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Diffusione della cultura greca e rilassatezza nei costumi tra XV e XVI secolo.

Il decennio centrale del Quattrocento conosce, in Italia come in Europa, una serie di eventi che generano i presupposti per un irreversibile cambiamento, in campo culturale e sociale, nell’approccio all’oscenità. In Italia, nella seconda metà del secolo, si ha il raggiungimento di un generale benessere economico, principalmente conseguenza della pace di Lodi (1454), stipulata tra papa Nicolò V ed i principi italiani: la pace, ponendo fine allo scontro tra Venezia e Milano, permette alla penisola di godere di un nuovo equilibrio nell’assetto politico-istituzionale che si protrarrà per circa un quarantennio113: un clima di sicurezza che, se da un lato apre la strada allo

sviluppo della cultura rinascimentale, dall’altro permette il diffondersi di nuovi stili di vita e l’insinuarsi di una diffusa rilassatezza nei costumi.

Parallelamente, ben più ad oriente, assistiamo alla caduta di Costantinopoli (1453), punto di partenza di un fenomeno che assume dimensioni impensate: in seguito all’evento le corti occidentali vedono l’affluire di un consistente gruppo di intellettuali bizantini in fuga dall’oriente, i quali, nel processo migratorio, portano con sé un consistente patrimonio culturale; grammatici, poeti, architetti e stampatori trovano il loro spazio nei circoli culturali europei e nelle corti, facendosi maestri di lingua e di cultura greca e soprattutto, divulgando un cospicuo numero di testi greci, che riportano in auge quei nomi antichi volutamente occultati dalla cultura cristiana del Medioevo.

La memoria di quel mondo lontano nel tempo e nello spazio, certamente, non era del tutto scomparsa anche nei secoli precedenti, basti pensare al consistente debito della teologia scolastica nei confronti del platonismo e dell’aristotelismo, o alla continua riscrittura, pur attraverso epigoni latini, di vicende quali quelle che sono

113 Approfondimenti del contesto storico in: P. Majocchi, Francesco Sforza e la pace di Lodi, in «Archivio Storico Lodigiano» (Organo della Società Storica Lodigiana), CXXXIV (2015), pag. 187-286.

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narrate all’interno dei poemi omerici114; un certo desiderio di fondo nei confronti di

quel popolo che tanto aveva dato alla cultura latina era sicuramente rimasto inalterato, tuttavia molti degli antichi nomi illustri erano stati cancellati dalle biblioteche dei monasteri a causa dell’incompatibilità delle loro opere con i precetti su cui era fondata la morale cattolica115.

Così, se gli autori del calibro di Virgilio tornano ad affollare tipografie e biblioteche, è pur vero che torna ad avere una certa diffusione anche la produzione classica di tutt’altro genere, più discordante rispetto alla morale vigente alla fine del Medioevo: viene riscoperta l’opera epigrammatica erotica del Catullo procacior (piuttosto che elegantior), e quella di Marziale, la satira elegiaca di Giovenale, l’Ars amatoria ovidiana, o ancora, sul fronte greco, la poesia di Saffo associata alla sessualità lesbica116 e le tanto esplicite quanto irriverenti commedie di Aristofane. Conoscono

una nuova ampia diffusione tutta una serie di letture inaccettabili per il cristiano modello, figlio degli scritti proibitivi dei Padri della Chiesa e di Agostino, abituato ad evitare con ogni mezzo la carnalità, la sessualità e ciò che ad esse si lega.

Anche sul piano del lessico tornano in auge, tra XV e XVI secolo, una serie di vocaboli greci e latini che a questa tradizione dimenticata si legano, come ad esempio la parola “tribade” (dal greco tribo), in riferimento ai rapporti amorosi lesbici, termine tipicamente usato all’interno della satira di Giovenale col significato di “frottare”, ovvero il principale atto sessuale tra donne117. Insieme al diffondersi di opere a carattere

114 M. De Nichilo, La cultura greca nell’Occidente europeo tra Umanesimo e Rinascimento, «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», XXV (30 giugno 2013), pp. 255-257; J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. di D. Valbusa, con introd. di E. Garin, Firenze, Sansoni, 1992, p. 161 ss..

115 Già a partire nel XIV secolo gli scritti filosofici di Cicerone, Seneca e Aristotele, che erano stati tradotti in latino, avevano ispirato la capacità di riflettere su importanti problemi al di fuori della dottrina cristiana, se non in contrasto con essa.

116 Aperto è il dibattito sulla datazione relativa all’associazione tra Saffo e i rapporti sessuali omoerotici: Jean DeJean sostiene che prima della seconda metà del Cinquecento questa correlazione non esista ancora (J. Dejean, Fictions of Sappho, University of Chicago Press, Chicago, 1989), Harriette Andreadis e Janel Mueller sostengono piuttosto che questa nozione fosse in circolo già dal Quattrocento (H. Andreadis, Sappho in Early Modern England: Female Same-Sex Literary Erotics, 1550-1714, University of Chicago Press, Chicago, 2001, pp. 28-30). Qui ci atteniamo allo studio di Marc Schachter, che individua riferimenti a questa associazione risalenti già alla data del 1475 (M. Schachter, Alcuni anelli mancanti del discorso lesbio: i primi commenti a stampa sopra Giovenale, in Tribadi, sodomiti, invertite e invertiti, perderasti, femminelle, ermafroditi… per una storia dell’omosessualità, della bisessualità e delle trasgressioni di genere in Italia, a cura di U. Grassi, V. Lagioia, G. P. Romagnani, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 39-40).

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eterodosso, si riaffacciano gli ideali di una vita condotta secondo natura, di un’accessibile gioia del mondo, dei suoi piaceri e di una libera espressione di essi: un clima che si riflette specialmente nella produzione letteraria che ruota intorno al Magnifico (1449-1492), al quale è da attribuire l’invenzione del canto carnascialesco, inteso come canto d’arti e mestieri a double entendre, che pratica sistematicamente il malizioso equivoco verbale e l’arditezza del linguaggio.

Caratteristica fondamentale di questa produzione è l’affidare l’intento allusivo e metaforico ad aree semantiche circoscritte quali sono quelle dei mestieri (pescatori, cacciatori, pallai ecc.), così che, attraverso la descrizione specifica e pedissequa della routine di queste arti, filtri ad un secondo livello la descrizione dell’atto sessuale. L’intento dell’equivoco, in questi canti, non compare in maniera occasionale e discontinua (come avviene, piuttosto, nei capitoli burleschi), ma subordina tutto il discorso dal principio alla fine: è il secondo significato, il “sovrasenso”, che detta la scelta del primo significato letterale del testo.

Si pensi alla Canzona de’ lanzi stagnatai, componimento parodisticamente legato alla “strana lingua” comparsa in Italia nel Cinquecento e associata alla presenza di gruppi germanofoni, tra cui, oltre che artigiani, uomini d’armi mercenari lanzichenecchi o, per l’appunto, più brevemente lanzi. All’interno di questa canzone si rivendica l’abilità e la prestanza, sottilmente allusiva, di questi lavoratori dello stagno: «Quando lanzi fonder suole/cazze stagne in correggiuole,/frughe drente col mazzuole/per gittar tutte a un tratte»118. O ancora, si prenda a esempio la Canzona dei

giucolatori di schiena, dove la schiena si presta costantemente a metafora sessuale; in questo caso a proposito dei saltimbanchi si dice: «Sià dal giucar tolti,/dell’entrar e uscir per questo tondo,/perch’oggi in tutto ‘l mondo/insino a’ contadin ne son maestri»119.

Dove il tondo appartiene al gergo sessuale tradizionalmente usato anche negli altri canti e dove, probabilmente, si legge l’auspicio che gli acrobati abbiano smesso di praticare l’arte sodomitica, divenuta oramai troppo volgare.

118 Trionfi e canti carnascialeschi del Rinascimento, a cura di R. Bruscagli, Salerno, Roma 1986, t. I, pp. 199- 200, vv. 23-26.

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Del resto, all’interno dei canti particolare rilievo è dato alla pratica della sodomia, prevalentemente eterosessuale o indifferenziata, solo raramente si coglie l’invito all’omosessualità; la pederastia può identificarsi forse solo nei componimenti che alludono alla caccia al fornuolo, nella quale tordi, tordellini, fringuelli e lusignoli corrispondono ai fanciulletti a cui “andar dreto”, ma risultano versi sporadici nell’economia complessiva del genere. Certo è che la frequente allusione alla sodomia si lega a quelli che erano considerati i vizi poco ortodossi della Firenze dell’epoca e del Carnevale fiorentino; vediamo, dunque, come la produzione carnascialesca si colloca su uno sfondo storico e sociale con il quale si integra perfettamente; ne è prova persino il linguaggio di cui si serve, il quale, attraverso la prevedibilità del meccanismo che sottostà alla doppia lettura e il ristretto campo semantico al quale attinge, risulta essere immediatamente comprensibile al pubblico coevo, già avvezzo e preparato a cogliere tutte le corrispondenze tra detto e non detto120.

Ma per parlare di oscenità letterarie vere e proprie, è ancora troppo presto: occorre fare un salto un po’ più avanti nel tempo, all’affacciarsi del XVI secolo. Questo periodo vede in atto significativi mutamenti sociali e politici in territorio italiano: a seguito della morte di Lorenzo de’ Medici (1492), le rivendicazioni dinastiche di Carlo VIII di Francia sul Regno di Napoli segnano il principio di una serie di lotte volte alla conquista del territorio italiano, il quale, diviso da una fin troppo frammentaria realtà politica di forte impronta cittadina e legata al passato, è incapace di far fronte ai mutamenti repentini che l’Europa impone e di partecipare alla nuova fase di sviluppo che interessa il continente; le occupazioni di Spagna e Francia che ne seguono, trasformano il paese in un terreno di conquiste e lotte intestine, le quali hanno impatto sulla popolazione, portando con sé una ventata d’incertezza121.

La mancanza di una sicurezza politica nel presente e di certezze di stabilità per il futuro sedimenta sui cambiamenti culturali che erano già in atto, generando un’ulteriore rilassatezza dei costumi, soprattutto in quegli ambienti che vedono l’estenuante servilismo di letterati sottomessi al cinismo dei potenti e alla corruzione

120 Zaccarello, Poesia comico-realistica, cit., p. 164.

121 C. Vivanti, La crisi del Cinquecento: Una svolta nella storia d'Italia?, in «Studi storici», anno 30, I (Gennaio - Marzo 1989), pp. 5-23.

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delle gerarchie clericali. Il rapporto con la sessualità conosce nuovi sviluppi e il discorso poetico a double entendre è portato avanti da nuovi protagonisti, in particolar modo all’interno delle aristocratiche cerchie intellettuali che in quegli anni vengono formandosi: per fare un esempio, tra le più note è la cerchia che si raccoglie attorno alla figura del Berni (1497-1535), una schiera di studiosi colti e personalità ben individuate che danno vita ad una poesia viva nei circoli romani degli anni Venti, la quale, rovesciando il modello petrarchista allora in voga, si volge alla produzione di un genere poetico giocato tutto su un linguaggio allusivo e sottilmente osceno, che unisce vocaboli tratti dalla realtà più “bassa” e plebea agli schemi della poesia colta. Un caso particolare, è il caso di dire, del più generale fenomeno per cui la libertà espressiva e la generale volontà di trasmettere messaggi anticonvenzionali rispetto al canone letterario ufficiale vengono fatti convogliare, o come dice Corsaro, irrigidire «entro generi letterari soggetti a normativa»122.

All’interno di questi stessi circoli, fioriscono una serie di opere emblematiche di una contaminazione tra parodia e osceno, le quali insistono su ripetitive e sistematiche metafore (il “fico”, ma anche la “salsicia”, il “bastone” ecc.) in maniera piuttosto evidente e volutamente ostentata, superando in tal senso anche l’archetipo del Berni, che comunque tratta la materia poetica in modo più velato e sottile. Si pensi al Commento di Ser Agresto del Caro (1507-1566), il cui soggetto «sono i fichi, o le fiche: che nell’uno modo et nell’altro son chiamate dall’autore, con tutto che i Toscani se ne scandalizzino, perché vorrebbono i fichi sempre nel genere del maschio»123. Il Commento nasce, a sua

volta, in risposta alla Ficheide di Francesco Maria Molza (1489-1544), poemetto giocoso consacrato alla metafora equivoca del “fico”.

Sono opere che appartengono ad una categoria di scrittori che, per regolamentare la legittimità del loro linguaggio, si adeguano per lo più alla normativa

122 Corsaro, La regola e la licenza, cit., p. 7.

123 Annibal Caro, Commento di Ser Agresto da Ficaiuolo sopra la prima ficata del padre Siceo, Romagnoli, Bologna 1861 (rist. fotomeccanica Forni, Bologna 1967) par. 2 (Proemio del commentatore); degna di nota è una considerazione da farsi sul “soggetto” dell’opera: l’uso metaforico del termine fica (dal greco τό συκον) per indicare l’organo sessuale femminile, sembra risalire al passo della Pace di Aristofane: XO. Του μέν μέγα και παχύ,/ της δ’ηδύ τό συκον, ovvero «Lui ce l’ha grande e grosso,/ lei, ha la fica dolce» (Aristofane, Le commedie, a cura di R. Cantarella, Einaudi, Torino 1972, p.283).

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boccacciana, di cui riferiamo la dichiarazione che ne dà Francesco Bonciani (1552- 1619) nelle Lezioni sopra il comporre delle novelle:

sì veramente che noi abbiamo quella cura che Messer Giovanni Boccacci confessa avere aùta egli: che quando pure si dee raccontare qualche cosa disonesta, con onesti vocaboli si dica, ché allora si conviene por da banda i propii nomi come ne ‘nsegna Monsignore Della Casa, dal quale molto utili ammaestramenti intorno a questa materia si potranno cavare, là dove egli della favella ragiona124.

Contemporaneamente agli sviluppi di una poesia allusivamente erotica sempre più incalzante e provocatoria, però, un altro versante della letteratura si dirige verso un modo d’esprimersi ancora più schietto, crudo ed irriverente, che conosce una diffusione decisamente più limitata, e sul quale è nostra intenzione concentrare maggiormente l’attenzione. Un modo d’esprimersi che possiamo definire propriamente osceno.

All’interno di questo nuovo genere (se di genere ci è consentito parlare) alla rigida pudicizia espressiva derivata da un medioevo essenzialmente sessuofobico e minuziosamente attento nel prevenire ogni espressione considerata peccatum locutionis, si sostituisce una generale libertà nel chiamare e descrivere col loro vero nome i rapporti sessuali, persino quelli contra naturam, e tutto ciò che li riguarda, così come una certa sfrontatezza nel riprendere ed interiorizzare l’ideologia naturalistica degli antichi allora riscoperti. Tutto ciò avviene, lo vedremo, essenzialmente in funzione di una volontà sovversiva rispetto alla norma, di una ricerca pedissequa di alternative rispetto a quella che è la letteratura ufficiale. Percorrendo una strada tortuosa e colma di ostacoli, i primi decenni del Cinquecento vedono sorgere testi dal linguaggio sfacciatamente turpe, in ragione dei quali è legittimo definire il Cinquecento, alla maniera di Vito Tartamella, come il «secolo d’oro della parolaccia»125.

124 F. Bonciani, Lezioni sopra il comporre delle novelle, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di Bernard Weinberg, Laterza, Bari 1972, III, p. 164; passo citato in A. Corsaro, Per una storia del comico nel Cinquecento, in Le forme del comico, a cura di S. Magherini, G. Tellini, A. Nozzoli (Associazione degli Italianisti, XXI Congresso Nazionale, Firenze, 6-9 settembre 2017), Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2019, p. 85.

52 Un genere sovversivo rispetto al canone.

Trattando di una corrente letteraria che nasce con caratteri esplicitamente sovversivi e degenerativi, non possiamo non soffermarci a valutare più da vicino proprio quei modelli rispetto ai quali essa si pone in antitesi. Primo fra tutti è il Petrarca: l’ingresso del poeta aretino all’interno delle corti italiane ha un impatto culturale che segna per molto tempo la storia della letteratura italiana; la consacrazione a modello che ne fa Pietro Bembo (1470-1547) all’interno delle Prose (1525) è l’espressione ufficiale di un processo che è già in atto da oltre un secolo. Bembo, nel trattato, decreta il trionfo dei modelli classici di Cicerone e Virgilio, e corona il Petrarca tra i principali rappresentanti, insieme al Boccaccio, di una certa «gravità e piacevolezza […] del sublime medio»126 a discapito del canone dantesco, il quale, invece, dai riferimenti delle

Prose viene escluso.

A monte delle scelte fatte all’interno delle Prose sono i gusti espressi dalla classe dominante, una categoria di persone avvezze alla vita di corte, le quali si riconoscono nei modelli osannati e identificano la lingua del Petrarca come quella più conveniente alla rappresentazione sia della dimensione collettiva che della dimensione più intima e soggettiva. Nel corso del Cinquecento, a seguito della pubblicazione del trattato del Bembo, un altissimo numero di stampe diffonde le opere del poeta aretino ed i relativi commenti; si avvia una circolazione di poesie stilate sul modello del Canzoniere, il quale ne condiziona, oltre ai contenuti, anche la veste formale: una composizione «modellata sul volume di poesia di piccolo formato (1’8°) di derivazione aldina. […] Quasi a rispecchiare la nuova “misura” tipografica, i titoli si stabilizzano assumendo denominazioni e dimensioni più equilibrate (canoniche)»127; questa produzione si fa

particolarmente intensa tra gli anni ‘20 e ‘30 del Cinquecento, tanto che questo periodo verrà emblematicamente definito il “decennio del canone”. Ma le imitazioni, come

126 La prima stesura delle Prose della volgar lingua : fonti e correzioni/ Pietro Bembo, con edizione del testo a cura di M. Tavosanis, Edizioni ETS, Pisa 2002, libro II, IX, p. 225-227.

127 P. Vecchi Galli, Dalla Raccolta Aragonese alla Giuntina di Rime antiche: riflessioni sul canone lirico italiano fra Quattro e Cinquecento, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana, a cura di A. Quondam, (Atti del V Congresso ADI, Roma 26-29 settembre 2001), Bulzoni, Roma 2002, I, p. 197.

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spesso avviene, sono per lo più insulse e prive di buoni esiti, e la ricchezza contenutistica e formale della poesia petrarchista si riduce frequentemente a un gioco intellettuale. Di fronte alla rigidità e al dogmatismo del petrarchismo, già da oltre un secolo rappresentativo della cultura scolastica, molti cominciano ad avvertire la necessità di un cambio di direzione.

Nel determinare questo cambio, del resto, fa da guida la canonizzazione stessa operata all’interno delle Prose, poiché essa, ufficializzando uno spazio d’imitazione di modelli insuperati, contribuisce alla formazione di una classe di scrittori ed artisti che da quegli stessi modelli, piuttosto, prendono le distanze, andando a gettare le basi per il delinearsi di un genere cosiddetto anti-petrarchista, o anti-bembiano128. Così, mentre

tra i classici cominciano ad essere privilegiati nomi come quelli di Marziale, Catullo o Ovidio, ai quali abbiamo già accennato, sul versante della produzione volgare si diffondono, piuttosto, varie correnti che hanno l’esplicito intento di opporsi all’imitatio del Petrarca e che, rinvigorite dalla lezione degli antichi, si avviano alla ricerca della giusta strada per liberare la letteratura dal dominio soffocante della regola. Al ritorno del platonismo, al parassitismo degli intellettuali cortigiani e all’umanesimo cerimonioso delle corti si oppongono ora nuovi schemi ideologici e culturali che puntano piuttosto alla demistificazione di quel “falso” sublime e di quell’artificiosa armonia pastorale e cortigiana. Così, ancor prima degli albori della cultura rinascimentale, tra gli anticipatori di questa reazione, Antonio Cammelli detto il Pistoia (1436-1502), vilipendia la vanità e la corruzione della corte estense sotto ogni aspetto: «La sua poesia non ci fa vedere soltanto il randagio alla maniera di altri letterati del tempo ma l'uomo insorgente, come nessun altro rimatore, contro gli strumenti della tirannide signorile»129.

Ma il quadro è più complicato di così: la semplice dicotomia tra petrarchismo/ antipetrarchismo viene superata in molte delle opere di questo periodo che, pur

128 Interessante annotare una precisazione fatta da Procaccioli: “antipetrarchismo” è un termine da usare con le dovute precauzioni, senza cadere nell’errore di racchiudere all’interno di questa categoria ogni manifestazione letteraria alternativa rispetto al modello del Petrarca (P. Procaccioli, Pietro Aretino sirena di antipetrarchismo, in Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria tra Riforma e Controriforma, (Atti del seminario internazionale di studi Urbino, Sassocorvaro, 9-11 novembre 2006), Vecchiarelli Editore, Roma 2007, p. 104).

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nascendo dichiaratamente come distorsione del genere canonico, ad esso si rifanno e grazie ad esso vivono130. Le due correnti oppositive sono a tal punto vicine che non

dobbiamo, nel caso della produzione antibembiana, cadere nella tentazione di credere di essere difronte a poeti di bassa cultura o a uomini senza lettere: gli antipetrarchisti di questo periodo alimentano a loro volta un colloquio con il classicismo più autentico e, cosa fondamentale, attingono pur sempre alla realtà culturale promossa dalle Prose, anche se, più che prenderla a modello, la guardano come un repertorio lessicale e tematico, al quale si approcciano con intento polemico e di derisione. La parodia, dunque, andrà ad investire non solo l’aspetto tematico, ma anche il versante più strettamente linguistico, attraverso il rovesciamento di registri lessicali e fraseologici131.

Petrarchisti ed antipetrarchisti montandone e smontandone continuamente i tasselli, dunque, lavorano ad un medesimo puzzle, anzi, talora sono una sola persona. Protagonisti di questo genere, infatti, spesso sono le stesse personalità ben individuate che dominano la scena letteraria del tempo anche sul fronte più tradizionale; va da sé che non deve meravigliare se nella produzione di un solo scrittore, a fianco alle rime giocose che quel “medio sublime”, tanto osannato, prendono a scherno, troviamo le rime tradizionali, che al canone si adeguano senza esitazioni qualora l’occorrenza e il contesto richiedano una maggiore gravità e rigore132; parliamo, insomma, di autori si

trovano ad operare in ambienti lavorativi in cui l’alternanza tra i registri poetici diviene la regola.

È un esempio emblematico di questa adattabilità, la produzione letteraria

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