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Identità narrativa dialetticamente configurata versus identità concepita riduzionisticamente

Identità personale e identità narrativa

1. Il Sé personale come cornice concettuale di medesimezza e ipseità

1.2 Identità narrativa dialetticamente configurata versus identità concepita riduzionisticamente

A ogni modo, il reale punto di attrito tra due visioni alquanto diverse sull’identità del Sé si presenta con l’entrata in scena di una proposta filosofica originale accanto a quella dell’autore, il quale si prefigge di esaminarne i punti deboli ma anche gli spunti innovativi. Parliamo della posizione di Derek Parfit, sostenuta nella famosa opera Ragioni e persone275

. Fondamentalmente – e qui si riscontra l’eredità del filone empirista nella filosofia moderna, nonché i suoi risvolti scettici – il lavoro del filosofo inglese «si indirizza direttamente alle credenze che noi annettiamo, d’ordinario, alla rivendicazione dell’identità personale»276

. Parfit colloca nei passaggi strategici del suo scritto una serie di casi paradossali o puzzling cases, dove la risoluzione di intricati rompicapi sull’identità personale risulta indecidibile e – a detta dell’autore – persino irrilevante, in ordine al chiarimento di certe problematiche riguardanti la sfera dell’agire etico, mira principale dell’intera sua opera. Al termine dell’argomentazione ricoeuriana, noteremo che anche nel caso di questa teoria contemporanea si ripresenterà il ragionamento vizioso, in forza del quale ci si illude di trovare ciò che in realtà è precluso – l’identità-idem –, se non viene dialettizzato con l’istanza di ipseità, indissociabile dalla precedente, e se non viene riconosciuta la funzione imprescindibile della mediazione narrativa tra i due poli del Sé. È quest’ultima, nota Ricoeur, ad annunciarsi tra le pieghe del discorso, quando si pretende di ridurla al silenzio o quanto meno nasconderla dietro la medesimezza.

273 Ivi, pag. 219.

274 Scrive Ricoeur: «Nutro il più gran dubbio circa l’uso del termine di criterio nel campo della

presente discussione. È criterio ciò che consente di distinguere il vero dal falso in una competizione tra varie pretese alla verità. Ora, la questione è precisamente di sapere se ipseità e medesimezza si prestano nello stesso modo alla prova del giudizio di verità. Nel caso della medesimezza, il termine di criterio possiede un senso ben preciso: esso designa le prove di verificabilità e di falsificazione degli enunciati che vertono sull’identità in quanto relazione: medesimo a…[…] Si può allora legittimamente chiamare criterio la prova di verità delle asserzione che vertono sulla medesimezza» (Ibidem).

275 Parfit D., Ragioni e persone, trad. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano, 1989. 276 SA, pag. 220.

La riflessione di Parfit si lancia subito nell’esposizione di una tesi riduzionistica, applicata a tre assunzioni basilari del senso comune, oggetto di una critica demolitrice: si tratta di credenze corrispondenti a criteri per stabilire l’identità di un individuo. La prima è riferita a ciò che propriamente va a costituire il concetto di identità, ossia un qualcosa di permanente dotato di esistenza separata; il secondo riguarda la fiducia riposta nella saldezza del precedente principio, in conseguenza della quale si può sempre rispondere al quesito sul permanere di un determinato ente; la terza afferma che l’intera problematica sull’accertamento dell’identità personale è rilevante per dirimere controversie sullo statuto morale del soggetto.

Quanto alla prima posizione, Ricoeur scrive – riferendosi a Parfit – che

«l’identità attraverso il tempo si riconduce, senza residui, al fatto di una certa connessione (connectedness) fra gli eventi, che questi siano di natura fisica o psichica»277.

La strategia riduzionista, dunque, prevede una descrizione anonima e impersonale, tutta condensata nella nozione di evento278, presa in senso neutro, come semplice occorrenza disposta insieme ad altre in una serie continua, scevra di riferimenti ad un centro di soggettività sostanziale. L’evento come accadimento primitivo comporta esclusivamente l’assunzione dell’esistenza del corpo e del cervello in esso situato e non il pronunciamento intorno a presunte qualità della “persona”. Quest’ultima risulterebbe, agli occhi di Parfit, come una superflua ipostatizzazione di una sostanza sovrapposta e indipendente – un «fatto ulteriore»279

rispetto alla semplice connessione di eventi fisici/psichici; in altre parole, comporterebbe una rischiosa adesione a qualche forma di dualismo, spiritualistico o materialistico. Il riduzionismo qui in questione è tale da operare un’elisione in partenza, prima di affrontare la reale problematica da discutere: l’apparato teorico e il linguaggio adottato rispecchiano infatti la volontà di far dipendere l’intero piano dell’indagine «dalla gamma dei fatti, dall’epistemologia degli osservabili, […]

277 Ivi, pag. 221.

278 È Davidson ad aver teorizzato una «ontologia dell’evento impersonale, che fa dell’azione stessa

una sottoclasse di eventi». Ricoeur, in merito, si chiede: «un’ontologia degli eventi fondata sulla sorta di analisi logica delle frasi di azione condotta con il rigore e la sottigliezza, di cui bisogna far credito a Davidson, non è, forse, condannata ad occultare la problematica dell’agente in quanto possessore della propria azione»? Risponde che sarebbe auspicabile, invece, «un’ontologia altra, in consonanza con la fenomenologia dell’intenzione e con l’epistemologia della causalità teleologica […]. Questa ontologia altra sarebbe quella di un essere in progetto, al quale apparterrebbe di diritto la problematica dell’ipseità» (Ivi, pag. 156, 169, 170).

dall’ontologia dell’evento»280

, a scapito dell’imprescindibile dimensione del(l’esser) sempre mio, riferita in primis al corpo vissuto ed emblematicamente connotata da termini come “qualcuno”, “chi”. È l’«appartenenza sempre mia»281

e lo «statuto fenomenologico»282

del corpo-proprio ad introdurre l’ipseità nella circoscrizione del Sé: se rinunciamo ad appellarci alla forza pragmatica dei pronomi personali283

, se ci sbarazziamo dell’ascrizione a sé di qualsivoglia enunciato intorno all’identità, non ci resta che postulare entità impersonali come, ad esempio, una sorta di memoria contenuta in tracce cerebrali, organizzate causalmente.

Il secondo punto controverso riguarda la possibilità di risolvere o meno quei casi in cui è estremamente difficile verificare l’attribuzione di identità ad un soggetto o individuo. Su questo terreno, in cui proliferano incontrollate le aporie, si pone il tentativo riduzionistico di Parfit: grazie all’ausilio dell’immaginazione e sull’esempio della fantascienza, è possibile elaborare situazioni problematiche in cui la risposta definitiva in merito è ben lungi dall’essere ottenuta. Ricoeur nota che, se si comincia occupandosi soltanto di «entità che dipendono dal registro del manipolabile»284

, come il cervello, il corpo-oggetto, le tracce mnestiche, la ricorrenza di eventi – tutte nozioni appartenenti all’universo concettuale dell’identità-medesimezza –, è inevitabile concedere che i puzzling cases sono destinati ad inquietare il pensiero con la loro indecidibilità; una volta fissati nella prospettiva riduzionista, i parametri di riferimento sulla cui base affrontare i paradossi conducono al riconoscimento della vuotezza ed irrilevanza del problema dell’identità, almeno in simili casi estremi. Senza occuparsi del complesso di significati attinenti all’istanza di ipseità, Parfit valorizza l’esempio del teletrasporto ed altri dello stesso tenore per confermare la sua ipotesi di partenza, cioè quella per cui non è così ovvio quanto sembra rispondere a quesiti sulla permanenza di un’identità, nonché sulla sua esistenza separata. Il vizio di fondo presente nell’argomentazione, secondo Ricoeur, è dovuto al fatto che i puzzling cases invocati a sostegno della teoria riduzionistica, in realtà la presuppongono e perfino

280 Ibidem 281 SA, pag. 223. 282 Ibidem

283 «Per l’indagine referenziale la persona è, innanzitutto, la terza persona, dunque quella di cui si

parla. Per l’indagine riflessiva, di contro, la persona è innanzitutto un io che parla ad un tu. La questione sarà, in definitiva, di sapere come l’ “io-tu” dell’interlocuzione possa esteriorizzarsi in un “lui” senza perdere la capacità di designare se stessi, e come lo “egli/ella” del riferimento identificante possa interiorizzarsi in un soggetto che si dice da se stesso. Proprio questo scambio tra i pronomi personali sembra essere essenziale a ciò che ho chiamato una teoria integrata del sé sul piano linguistico» (SA, pag. 120).

«dissociano le componenti che nella vita quotidiana noi riteniamo indissociabili e il cui legame riteniamo non contingente, e cioè il ricoprirsi della connessione psicologica (ed eventualmente corporea), che a rigore può dipendere da una descrizione impersonale, e il sentimento di appartenenza – in particolare dei ricordi – a qualcuno in grado di designare se stesso come il loro possessore»285.

Dunque, ciò che viene negligentemente tralasciato, nell’opzione teorica di Parfit, sono la temporalità e storicità fondamentali del soggetto individuale, tali per cui si potrebbe parlare della «radice terrena dell’uomo»286

. A questa insuperabile condizione accenneremo tra poco.

La terza credenza del senso comune si sposta propriamente sul piano delle considerazioni etico-morali-giuridiche, veicolate dal concetto utilitaristico di scelta razionale incentrata sul proprio interesse egoistico. Bisogna dissolvere, secondo Parfit, la rigida ontologia che sta dietro ai giudizi d’importanza annessi alla questione dell’identità personale. Questo perché, sul piano assiologico, a dirimere i conflitti riguardanti il bene proprio e altrui non servono le supposizioni infondate del senso comune, per il quale è necessario sapere, prima di deliberare, se ci sia e cosa sia una persona, un nucleo sostanziale a cui, in ultima analisi, vanno riconosciuti certi diritti e certe proprietà. Qui, però, il «buddismo»287

morale di Parfit inclina «a non far differenza tra medesimezza ed (esser) sempre mio»288

: la crisi dell’identità in quanto idem – o almeno la sospensione del giudizio intorno ad essa –, scaturita dagli esperimenti mentali insolubili, coinvolge pure l’ipse, che in tal modo scompare definitivamente, neutralizzato. A torto, dal momento che, sebbene vi siano casi – che presto vedremo – in cui le variazioni immaginative introdotte in ambito narrativo modifichino la concezione dialettica dell’identità fino quasi a disgregarla, non è lecito abolire la «cura di sé»289

costitutiva dell’ipseità. Un conto, dunque, è combattere l’egotismo morale, un altro è minare le fondamenta del Sé, provocandone una crisi senza via d’uscita. D’altro canto, Ricoeur rammenta che il cammino di auto- riconoscimento del Cogito passa inevitabilmente attraverso momenti di frattura e spossessamento: l’alterità abita sempre l’ipse nei suoi rapporti con l’idem; alla domanda «chi sono io in verità?»290

, spesso manca una risposta plausibile.

285 Ibidem 286 Ibid. 287 SA, pag. 228. 288 Ibidem 289 SA, pag. 229. 290 Ivi, pag. 230.