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Il problema generale dell’identità: la permanenza nel tempo

Identità personale e identità narrativa

1. Il Sé personale come cornice concettuale di medesimezza e ipseità

1.1 Il problema generale dell’identità: la permanenza nel tempo

Quanto al primo versante, la medesimezza, Ricoeur scrive che riassume in sé quattro caratteristiche dell’identità in quanto tale: l’identità numerica, l’identità qualitativa, la continuità ininterrotta nel cambiamento e la permanenza nel tempo. A questo livello, è lecito collocare l’interrogativo “che cosa?”, per cui si cerca di identificare un substrato, in senso relazionale258

; da un punto di vista descrittivo/fenomenologico, poi, aderisce a questa concettualizzazione il termine di “carattere”, in quanto «insieme delle note distintive che consentono di reidentificare un individuo umano come il medesimo»259

. Con un altro linguaggio, si potrebbe dire che i tratti caratteriali

257 SA, pag. 202.

258 «La medesimezza è un concetto di relazione e una relazione di relazioni». L’identità come

struttura invariabile alla base della continuità ininterrotta nello sviluppo di un medesimo individuo «conferma il carattere relazionale dell’identità, che non appariva nell’antica formulazione della sostanza, ma che Kant ristabilisce classificando la sostanza fra le categorie della relazione, in quanto condizione di possibilità di pensare il cambiamento come sopravvenente a qualcosa che non cambia, per lo meno nel momento dell’attribuzione dell’accidente alla sostanza» (Ivi, pag. 204, 6).

rimandano alla finitezza260

fondamentale dell’esistenza, poiché vanno compresi insieme alle disposizioni acquisite le quali, sedimentandosi, assicurano continuità alla persona, nonché una storia interiore stabile, vista ad uno sguardo retrospettivo. Inoltre, la forza dell’abitudine, implicita nel concetto di carattere, si unisce a tutte le identificazioni contratte sin dalle prime relazioni col mondo circostante: nel soggetto accadono molteplici interiorizzazioni grazie a cui l’alterità man mano diviene familiare, arrivando a plasmare il comportamento, a orientarlo in base a preferenze, apprezzamenti, e a insediarlo in una determinata angolatura, tale per cui «la persona si possa riconoscere a partire dalle sue disposizioni, che si possono dire valutative»261

. L’altro polo, in tensione con l’identità-idem, è quello dell’ipseità, emblematicamente raffigurato dalla promessa, o meglio da ciò che ne consegue, cioè il mantenere la parola data; insomma, la fedeltà ad un impegno preso verso altri. Questo momento si riassume nella domanda “chi sono io?” e ci ricorda che il narrativo investe l’identità personale

«al modo di una medietà specifica fra il polo del carattere, nel quale idem e ipse tendono a coincidere, e il polo del mantenersi, in cui l’ipseità si affranca dalla medesimezza»262.

L’interlocutore privilegiato del dibattito è rappresentato dalla posizione della filosofia analitica in merito all’identità personale, concepita rigorosamente nel senso di idem, di «invariante relazionale»263

, con tutti i paradossi che ne conseguono. Ma se questo lato della questione implica «il ricoprirsi quasi completo della problematica dell’idem e di quella dell’ipse una attraverso l’altra»264

, quando invece si considera il secondo modello di permanenza nel tempo – «la perseveranza della fedeltà alla parola data»265

–, le due forme di identità arrivano al punto di dissociarsi completamente. Questo schema diventa comprensibile nel momento in cui, grazie all’abitudine che accumula tratti stabili fino a renderli quasi automatici, il carattere viene concepito in forma di storia contratta, cioè di un insieme di atti sedimentati nella loro ripetitività e

260 Scrive Brezzi, riferendosi al contesto di Finitudine e colpa: «Procedendo ancora nello scavo

ermeneutico e ricercando il nucleo genetico della fallibilità stessa, Ricoeur lo individua nella

pathétique de la misère, espressione con cui il pensatore attinge a una matrice non filosofica,

intendendo il sentimento o pathos che l’uomo avverte della propria condizione, la prima consapevolezza, seppure ancora in una forma oscura e ambigua, della intima sproporzione che caratterizza la sua difficile esistenza» (IR, pag. 32).

261 SA, pag. 211. 262 Ivi, pag. 207. 263 Ibidem 264 Ibid.

quindi suscettibili di essere vissuti o subiti passivamente. L’intervento della narrazione, tuttavia, è già presente in nuce a questo livello di esteriorità rispetto a se stessi: il termine “carattere”, usato in certi contesti per definire il personaggio di un racconto, ricorda che ciò che pare immutabile può essere inserito in una corrente narrativa e, così dinamicizzato, riscoprirsi, nonché duttilmente riplasmarsi.

Luogo per eccellenza della seconda modalità di permanenza nello scorrere temporale, come si diceva, è la promessa: il mantenersi fedele ai propositi, che contraddistingue la «costanza nell’amicizia»266

. In questo caso, si attua nella dimensione di ipseità una tendenza polarmente opposta267

a quella descritta a proposito dell’identità-medesimezza con il termine “carattere”; qui accade una peculiare «sfida al tempo, un diniego di cambiamento»268

, ma non tanto tramite il rinvenire un “che cosa” come substrato invariabile, quanto richiamandosi all’istanza etica contenuta nel patto di amicizia rispettato.

Ricoeur, esaminando la dottrina di due eminenti pensatori del passato – Locke269

e Hume270

– sull’argomento dibattuto, coglie alcuni concetti che si porranno alla base dei tentativi successivi di spiegazione da parte di un certo orientamento di pensiero, quello di cui egli vuol sottolineare i limiti: la coincidenza tra identità personale e memoria271

; la divisione tra una certa identità psichica e una corporea; il ruolo dell’immaginazione e della credenza272

nella costituzione illusoria di un quid che permane nel variare delle percezioni coscienti. Si vedrà che, istruiti da questi concetti, non sarà possibile eliminare il paradosso che incombe su una siffatta teoria della coscienza. Infatti, escludendo ogni riferimento alla dimensione di ipseità, si finisce per presupporla tacitamente e questo accade proprio quando si cerca, in sua vece, una entità che risponda alle caratteristiche dell’idem, nel senso di un qualcosa, un “dato”. Lo stesso si verifica quando si fa del corpo un criterio per assicurare l’identità nella sua accezione di medesimezza: al contrario, dice Ricoeur,

266 Ibidem

267 Ricoeur, nota che «in questo gioco equivoco [di opposizione speculare], gli aspetti pratici e

pathici sono più temibili degli aspetti concettuali, epistemici» (Ricoeur P., La memoria, la storia,

l’oblio, a cura di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano, 2003, pag. 117).

268 SA, pag. 213.

269 Cfr. Locke J., Saggio sull’intelletto umano, a cura di M.G. D’Amico e V. Cicero, Bompiani,

Milano, 2007.

270 Cfr. Hume D., Trattato sulla natura umana, trad. di P. Guglielmoni, Bompiani, Milano, 2001. 271 Con Locke, «basta considerare la memoria come l’espansione retrospettiva della riflessione che

va tanto lungi quanto essa può estendersi nel passato; grazie a questa trasformazione della riflessione in memoria, si può dire che la “medesimezza con se stessi” si estende attraverso il tempo» (SA, pag. 215).

272 «All’immaginazione viene attribuita la facoltà di passare con facilità da un’esperienza all’altra

se la loro differenza è debole o graduale, e così di trasformare la diversità in identità. La credenza serve poi da collegamento, che colma il deficit dell’impressione» (Ivi, pag. 218).

l’«appartenenza [del corpo] a qualcuno in grado di designare se stesso come colui che possiede il suo corpo»273

è garantita dal modo veritativo dell’attestazione e non da procedure di verifica empirica guidate da criteri274

.

1.2 Identità narrativa dialetticamente configurata versus identità