile solo

maggiori info vedi: E. D’angelo, Storia della letteratura mediolatina, Accademia Vivarium Novum, Montella 2004.

37 Remigio d’Auxerre, Commentum in Martianum Capellam, libri III-IX, a cura di Cora E. Lutz, Brill, Leida 1965, lib. V, p. 63.

38 Pietrini, I giullari nell’Immaginario medievale, cit., p. 102.

39 G. Minois, Storia del riso e della derisione, Dedalo, Bari, 2004, p. 266. 40 Ibid.

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nel momento in cui indossa la maschera della follia […]E se la verità passa attraverso la follia, allora passa necessariamente anche attraverso il riso’41.

Lever mette in evidenza non solo il reciproco rapporto di fiducia che deve sussistere tra il signore e il proprio buffone, ma anche la fondamentale componente del “riso” quale strumento attraverso cui la verità, in maniera velata, si disvela. Anche Ferdinando Gabotto riflette sul fattore di divertimento legato a queste figure: «che i buffoni siamo cosa gaia a e piacevole, dice lo stesso nome senz’altro affanno filologico»42, rimandando alla definizione che dà Sacchetti all’interno delle sue Novelle:

«Per altro non son detti buffoni, se non che sempre dicono buffe; e detti giocolari, che continuo giuocano con nuovi giouchi»43. L’oscenità della beffa, portata all’eccesso,

deve stupire e divertire; il lessico colorito e “basso” diverte non tanto per la furberia di chi ne fa uso, quanto piuttosto per le situazioni caricaturali che va a designare.

Auctoritas aristotelica nei trattati morali medievali.

A partire dalla metà del XII secolo, tramite l’afflusso di trascrizioni provenienti dall’oriente, l’Europa si avvia alla riscoperta della conoscenza greca, la quale si arricchisce dello dallo sviluppo della cultura araba. Prende il via soprattutto l’ampio lavoro di traduzione in latino di testi a carattere scientifico: Aristotele diviene un punto di riferimento essenziale e tale resterà fino alla nascita della scienza moderna44. Il

corpus aristotelico costituisce una fonte preziosa anche per lo sviluppo di ogni teoria relativa all’uso della parola; vengono riprese, infatti, le nozioni di anatomia e fisiologia contenute in esso, che si occupano di esaminare la concreta fisicità dell’organo lingua. Un buon punto di partenza per un’analisi del parlare è contenuto nel De anima, all’interno del quale Aristotele afferma: «Lingua congruit in duo opera nature in gustum

41 M. Lever, Le sceptre e la marotte. Histoire des fou de cour, Parigi 1983, pp. 137-138. 42 F. Gabotto, La epopea del buffone, Tipografia Stefano Racca, luogo 1893, p. 9.

43 Franco Sacchetti, Le Trecento Novelle, X a cura di M. Zaccarello, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2014 44 R. Pegola, Aristotele e sapere scientifico nel mondo latino, in «Studi di Glottodidattica»,vol. I, Università di Bari Aldo Moro 2011, p. 15.

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simul et locucionem» (‘Nella lingua convergono due meccanismi della natura, cioè quelli del mangiare e del parlare’)45. Questo passo in particolare è citato in apertura di

un singolare trattato medievale risalente al XIII secolo, il De lingua46. Problematica è

l’identificazione di questo trattato, tuttavia, attraverso la tradizione manoscritta possiamo ricostruirne l’aerea di produzione e diffusione e collocarla tra Oxford, Cambridge e Londra. Sappiamo, infatti, che proprio intorno al XIII secolo, in ambiente oxoniense, la lettura dei Libri animalium aristotelici è parte integrante del curriculum della facoltà delle arti, oltre allo studio dei più tradizionali Fisica, Meteorologica, De caelo, testi già consolidati da una lunga tradizione, e alle altre opere di filosofia naturale scritte dal filosofo greco47.

D’altra parte si fa ampiamente ricorso al corpus aristotelico relativo alla biologia anche in campo esegetico. Sebbene, infatti, Bacone fosse maestro nelle arti, e dunque non avesse avuto occasioni di impartire direttamente lezioni relative alla Scrittura, si suppone che sia lui, insieme a Roberto Grossatesta (1175-1253), ad aver dato un importante contributo all’utilizzo dei Libri naturales come essenziale supporto agli studi biblici: essi diedero adito soprattutto all’importanza della comprensione della scienza naturale funzionalmente all’apprendimento della Scrittura; presumibilmente Grossatesta “moralizzava” i dati tratti dal De animalibus, citava l’Ethica vetus ed il De anima.

Tuttavia, erano da risolvere i numerosi nodi che si venivano a creare nel voler conciliare una tradizione di origine pagana a quella cristiana e contemporanea: l’insegnamento aristotelico che sviluppava teorie sulla base sensitiva della conoscenza48

urtava sostanzialmente con l’insegnamento di sant’Agostino, secondo il quale l’intelletto umano può operare solamente tramite illuminazione divina. I due modelli conoscitivi erano in ultima analisi incompatibili e quello aristotelico finì col sostituirsi

45 Aristotele, De anima, II, B8, 420 b 16-18, ed. Gauthier, Parigi 1970, p. 352. Cfr. C. Casagrande - S. Vecchio, i peccati della lingua, cit., p. 169, n. 16.

46 De lingua, Oxford, Lincoln 56, ff. 175v-306r.

47 A.C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Soria della scienza dal V al XVII secolo, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 157-158.

48 Aristotele afferma l’esistenza di una componente attiva dell’intelletto, quello che in epoca medievale viene definito intellectus agens. Secondo la sua teoria, a differenza dell’intelletto che dipende da una volontà interna, la percezione è passiva, in quanto subisce l’azione degli oggetti esterni.

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a quello agostiniano, ma a questa conclusione gli studiosi latini giunsero solo dopo molto tempo: a lungo essi cercarono di stabilire una connessione tra la teoria della conoscenza di Aristotele e quella di Agostino, tentando di realizzare una sintesi di elementi contraddittori49.

Ciò che ci interessa, però, è che nel corso di questi lunghi tentativi si attua sostanzialmente una reinterpretazione delle teorie aristoteliche relative alla natura. Non si può prescindere dall’immagine della natura e dai dati scientifici che ci fornisce il filosofo greco, ma il suo patrimonio di conoscenze assume una rinnovata funzione e finisce col costituire un serbatoio di simboli funzionali alla rappresentazione di superiori verità morali; partendo, dunque, da un approccio scientifico si giunge ad affermare il valore morale della parola, e ciò che ne risulta è una natura moralizzata e “spiritualizzata”.

Questa operazione avviene anche nel De lingua, il cui fine non si distacca da quello degli altri trattati del medesimo taglio: quale che sia il punto di partenza, è il discorso in senso moralistico-religioso il traguardo a cui mirare. L’autorità aristotelica viene perciò circoscritta entro parametri che finiscono col trasformarla. A partire dalla citazione del De anima, la lingua viene considerata nella sua duplice essenza organica, essa ha il fine di permettere la possibilità dell’alimentazione e quella della facoltà locutoria; sottoponendo questa considerazione a una rielaborazione in chiave morale, ne scaturisce che questa doppia funzionalità si divide tra una realtà esteriore e fisica, rappresentata appunto dal cibo, ed una realtà interiore, più difficile da definire, la cui manifestazione si concretizza comunque nella possibilità della parola. L’organo, quindi, gode di una condizione del tutto peculiare: esso ha innanzitutto una natura mediatrice, la quale può mantenere un equilibrio tra ciò che entra e ciò che esce, è collocata ad una posizione elevata rispetto agli altri organi e, infine, rappresenta un fondamentale segno di distinzione rispetto agli animali, i quali non possono articolare parole di senso.

Per di più, l’immagine aristotelica del creato che viene ripresa è quella di un’entità ordinata e risparmiatrice, che vuole predicare la necessità di attenersi ad una legge diffusamente riconosciuta, la lex parsimoniae: così, se la natura ha attribuito all’uomo un

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solo organo per sopperire a due funzioni così importanti quali mangiare e parlare, è perché ha voluto segnalare nella stessa struttura fisica dell’uomo la necessità che la lingua venga usata con moderazione in entrambi i casi; in tal modo, imponendo sobrietà nel cibo e nelle parole si costituisce come legge morale. L’osservanza della lex parsimoniae viene rispettata con una certa diligenza soprattutto in ambiente ecclesiastico, nasce così anche l’esigenza della “custodia” della lingua, ovvero di un controllo morale necessario ad ogni apertura della bocca. Questa necessità è perfettamente rappresentata dalla classica metafora della porta, la quale riaffiora spesso negli scritti morali; la si ravvede anche nell’etimologia data da Isidoro da Siviglia: os (bocca) non a caso si avvicina ad ostium (porta)50.

Una delle conseguenze più dirette, restando in contesto ecclesiastico è la diffusa norma che impone il silenzio a tavola durante il momento del pasto. Se ne fa menzione già dai tempi più antichi: la regola è rintracciabile all’interno dell’Ordo monasterii, una brevissima Regola monastica principalmente attribuita ad Agostino: «Sedentes ad mensam taceant audientes lectionem: si autem aliquid opus fuerit, Praepositus eorum sit sollicitus» (‘Seduti a mensa tacciano, ascoltando le letture. Se [poi] ci fosse bisogno di qualcosa, se ne preoccupi il loro superiore’)51.

Cassiano ritiene che l'uso di leggere a tavola sia stato introdotto dai monaci di Cappadocia, allo scopo di evitare conversazioni frivole e dispute varie52, e aggiunge a

proposito degli egiziani:

Apud Aegyptios enim, vel maxime Tabennensiotas tantum silentium ab omnibus exhibetur, ut cum in unum tanta numerositas fratrum refectionis obtentu consederit, nullus nec mutire quidem audeat praeter eum, qui seae decaniae praeest. Qui tamen, si quid mensae superinferri vel auferri necessarium esse perviderit, sonitu potius, quam voce significat.

In realtà, presso gli egiziani, e soprattutto presso i monaci di Tabennesi, tutti praticano un tale silenzio che, per quanto sia così grande il numero di coloro che

50 Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive originum, XI, ed. W.M. Lindsay, Oxford 1962, pp. 49-51. 51 Eugippio, La Regola, a cura di B. Degórski e L. Mirri, Città Nuova, Roma 2005, I, vv. 16-17. I versetti 1-29 del primo capitolo della Regola di Eugippio corrispondono esattamente all'Ordo Monasterii.

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insieme si recano e si siedono a mensa, nessuno oserebbe mettersi a parlare anche sottovoce, se si eccettua il capo d’ogni gruppo di dieci; se poi egli s’accorgerà che sia necessario recare qualche cosa alla mensa oppure ritirarla, interverrà, ricorrendo di preferenza a un segnale anziché alla voce53.

San Basilio (330-379 d.C.) nel dettare le sue Regole fa appello alla necessità spirituale di rifocillare spirito e corpo contemporaneamente, e dunque di non distrarsi al momento del pasto:

Quo animo et qua attentione ea audienda sint, quaenobis cibum sumentibus leguntur? – Voluptate maiore quam qua edimus ac bibimus, ut mens videatur non distrahi ad corporis voluptates: sed potius delectari magis verbis Domini, quemadmodum affectus erat qui dixit: Et dulciora super mel et favum.

Con quale disposizione d’animo e quale attenzione dobbiamo ascoltare quelli che ci fanno la lettura durante il pasto? - Con maggiore piacere di quello che abbiamo nel mangiare e nel bere, affinché la mente non si mostri distratta nei piaceri del corpo, ma anzi goda di più delle parole del Signore che di essi, con la stessa disposizione d’animo di colui che disse: Sono più dolci del miele e del favo54.

A distanza di oltre un secolo ne parla anche Benedetto (480-547 d.C.):

Mensis fratrum lectio deesse non debet […] Qui ingrediens post missas et communionem petat ab omnibus pro se orari, ut avertat ab ipso Deus spiritum elationis, et dicatur hic versus in oratorio tertio ab omnibus, ipso tamen incipiente:

Domine, labia mea aperies, et os meum adnuntiabit laudem tuam; et sic accepta benedictione

ingrediatur ad legendum. Et summum fiat silentium, ut nullius mussitatio vel vox nisi solius legentis ibi audiatur. Quae vero necessaria sunt comedentibus et bibentibus sic sibi vicissim ministrent fratres ut nullus indigeat petere aliquid; si quid tamen opus fuerit, sonitu cuiuscumque signi potius petatur quam voce.

(‘Alle mense dei fratelli, quando mangiamo, non mai dee mancare la lettura; […] E nell’entrare, dopo la Messa e la Comunione, chieda che tutti preghino per sè, affinchè Iddio tenga lungi da lui lo spirito di vanagloria. E dicasi nell’Oratorio da tutti tre volte, intonando lui, questo verso: Domine, labia mea aperies; et os meum annuntiabit

53 Ibid..

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laudem tuam; e così ricevuta la benedizione, entri in settimana per leggere. Si faccia a

mensa un profondo silenzio, sicchè non si ascolti nè bisbiglio nè voce di alcuno, se non di colui che legge. I fratelli però si passino l’un l’altro a vicenda tutto ciò che è necessario per mangiare e per bere, onde niuno abbia bisogno di dimandare cosa veruna’)55.

Turpiloquio nei trattati morali del XII e XIII secolo.

Il sistema dei peccati di Gregorio, che vuole il turpiloquio in uno stretto rapporto di discendenza dalla gola, ponendo il multiloquium e la scurrilitas figli di ventris ingluvis56,

costituisce uno dei principali punti di riferimento nella correlazione del peccato in gustu ed in locutio ed un punto di partenza fondamentale per numerose classificazioni sviluppate all’interno della trattatistica medievale. Tendenzialmente la tradizione è d’accordo nel riconoscere lo stretto legame tra i due peccati, ma queste teorie conoscono, nell’arco del tempo, modifiche e indirizzi vari. I prossimi paragrafi sono mirati a delineare una rassegna di tutte le varie classificazioni: esse sono operate in ambiente prevalentemente ecclesiastico, seppure non mancano voci dal contesto laico.

Possiamo facilmente dare una definizione del linguaggio turpe ed osceno che risponda ad esigenze a noi contemporanee, ma se ci volgiamo al contesto medievale il solo a fornirci una descrizione esaustiva è Rodolfo Ardente57. All’interno del suo

Speculum universalis Rodolfo definisce la peccaminosità del turpiloquio in relazione ai contenuti espressi, i quali sono divisi in due tipologie: grave è parlare delle azioni turpi che si commettono in natura, quali il coito tra uomo e donna, o il ciclo mestruale, ma ancor più grave è trattare di quelle che sono contro natura, come la sodomia, l’incesto o il rapporto con animali:

55 Benedetto da Norcia, Regula, XXXVIII, 1-7; testo edito online al sito http://ora-et-labora.net (Testo prelevato dal sito Web dell'Abbazia di Pannonhalma – Ungheria URL: http://www.osb.hu/)

56 Gregorio, Moralia in Job, XXXI, XLV, 89, a cura di M. Adriaen, CCSL, Brepols, Turnhout 1979-1985, 143 B, p. 1611.

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Vox tamen neque turpis neque honesta dicitur per se, sed tantum ex turpitudine vel honestate rei significate […] Est autem turpitudo duplex. Nam alia est naturalis occultationis, altera abhominationis. Turpitudo naturalis occultationis est turpitude illarum que natura in nobis occultat et occultari desiderat, ut turpitudo naturalis coitus, secessus, menstruorum et huiusmodi […] Turpitudo quippe abhominationis est ut turpitudo sodomitici coitus aut turpitudo incestus, aut turpitudo coitus cum brutis animalibus […] Est autem multo turpior turpitude que est contra naturam quam ea que est secundum naturam, sic et turpius hanc loqui quam illam.

La voce, tuttavia, di per sé non è considerata né onesta né turpe, ma per il significato del contenuto, (si comprende) se rientra nella turpitudine o nell’onestà […]. La turpitudine invece è duplice. Infatti un tipo nasconde cose naturali, l’atro l’abominio. La turpitudine che cela cose naturali è la turpitudine di quelle cose che la natura nasconde in noi e che desidera siano nascoste, come la turpitudine del coito naturale, dell’intimità, delle mestruazioni e di cose simili […]. La turpitudine di abominio è quella del coito sodomitico o dello scandaloso incesto, o la turpitudine del coito con animali […]. È invece molto più riprovevole la turpitudine che è contro natura che quella che asseconda la natura58.

Oltre a fornirci questa definizione, Rodolfo riflette su un aspetto fondamentale dell’uso del turpiloquio all’interno delle Scritture e constata che i passi biblici sono trascritti utilizzando un linguaggio che aggira il problema della turpitudine attraverso una serie di circonlocuzioni ed eufemismi: «Que (turpitudines) si quando necesse est significari honestioribus verbis sunt significanda et occultanda, sicut occultat ea et ipsa natura. Nonne vides quomodo horum inhonestatem honestioribus verbis significat sacra scriptura» (‘Queste cose [le turpitudini] ogni volta che è necessario nominarle si deve rappresentarle con termini più onesti, e nasconderle, così come le nasconde anche la natura stessa. Forse non vedi come la Sacra Scrittura rappresenta la loro disonestà con parole oneste’)59. Egli stabilisce, d’altra parte, degli spazi all’interno dei quali

pronunciare il turpiloquio è legittimato, ovvero il contesto della confessione e quello

58 Rodolfo Ardente, Speculum universal, XIII, f. 164ra/b. Cfr. C. Casagrande - S. Vecchio, I peccati della lingua, cit., p. 402, n. 3.

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del processo, durante i quali le colpe commesse devono necessariamente essere pronunciate chiaramente60.

Per quel che riguarda la classificazione del peccato, però, Rodolfo non conosce attraverso i suoi scritti il successo che aveva conosciuto l’opera gregoriana. Gregorio, abbiamo detto, nel suo sistema settenario colloca scurrilitas e multiloquium tra le filiazioni di ventris ingluvis, l’ingordigia del ventre, uniti tra loro da una stretta parentela: la perdita del controllo nell’uso della lingua riguarda sì il contenuto, che tende a sfociare nel turpe e blasfemo, ma va di pari passo con la modalità del parlare, l’eccesso di parole. Così egli dice all’interno dei Moralia: «Paene semper epulas loquacitas sequitur cumque venter reficitur, lingua diffrenatur» (‘Man mano che il ventre si sazia, la lingua perde ogni freno e si lascia andare ad un flusso di parole sregolate’)61. L’idea è ribadita da

autori successivi: Ugo di Folieto, (c. 1100-c. 1173)teologo e canonico di S. Agostino, dice all’interno del De claustro animae: «quod affluentiam ciborum comitari inundatio verborum» (‘l’affluenza di cibo si accompagna di solito a una inondazione di parole’)62.

Interessante variazione rispetto allo schema gregoriano è quella operata nel De fructibus carnis et spiritus, opera di incerta attribuzione, probabilmente di Corrado di Hirsau (c. 1070-c. 1150) ma tradizionalmente contenuta all’interno del corpus di Ugo da Folieto; da essa discende l’immagine dell’albero dei vizi e delle virtù: in questo caso sono eliminati dai “rami” sia la scurrilitas che il multiloquium: i due peccati rientrano in un più generico e comprensivo peccato di loquacitas, il quale manifesta esteriormente, in una profusione di parole frivole, la levitas interiore, dalla quale esso discende; l’autore del De fructibus si dissocia da Gregorio, dunque, nel far dipendere il turpiloquio dal vizio di gola, e lo fa rientrare tra le filiazione piuttosto della vanagloria63.

La tradizione del XII e XIII secolo, tuttavia, si attiene sostanzialmente alla schema tradizionale, distribuendo le conseguenze degli eccessi alimentari sui tre piani individuati da Gregorio, dei quali ci interessa in particolare il secondo: si hanno

60 Ibid., f. 164va.

61 Gregorio Magno, Moralia, I, VIII, 11, (CCSL, 143, pp. 29-30).

62 Ugo di Folieto, De claustro animae libri IV, liber II, XX (PL CLXXVI, 1073)

63 Ugo di San Vittore, De fructibus, IV (PL CLXXVI, 999-1000). Per l’attribuzione cfr. R. Bultot, L’auteur et la fonction littéraire du “De fructibus carnis et spiritus”, in «Recherches de Théologie ancienne et Médiévale», XXX (1963), pp. 148-154.

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conseguenze che riguardano la mente, quali il torpore dei sensi ed il rallentamento della percezione; conseguenze che coinvolgono la facoltà locutoria e tra le quali rientra un’ampia gamma di disordini della parola, dal parlare troppo al dire stupidaggini e oscenità; conseguenze, infine, che comportano una perdita del controllo delle pulsioni corporali, spingendo verso la lussuria.

La classificazione più avvenire anche in base all’oggetto su cui si riversano gli effetti e le conseguenze del peccato: il De lingua considera turpiloquium, scurrilitas e colloquia mulierum peccati comuni ex insolencia foeditas, all’interno del primo ramo (insolencia contra humanam honestatem) di una struttura tripartita così costituita: i peccati ex insolencia contra humanam honestatem, i quali l’uomo commette contro se stesso, i peccati, ex maliciam contra fraternam caritatem, i quali si volgono contro il prossimo, e da ultimo i peccati ex superbia contra divinam maiestatem, dunque contro la maestà divina64.

La lista operata dal De lingua si rifà alla serie gregoriana dei vizi capitali, sebbene ritenga gola e loquacità non nate dallo stesso organo, ma piuttosto in un rapporto di reciproca alimentazione: cibo e vino stimolano parole scomposte, che a loro volta provocano ulteriori libagioni. Nuovo rispetto agli altri sistemi classificatori fin qui considerati è l’inserimento del tema della pericolosità del dialogo con le donne. Un tema che, si richiama alla tendenza misogina esplicata negli scritti del Tertulliano Montanista, cui abbiamo già accennato, alla menzione dei quali vale la pena aggiungere il De cultu feminarum ed l’Ad uxorem, all’interno del quale pronuncia una severa condanna nei confronti delle seconde nozze. D’altronde, l’imperativo del non parlare con le donne trova voce autorevole già nella prima lettera paolina ai Corinzi: «Mulieres in ecclesiis taceant, non enim permittitur eis loqui; sed subditae sint, sicut et Lex dicit. Si quid autem volunt discere, domi viros suos interrogent; turpe est enim mulieri loqui in ecclesia»65 (Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare;

stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea); ne deriva che, sebbene la posizione misogina della Bibbia nei confronti

64 De lingua, cit., f.196v. 65 Cor. I, XIV, 34-35.

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della donna non sia così definita, San Paolo incita una consenziente subordinazione della donna all’uomo, specialmente nel parlare.

La raccomandazione è auspicata anche nell’invettiva misogina contenuta nell’Adversus Iovininaum, trattato polemico scritto da san Girolamo (347-420 d.C.), a sua volta basato sul frammento De nuptiis dello pseudo-Teofrasto, il quale pone una provocatoria questione al saggio: è conveniente o meno che egli prenda moglie? La risposta è ovviamente negativa, poiché è raro incontrare virtù in una donna66.Evitare

il più possibile i colloquia mulierum diviene, successivamente, un’esigenza tipica soprattutto dell’ambiente monastico di tipo francescano: l’obbligo si trova nella Regula non bullata67, e si ravvede persino nell’atteggiamento di Francesco all’interno della

Legenda Sancti Francisci68.

Parole nel contesto dei banchetti.

È importante considerare che l’associazione gola-loquacità-lussuria prende il via le prime volte al di fuori dell’ambiente monastico, tra le frivolezze dei lauti banchetti

66 Sofronio Eusebio Girolamo, Adversus iovinianum, lib. I, 49 (PL, XXIII, p. 293-294). La questione del “prendere moglie” ha radici ancor più antiche: l’εί γαμητεον (‘se ci si debba sposare’) è tra i discorsi di eloquenza che presto entrano a far parte delle scuole retoriche degli antichi greci, all’interno delle quali sostenitori e oppositori del matrimonio combattono ad armi pare. La più famosa invettiva contro le donne è nella sesta satira di Giovenale, un an uxor sit ducenda, dove il poeta, rivolgendosi a un amico prossimo allo sposalizio, lo ravvede: «sei matto? O sei aigitato dalle furie? Prender moglie! Non riesci a trovare piuttosto una corda per impiccarti, una finestra per buttarti a capofitto, un ponte sul Tevere per saltare un acqua ed affogarti?» (Decimo Giulio Giovenale, Satire VI, 23-32, a cura di E. Barelli, BUR Rizzoli, Milano 2015). Il tema non cessa di essere trattato per tutto l’arco del Medioevo, sotto la diretta influenza di Girolamo, fino al Rinascimento; non manca di passare attraverso la penna illustre del Petrarca prima, in un’epistola indirizzata a Malatesta, nella quale discute Utrum expediat uxorem ducere (Francesco Petrarca, Le Familiari, XXII, 1, a cura di V. Rossi, Sansoni Editore, Firenze 1942, IV, pp. 101-103), e del Bracciolini poi, nel dialogo latino An seni sit uxor ducenda (Poggio Bracciolini, Se convenga prender moglie da vecchi: prima traduzione italiana del dialogo poggiano An seni sit uxor ducenda (1436), a cura di G. Bogliolo, Il settimo libro (S.I.), 2014); fino a collocarsi, in pieno Cinquecento, tra gli interessi dell’autore del Galateo, Della Casa, il quale ne fa anch’egli una «questione piacevolissima» (Giovanni Della Casa, Se s’abbia da prender moglie (an uxor sit ducenda), trad. di U. E. Paoli, Felice le Monnier, Firenze 1944). 67 Francesco d’Assisi, Regula non bullata, XII, in K. Esser, Die “Opuscula” des heiligen Franziskus von Assisi, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 1976, (tr. it. ID. Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Edizioni Messaggero, Padova 1982), p.494.

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