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II metà del XIX-XX secolo Dall’abolizione della schiavitù alla

1.1 Lo spazio colonizzato: excursus storico-politico

1.1.4 II metà del XIX-XX secolo Dall’abolizione della schiavitù alla

départementalisation

L’abolizione definitiva della schiavitù si ebbe il 27 aprile 1848, quando il governo provvisorio della Repubblica firmò il decreto che sanciva il provvedimento immediato, una soluzione radicale che si distaccava completamente dall’emancipazione progressiva decisa tra il 1833 e il 1838 nelle Antille inglesi. Questo avvenne poco dopo le giornate rivoluzionarie di febbraio e in seguito alla creazione di una commissione per l’abolizione della schiavitù voluta da Schœlcher, che lasciò fuori l’abolizionista Bissette e con esso qualsiasi colono. Obiettivo primario di tale commissione, oltre a far rispettare i termini del decreto di abolizione, era garantire insieme alla libertà anche il lavoro. Se l’abolizione non ebbe forti conseguenze sull’economia, con una crisi passeggera della produzione di zucchero, al contrario ci fu una vera e propria crisi sociale, causata dal rifiuto dei nuovi libres a continuare il loro lavoro nelle coltivazioni di canna da zucchero a regime schiavista.

I provvedimenti presi per contenere la situazione, come la creazione del libretto del lavoro, o ancora una politica d’immigrazione di nuova manodopera, sicuramente contestabili, incrementarono il clima di tensione già alimentato dai dibattiti politici – come quello portato avanti da Bissette e Schœlcher – attorno allo statuto di nuovo cittadino, in vista delle elezioni dei rappresentanti delle

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colonie in Francia tramite il suffragio universale. Il colpo di Stato del 1851, se da un lato ristabilì l’ordine, dall’altro vide il ritorno di un sistema coloniale che privava sia i vecchi che i nuovi libres dei loro diritti di cittadini, favorendo invece lo sviluppo di una nuova economia zuccheriera basata sulle fabbriche centrali.

La notizia dell’abolizione decisa nella metropoli arrivò nelle colonie con quasi un mese di ritardo, visto che i commissari incaricati di applicare le nuove disposizioni, Perrinon per la Martinica e Gâtine per la Guadalupa, sbarcarono nelle isole solo a giugno. Le reazioni delle due colonie alla novità in atto furono come al solito diverse, con un fermento più acceso da parte dei martinicani rispetto alla più calma Guadalupa. Quando fu accettato il principio dell’emancipazione, un anno prima, furono in molti ad interrompere il lavoro nelle coltivazioni, e quindi il ministro della Marina Arago aveva precisato che la liberazione sarebbe avvenuta solo al termine della raccolta, per evitare uno spreco di energie e di denaro; fino ad allora bisognava mantenere l’ordine, e l’abolizione divenne effettiva ben due mesi dopo la sua diffusione nelle colonie.

Tuttavia, la stampa diffuse una lettera di Perrinon che affermava che «ce sont des citoyens nouveaux que la République va donner à la France»29 e il clima di agitazione salì sempre più, soprattutto tra le persone di colore, fino all’episodio che scatenò la sommossa dei neri del 21 maggio30 e costrinse il governo a proclamare il 23 maggio l’emancipazione immediata in Martinica31; pochi giorni dopo, e precisamente il 27 maggio, anche a Basse-Terre veniva dichiarata effettiva l’abolizione. Il clima generale di gioia ed entusiasmo fu enorme nelle colonie: la gente, di qualsiasi classe ed estrazione sociale, scese in strada a festeggiare, i neri gridavano “Vive la République, Vive la Liberté!”, mentre i coloni abbandonavano con le loro famiglie la Martinica per raggiungere le isole

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P.BUTEL, op. cit., p. 293.

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Butel riporta un estratto di Pierre Dessalles dal suo Vie d’un colon, 1848-1856, (op. cit.), dove racconta l’episodio accaduto ad un colono il quale, dopo aver fatto arrestare un suo schiavo che lo aveva minacciato con un coltello, scatena una tremenda sommossa di più di ventimila neri, conclusasi in un bagno di sangue, Ibidem, p. 293.

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«L’esclavage est aboli à partir de ce jour à la Martinique, le maintien de l’ordre est confié au bon esprit des anciens et des nouveaux citoyens français». G.STEHLE, L’abolition aux Antilles, Généalogie et Histoire de la Caraïbe, n° 81, avril 1996, p. 1600.

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vicine o gli Stati Uniti, e la gente di colore, ben diversa dai libres e senza alcuna proprietà da difendere, si abbandonavano al saccheggio delle campagne.

Due furono gli incarichi che il commissario mulatto Perrinon si trovò ad affrontare all’indomani della liberazione: riorganizzare il lavoro32 e gestire le elezioni, dando ai nuovi cittadini la possibilità di esercitare il loro diritto di voto. Il primo obiettivo non era certo di facile realizzazione, dato che la reazione più diffusa fra i nuovi libres fu il rifiuto assoluto di lavorare nelle coltivazioni fino ad allora detestate. Nonostante le nuove proposte di lavoro, portate avanti soprattutto da Dessalles che cercò di allentare le rigide posizioni di rifiuto dei nègres, come ad esempio il contratto d’associazione, il salariato o ancora il colonage partiaire33, la riorganizzazione del lavoro incontrò notevoli difficoltà, mentre disordini e manifestazioni di vagabondaggio si diffusero in tutta la colonia. Anche quando la ripresa del lavoro fu effettiva, una sorta di agitazione latente perdurò, di pari passo con un’improvvisa caduta delle produzioni.

Le elezioni, e il clima di entusiasmo e tensione che una simile novità portò nelle colonie, rappresentarono una nuova occasione per mettere a confronto le varie parti sociali e politiche della realtà coloniale, oltre che una sfida per i funzionari del governo chiamati a controllare la delicata questione politica, primi fra tutti Schœlcher e Bissette. Nel 1848 le Antille potevano eleggere deputati all’Assemblea Nationale, tre per la Martinica e altrettanti per la Guadalupa, con in più due sostituti.

Le elezioni e la campagna elettorale avvennero in Guadalupa con maggiore tranquillità, animati anche da riviste schierate dalla parte dei coloni o della gente di colore, e si arrivò all’elezione di Mathieu, sostituto di Schœlcher, il quale, avendo vinto anche in Martinica, preferì quest’ultima colonia; la campagna

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Cochin analizza due questioni di vitale importanza all’indomani dell’abolizione, vale a dire l’organizzazione del lavoro e la gestione dell’immigrazione; per maggiori dettagli si rimanda alla sezione dell’opera di Cochin dedicata a tali problematiche. A. COCHIN,op. cit., Chapitre XII, «Le travail et l’immigration», pp. 189-219.

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Butel si sofferma a spiegare i vari sistemi contrattuali, tra cui il colonage partiaire e il salariat, sui quali Perrinon e altri cercavano di basare il lavoro post-abolizione, tutti pensati allo scopo di stabilire un compromesso tra i nuovi liberi e i coloni, senza danni alla produzione. P. BUTEL, op. cit., p. 295.

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martinicana fu più accesa, a causa della ormai storica diatriba tra Schœlcher e Bissette, ma in entrambe le colonie la partecipazione elettorale fu molto alta, arrivando ad una percentuale del 75% di elettori.

Il dibattito tra i due uomini politici si consumò per lungo tempo anche sulla stampa: la gente di colore (i vecchi liberi) sosteneva Schœlcher attraverso il giornale La Liberté, mentre i coltivatori (i nuovi liberi) difendevano Bissette e leggevano Le Courrier de la Martinique. Queste opposizioni che infervorarono l’opinione pubblica delle colonie, cessarono improvvisamente con il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, che riportò a galla la scottante questione del conflitto tra coloni bianchi e gente di colore che sembrava irrisolvibile.

Lasciando da parte le dinamiche politiche, passiamo ad analizzare i mutamenti che l’abolizione portò nelle campagne antillane, con il passaggio, nel giro di mezzo secolo, dall’habitation alla usine centrale, attraverso i primi tentativi di modernizzazione della produzione di zucchero che cambiarono il volto dell’economia antillana, e con esso il volto del paesaggio antillano. L’habitation tradizionale, già profondamente in crisi sotto la monarchia di Luglio, subì una grave perdita di manodopera con l’abolizione del 1848, dovuta al fatto che numerosi nuovi libres abbandonarono, come abbiamo precedentemente visto, la coltivazione della canna e fu necessario ricorrere all’immigrazione africana, indiana o asiatica per trovare nuovi lavoratori.

Parallelamente alla crisi della manodopera, la situazione finanziaria dell’habitation era sempre più difficile, i coltivatori essendo già indebitati e non potendo contare sulla misera indennità prevista dagli abolizionisti. Tuttavia, la crisi non fu repentina e il declino delle tradizionali habitations non fu brutale, fino al 1870, infatti, la maggior parte della produzione di zucchero derivava ancora dalle vecchie coltivazioni. Fu proprio a partire dal 1870 che la situazione peggiorò, come dimostra l’esempio della Martinica, dove le regioni del Sud soffrirono maggiormente del declino delle habitations rispetto alla parte Nord dell’isola, che rimase meno esposta alla crisi in atto. La difficoltà maggiore riguardò la modernizzazione necessaria a ridurre i costi e a produrre zucchero di

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qualità che potesse fare concorrenza ai nuovi prodotti delle prime fabbriche centrali, allora in crescita.

Le habitations in crisi che versavano in gravi situazioni finanziarie e produttive venivano chiuse o messe in vendita, dato che erano pochi i casi di békés bravi imprenditori in grado di risollevare le sorti della produzione senza contare sul Crédit foncier colonial, la banca che finanziava prestiti in cambio di ipoteche ma con l’obiettivo primario di sviluppare le nuove fabbriche più che salvare le vecchie habitations. Infatti, a partire dagli anni 1860-1870, la regina incontrastata dell’economia antillana fu proprio la fabbrica, detta usine centrale, il cui sviluppo sempre maggiore portò al tramonto definitivo dell’habitation, che toccò nel 1884 la crisi definitiva.

Fu così che i vecchi planteurs lasciarono il posto ai nuovi usiniers34. Le cause sono da ricercare anche nella situazione del commercio mondiale dello zucchero: lo zucchero grezzo dell’habitation non poteva di certo competere con lo zucchero di canna o di barbabietola della produzione mondiale, che non contemplava di certo tra i suoi giganti le Antille francesi, spiazzate sul mercato mondiale da Cuba, Java e Hawaii.

Volendo entrare nello specifico delle tecniche di produzione, già prima dell’emancipazione le procedure tradizionali erano state messe in discussione dal principio di separazione della coltivazione della canna dalla produzione di zucchero: per stare al passo con le produzioni mondiali, si rendeva di vitale importanza una modernizzazione delle tecniche, come ad esempio la distribuzione di materia prima. I primi risultati della sinergia tra nuova tecnologia, appoggio finanziario e dinamiche commerciali innovative, si ebbero solo dopo il 1870. Tuttavia, nell’arco di tempo di un trentennio, dal 1850 al 1880, la fabbrica aveva senza dubbio offerto all’economia antillana un’occasione per superare la crisi del 1848: basti l’esempio della Martinica che, grazie allo sviluppo della fabbrica, mise le basi della sua prosperità futura mentre, come

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«Depuis l’émancipation, les habitations sucrières ont subi une dépréciation constante, faute de bras suffisants pour la grande culture. Les planteurs ont été absorbés dans la puissante corporation des usiniers». A. CORRE, Nos Créoles, étude politique-sociologique, 1890, Paris, L’Harmattan, édition C. Thiebaut, 2001, p. 123.

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nella vicina Guadalupa, la vecchia habitation stava man mano scomparendo con la fine del XIX secolo.

Ritornando alla situazione del lavoro successiva all’abolizione, si è già accennato alla netta opposizione dei nuovi libres al lavoro nelle coltivazioni, con tutte le conseguenze disastrose che derivarono da una simile presa di posizione, disordini, sommosse e una forte emigrazione verso le città, dove si assistette alla nascita di sobborghi malfamati, come è il caso del “faubourg des Terres-de- Sainville”35, sorto nella città di Fort-de-France già all’indomani della legge della liberazione del 1832.

Tuttavia, la fuga o la ribellione non rappresentarono le uniche reazioni alla liberazione, anzi in molti restarono sull’habitation, pur senza lavorare, a difesa di una misera proprietà, la capanna o il giardino, unici simboli di un’identità ormai messa in discussione36. Le testimonianze riguardanti la vita degli schiavi liberati agli inizi del 1850 risultano numerose e spesso contraddittorie, anche se si registra una forte tendenza a vivere come piccoli agricoltori proprietari, grazie ai guadagni del lavoro sulla piantagione37.

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Luoghi come il sobborgo malfamato di Terres-de-Sainville vengono spesso scelti dagli scrittori martinicani, ad esempio Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant, per ambientare i loro romanzi, in accordo con una rappresentazione dello spazio antillano come strumento di rinegoziazione dell’identità. A titolo d’esempio, citiamo L’Allée des Soupirs di Confiant, ambientato a Fort-de-France, tra Terres-de-Sainville e il quartiere omonimo che dà il titolo al romanzo, o ancora Le Nègre et l’Amiral, il cui teatro è la bidonville del Morne Pichevin; esemplare della scrittura romanzesca dello spazio di Chamoiseau è invece il suo romanzo Texaco, epopea di un quartiere simbolo dell’evoluzione spaziale dalla plantation alla ville. Riprenderemo più avanti il rapporto tra spazio e identità, per un approfondimento nei capitoli secondo e terzo, dedicati alla rappresentazione letteraria dello spazio antillano e allo spazio romanzesco francofono. Per i riferimenti dei romanzi qui citati si rimanda alla bibliografia relativa al corpus letterario.

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In realtà l’habitation, se da un lato era oggetto di odio da parte dello schiavo, perché simbolo della sua condizione di cattività, dall’altro rappresentava l’unico punto di riferimento in un periodo di grandi cambiamenti sociali che portavano inesorabilmente a crisi identitarie dell’individuo o dell’appartenente ad un gruppo sociale, poiché l’iniziale opposizione bianco vs nero era resa sempre più complessa dai conflitti interni ad una stessa classe sociale, come testimonia la condizione ambigua dei mulatti.

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Butel dedica un intero paragrafo alla situazione dei contadini nelle vesti di piccoli proprietari terrieri, facendo spesso riferimento allo studio di Christine Chivallon, Espace et identité à la Martinique; nel suo lavoro la studiosa racconta la conquista dei mornes ad opera dei Libres del 1848, testimoniando una «stratégie de compromis» tra l’identità del vecchio schiavo, saldamente ancorata al lavoro nella plantation, e il desiderio di emancipazione tramite il lavoro e l’acquisto della terra, e non più l’appropriazione illegale. Riprenderemo più avanti, nei

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La nascita in Martinica di una classe contadina di piccoli proprietari dopo l’abolizione della schiavitù, testimoniata anche da Annick François-Haugrin nel suo studio sull’economia agricola martinicana38, dimostra come sia possibile per i nuovi liberi abbandonare il mondo della piantagione, così a lungo odiato, per riappropiarsi, attraverso l’acquisto legale della terra e una nuova consapevolezza del proprio lavoro, di un’identità che parte proprio dalla piantagione e che da essa vuole emanciparsi.

Per arginare i tentativi di evasione dal lavoro, una vera e propria “police du travail” fu messa in atto, attraverso l’istituzione del libretto di lavoro, imposto a tutti i nuovi libres che lavorano o in grado di lavorare (secondo le varie tipologie di lavoro e con un impiego inferiore ad un anno); il libretto doveva essere visto dalle autorità e ciascun individuo senza visto era ritenuto un vagabondo. A questa disposizione seguì un consistente flusso migratorio nelle grandi città e nei borghi di piccoli lavoratori dipendenti, che si trasferivano con le famiglie e dividevano tra di loro case dalle condizioni di vita e di igiene assolutamente precarie. La mancanza di manodopera di cui si è già accennato in precedenza, dovuta agli ammutinamenti dei nuovi liberi, e la forte richiesta di lavoratori per le nuove fabbriche in corso di installazione, favorirono un’immigrazione straniera massiccia39, resa indispensabile dopo il fallimento dell’immigrazione di lavoratori europei.

La necessità di manodopera nelle Antille vide l’immigrazione tra il 1854 e il 1855 finanziata dallo Stato e dalle banche, con una richiesta di lavoratori asiatici: indiani e cinesi costavano poco ed erano di indole pacifica, quindi non portati alla ribellione, ma avevano il difetto di essere molto delicati di salute; tuttavia, molti “coolies”, così venivano chiamati gli immigrati asiatici nelle

paragrafi dedicati alla riappropriazione dello spazio e al rapporto tra paesaggio ed identità, il concetto di «dépossession permanente de son identité» al quale, secondo la Chivallon, il contadino riesce a sfuggire grazie al tentativo di rinegoziazione del suo lavoro. P.BUTEL, op. cit., pp. 311-312; C. CHIVALLON, Espace et identité à la Martinique, paysannerie des mornes et reconquête collective, 1840-1960, Paris, CNRS, 1998.

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A. FRANÇOIS-HAUGRIN, L’Économie agricole martiniquaise, ses structures et ses problèmes entre 1845 et 1882, Université de Paris-I, thèse 1984.

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Sul fenomeno dell’immigrazione nelle colonie francesi conseguente all’abolizione della schiavitù e alla riorganizzazione del lavoro, si rimanda alla nota 32.

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Antille, dopo anni di lavoro nelle colonie rinunciavano a tornare in patria, come sarebbero stati liberi di fare dopo cinque anni, e si installavano in maniera definitiva nelle colonie, in lotti di terreno che lavoravano in condizioni di estrema dipendenza dal proprietario. Insieme agli indiani, anche gli africani, provenienti soprattutto dal Congo, sbarcarono per la seconda volta nelle Antille come manodopera, ma tale immigrazione fu presto ridotta, dato che i fantasmi della Tratta negriera sembravano riaffacciarsi a distanza di secoli di lotte e conquiste per la liberazione.

Ma quali furono le conseguenze che eventi come l’abolizione, il passaggio dalle habitation alle fabbriche, i flussi migratori, le nuove condizioni di lavoro... ebbero sulla società antillana alla fine del XIX secolo? I grandi mutamenti socio- economici che ne conseguirono non vennero presi affatto in considerazione dai coloni i quali, di fronte alle paure scatenate dall’emancipazione, reagirono con un nostalgico ritorno alle tradizioni che avevano permesso la prosperità coloniale, e ottennero dal governo metropolitano le misure per soddisfare i loro desideri.

Che la conciliazione e la pace fossero delle necessità sociali in un periodo di mutamenti repentini, sembrava chiaro a tutti, ma erano in molti a credere che la strada che portava al compromesso non dovesse passare attraverso elezioni e campagne elettorali, quindi per via politica, bensì tramite il lavoro, dai campi alle fabbriche, passando per i rapporti commerciali e privati. Il filo rosso che accomunava le diverse parti sociali delle Antille, vale a dire le tre grandi fazioni di bianchi, neri e mulatti, ognuna con le proprie specificità, era senza alcun dubbio il razzismo, il cui spettro aleggiava nei cuori di tutti gli uomini coinvolti nella colonizzazione, padroni e schiavi allo stesso tempo.

La notevole conquista nel 1871 del diritto di voto esteso a tutti, senza alcuna distinzione di razza, non allentò tuttavia la delicata questione dei problemi razziali da sempre presenti nelle società antillane, come in Martinica e in Guadalupa. Mentre i bianchi decidevano deliberatamente di non votare e i neri in maggioranza si astenevano, la vita politica alla fine del XIX secolo era diretta quasi sempre dai mulatti. Una svolta decisiva negli affari politici delle colonie si ebbe nel decennio 1890, quando la grave crisi dello zucchero spinse i neri ad

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emergere finalmente nella vita politica delle Antille, liberandosi dalla protezione della classe mulatta che fino ad allora li aveva mantenuti nell’ombra. Se l’impressione generale era quella di una mancanza di vita politica nelle isole, una sorta di intorpidimento delle attività politico-sociali, in realtà il 1848 rappresentò il giro di boa di tutta la politica antillana a venire, con un allentamento della censura e la comparsa di fazioni all’interno del consiglio generale della Martinica che potessero fare pressione sul potere centrale.

All’inizio il regime mirava alla distruzione dello spirito assimilazionista del 1848 che avrebbe voluto integrare le Antille alla Seconda Repubblica, tuttavia non si può affermare che in Francia non ci fosse alcun organo rappresentativo delle colonie, portavoce delle esigenze e degli interessi dei francesi d’oltremare. Infatti, un comitato consultativo delle colonie aveva sede a Parigi e tra i componenti vi erano, oltre ai membri scelti dal governatore, anche delegati dei consigli generali delle Antille, composti per la maggior parte da bianchi ma anche da alcuni mulatti. Quest’ultimi avevano già fatto carriera nell’Amministrazione, dove ricoprivano ruoli di una certa levatura come sindaci e consiglieri, e cominciavano dunque ad affacciarsi con determinazione sulla scena politica antillana.

La società post-abolizionista era profondamente segnata da spaccature interne, con i coltivatori che cercavano la propria autonomia dal potere dei grandi proprietari, gli immigrati che ricordavano i vecchi servitori della gleba, mentre i bianchi e i mulatti stringevano alleanze e taciti compromessi, come dimostra l’esempio dell’istruzione religiosa, offerta solo ai figli delle élites di colore. Inoltre, momenti di vita sociale tra creoli furono offerti da avvenimenti come l’inaugurazione nel 1859 della statua di Joséphine de Beauharnais, l’imperatrice

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