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Le vicende storiche e politiche che hanno caratterizzato la realtà antillana, pur nella loro tragicità e nel loro tentativo di fare tabula rasa della specificità sociale e culturale del soggetto colonizzato, in nome di una verità assoluta, quella della lingua, del credo e della cultura del dominatore, costituiscono tuttavia il punto di partenza imprescindibile per qualsiasi discorso o riflessione sul rapporto dell’uomo colonizzato alla sua terra. Come ogni colonizzazione, dai grandi genocidi di cui l’uomo si è macchiato in passato alle numerose usurpazioni odierne, della terra e della parola nonché del pensiero, anche quella imposta in territorio caraibico, oltre al fardello di brutalità e orrori che la memoria non può e non deve dimenticare, porta in seno la matrice di dinamiche complesse e dolorose, le cui ripercussioni si sentono ancora oggi: si tratta della relazione dell’uomo colonizzato alla terra usurpata, allo spazio anch’esso colonizzato, dominato, e la conseguente messa in discussione di uno spazio, di una terra che la mano del colonizzatore ha profondamente trasformato e che ora si avverte come nemica, ostile, foriera di dolore, e si fa fatica a riconoscere come propria.

L’impotenza, la disperazione, l’incapacità di trovare una spiegazione, questi e altri sentimenti che affollano la mente del colonizzato, si possono racchiudere nel termine “perdizione”, la cui doppia accezione rappresenta bene la reazione dell’uomo di fronte all’oppressione del colonizzatore: senza letteralmente “la terra sotto i piedi”, privato di quel punto di riferimento, quella componente dell’identità, la terra, il territorio, in nome del quale (tremendo paradosso) l’opera colonizzatrice viene giustificata e legittimata, il soggetto colonizzato perde la percezione della realtà, della coordinata spaziale, e “si perde”, è smarrito, confuso, senza più certezze.

Inizia così quel processo di rinegoziazione dello spazio, messo in atto attraverso la sua mente così come il suo corpo, alla ricerca, anzi alla riscoperta di uno spazio prima esteriore, la terra, il paesaggio, la natura, ancora di salvezza grazie alla quale ritrovare il suo spazio interiore, quella identità di uomo, e poi di

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popolo, quel porto sicuro che la tempesta colonizzatrice ha spazzato via, lontano, senza tuttavia distruggere totalmente.

Questa immagine del ciclone della colonizzazione, metafora della forza devastatrice di un evento con la quale solo la natura tropicale con i suoi capricci può competere, ci permette di introdurre la terza componente della ricostruzione spaziale ed identitaria, vale a dire la scrittura, faro nella tempesta e porto dove arrivano e da dove partono le navi portatrici della parola del popolo antillano. Le opere degli scrittori antillani forniscono una forte testimonianza di questa esplorazione, fisica e mentale, dell’identità del popolo colonizzato, rappresentando attraverso lo spazio della pagina, quella terra di nessuno dove regnano la libertà, la realtà e la finzione senza frontiere di territorio e di pensiero, lo spazio immaginato, rinegoziato, esplorato, lavorato, vissuto, e finalmente posseduto, fatto proprio, ricostruito, “colonizzato” questa volta dalla scrittura e dalla fantasia.

Il nostro lavoro si propone di tracciare il percorso di questo processo identitario, mettendo a confronto le opere e la parola di scrittori che, pur provenendo da realtà geografiche, temporali e linguistiche diverse, condividono la riflessione sullo stesso spazio colonizzato, quello delle Antille francesi, con posizioni e approcci talvolta antitetici (da semplice testimone e osservatore, oppure da militante e politico), ma in grado di offrirci una rappresentazione dello spazio nella letteratura caraibica piuttosto completa che renda conto delle diverse voci che la animano. In breve, cercheremo di scoprire cosa significa realmente “écrire en pays dominé”61, per dirla con Chamoiseau, laddove dominé implica una colonizzazione, un dominio non solo territoriale ma anche e soprattutto del pensiero, culturale, le cui influenze condizionano quello specchio della società che è l’arte, e nello specifico la creazione letteraria.

La nostra idea è che la produzione letteraria caraibica (in questo caso francofona e anglofona) racchiuda in sé e rifletta nel suo processo creativo delle

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dinamiche simili a quelle esposte finora: chi scrive un romanzo, un’opera di prosa o di poesia che parla, descrive o è ambientata in un’isola, una città o un luogo antillano, paesaggi natali o comunque a lui cari, influenza la sua scrittura con lo sguardo interno, soggettivo, intimo di chi è cresciuto in quella natura e ha respirato l’aria del mar dei Caraibi, figlio di sangue o di cuore di quelle terre.

Ogni volta che leggeremo una pagina di Chamoiseau, Walcott o Hearn, esploreremo il paesaggio attraverso gli occhi da ragazzo poi da adulto del primo, da uomo di mare del secondo, da viaggiatore del terzo; ma la potenza della loro parola, la forza evocatrice della loro scrittura ci porterà a non soffermarci solo su una lettura di puro piacere estetico, cullati dalla brezza marina di un esotismo fine a se stesso, bensì a farci esploratori, défricheurs, e perché no marrons, di quello spazio, marino e terrestre, che è pronto a svelare i suoi segreti solo a chi sa guardare “tra le righe” del passato e del paesaggio.

Seguendo i personaggi usciti dalla penna degli scrittori, non solo le loro vicende e i loro pensieri, ma anche e soprattutto, le loro traces, lasciate sulla pagina e nel paesaggio antillano, siamo in grado di ripercorrere parallelamente le tappe della creazione romanzesca o poetica e, allo stesso tempo, del processo identitario del popolo antillano, di cui lo scrittore, individuo della comunità letteraria e sociale, si fa portavoce. La prima fase della nostra esplorazione parallela, quella che si può definire “geografica”, relativa allo spazio e a tutte le sue rappresentazioni, sarà oggetto di questo paragrafo, mentre il prossimo si focalizzarà sul discorso dell’identità del soggetto colonizzato, a partire dalla consapevolezza di uno spazio finalmente riacquisito.

Il nostro percorso alla scoperta dello spazio antillano, dapprima rifiutato dal soggetto colonizzato, poi fatto proprio attraverso un lento e complesso processo di rinegoziazione, che cercheremo di analizzare in tutte le sue contraddizioni, attingerà alle opere raggruppate nella sezione bibliografica dal titolo “Spazio e letteratura antillana”. Si tratta di testi che, seppure nella loro specificità metodologica e critica, forniscono un valido contributo alla nostra analisi, essendo tutti accomunati dallo stesso oggetto di studio, vale a dire lo spazio antillano esplorato dallo strumento letterario. Le mille sfaccettature di uno spazio

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complesso e difficile da circoscrivere, dal punto di vista specificamente geografico, inteso come luogo fisico, oggettivo, area geografica da mappare, e ancor più culturale, visto come luogo mentale, della memoria, vissuto, esperito dal soggetto e dunque soggettivo, emergono da una veloce lettura dei titoli delle opere da noi analizzate.

Lo spazio fatica a trovare un’unica definizione, glissa tra le molteplici derivazioni di una stessa area semantica, quella spaziale, le altrettante numerose traduzioni grafiche di una palese difficoltà nel dire l’indicibile, nel circoscrivere linguisticamente un soggetto che sfugge a qualsiasi etichetta o definizione universale, perché specificità, unicità e imprevedibile caratterizzano lo spazio antillano. Ed ecco dunque che in questi, come in altri testi che analizzano la rappresentazione dello spazio nella letteratura caraibica, l’oggetto in questione, vale a dire la dimensione spaziale, assume connotazioni linguistiche tra le più variegate, sfaccettature di uno stesso prisma che rimanda riflessi di luce in base alle diverse angolazioni da cui lo si osserva.

Tale metafora, di certo suggestiva nonché valida prospettiva da cui analizzare lo spazio antillano, potrebbe essere la chiave di lettura della vastissima terminologia sullo spazio e i suoi derivati, ricorrente nelle opere di riferimento. La lista potrebbe allungarsi a dismisura, ci limiteremo qui ai termini che abbiamo incontrato con maggiore frequenza nei testi da noi analizzati, nel tentativo di fare una cernita delle espressioni più efficaci per il nostro lavoro, operando una distinzione tra le terminologie specifiche delle diverse aree di studio.

Senza dilungarci in dettagliate analisi, di poco interesse ai fini della nostra ricerca, forniamo una breve carrellata dei termini più frequenti, prestando attenzione alle diverse accezioni che un termine può avere a seconda della materia di riferimento. Partendo da concetti ricorrenti e spesso abusati, come spazio, luogo, paesaggio, geografia, territorio, terra, paese, città... con le rispettive varianti e declinazioni letterarie, spazio reale, spazio fittizio, non- luogo, territorializzazione, immaginario... e le relative rappresentazioni, si passa attraverso metafore spaziali specifiche del contesto, laddove isola, arcipelago, terra, mare, foresta, città…, si caricano di nuovi significati nel panorama

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antillano; si arriva infine ai neologismi o ad espressioni paradossali (solitamente figure retoriche, come gli ossimori), alcuni di breve durata, altri più fortunati, frutto del pensiero di teorici o critici, accomunati dalla stessa volontà, spesso ambizione se non utopia, di dare un nome, seppur arbitrario ed effimero, all’oggetto delle loro ricerche.

A titolo d’esempio, e senza nessuna intenzione esaustiva, citiamo alcune opere e i rispettivi studiosi che hanno dato vita ad espressioni particolarmente originali che, a partire dal titolo dell’opera, talvolta hanno definito un vero e proprio filone critico, altre volte hanno semplicemente fornito un’etichetta, sotto cui raggruppare una serie di opere, teorici o scrittori. Interessante l’ispirazione fornita dal termine geografia e dai suoi derivati che, a partire dall’espressione geografia letteraria, poi divenuta una specifica area di studio, ha prodotto nel corso dei decenni espressioni davvero originali come le recenti geografie discorsive della studiosa Jeanne Garane62, la geopoetica di Daniel Maximin63, o ancora il dicotomico Ici-Là di Mary Gallagher64, senza contare le mille declinazioni dello scrittore Édouard Glissant65 che ha fatto della semantica

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J.GARANE, (ed.), Discursive Geographies/Géographies discursives. Writing Space and Place

in French/L’écriture de l’espace et du lieu en français, Amsterdam, Rodopi, 2005; in “Francopolyphonies” (collection dirigée par Gyssels K. et Stevens C.), Volume 2. Interessante la scelta del plurale nel titolo (la traduzione in italiano è nostra) ad indicare la molteplicità di un discorso che esula dall’intento puramente descrittivo, per proporsi invece come strumento di analisi della “scrittura dello spazio e del luogo”.

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D.MAXIMIN, Les fruits du cyclone. Une géopoétique de la Caraïbe, Paris, Éditions du Seuil,

2006. Il neologismo creato da Maximin per definire la produzione artistica del bacino caraibico si fonda sull’unione di due termini, e dunque due materie di studio, la geografia e la poetica, appartenenti a due campi di ricerca diametralmente opposti ma che nel contesto caraibico trovano ragione d’essere in un bizzarro sodalizio.

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M. GALLAGHER, (ed.), Ici-Là. Place and Displacement in Caribbean Writing in French,

Amsterdam, Rodopi, 2003. La contraddizione in seno a questa espressione si fa portatrice del paradossale “displacement”, che vuole tradurre quello spostamento, e con una più ampia accezione, lo spaesamento, dovuto ad una distanza, un allontanamento dal place, dal luogo, una dinamica che secondo la Gallagher è specifica della cultura creola, e nello specifico della produzione francofona caraibica.

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Per l’uso della terminologia spaziale e geografica nell’opera glissantiana, rimandiamo alla bibliografia autoriale nella sezione “Corpus letterario” del presente lavoro, dove si può già intuire, con uno sguardo veloce ai titoli, l’importanza dello spazio e dei luoghi antillani nella produzione dello scrittore. Per un maggiore approfondimento rimandiamo tuttavia alla nostra analisi della rappresentazione dello spazio nei romanzi di Glissant, che sarà oggetto del terzo capitolo del presente lavoro.

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spaziale la fonte di ispirazione primaria di tutta la sua produzione teorica e romanzesca.

Continuando la nostra riflessione sull’approccio teorico e letterario alla coordinata spaziale, attraverso un’analisi dello strumento linguistico di riferimento, necessaria premessa a qualsiasi discorso sulla mera rappresentazione dello spazio, vogliamo soffermarci su una problematica, di carattere pragmatico eppure di vitale importanza ai fini della nostra ricerca, relativa alla terminologia spaziale ricorrente nelle opere in analisi. L’approccio comparatistico di questo lavoro, basato sul confronto tra scrittori e opere di aree linguistiche diverse, francofona e anglofona, ci pone di fronte alla dualità dei termini, e ad un’oggettiva difficoltà della traduzione nella lingua italiana, sicuramente foriera di interpretazioni arbitrarie e facili riduzioni che, nel tentativo di semplificazione, rischierebbero di annullare le specificità dei diversi contesti di origine.

Basti pensare, per fornire un esempio concreto, alle differenze e alle analogie tra espace e lieu in francese, space e place in inglese, e ancora spazio e luogo in italiano, sia all’interno della stessa lingua sia tra mezzi linguistici diversi: possiamo affermare con certezza che il primo termine, espace, o space o spazio, denota uno spazio oggettivo, fisico, geografico, reale che viene poi caricato di connotazioni soggettive in seguito all’esperienza e al vissuto e diventa così lieu, o place o luogo? 66 Tale passaggio rimane invariato in tutte e tre le lingue, permettendo quindi di usare i tre termini in maniera interscambiabile, o la traduzione, come già accennato in precedenza, introduce differenze da non trascurare?

Il quesito, di certo affascinante ma che chiama in causa conoscenze e aree di studio che esulerebbero dalla nostra ricerca, rimane aperto, mentre noi preferiamo, come criterio metodologico, l’utilizzo dei termini italiani nel discorso generale, riservandoci la scelta di quelli francesi e inglesi nei casi specifici di riferimento ai due contesti, per evitare di incorrere in facili inesattezze di traduzione.

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Così Marc Augé definisce lo spazio e il luogo nella sua opera Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris, Seuil, 1992.

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Un’ultima precisazione, prima di intraprendere la nostra analisi nel dettaglio, riguarda le differenze di significato tra spazio e luogo, tra terra e territorio, tra paesaggio e geografia, per citare solo i più ricorrenti, le cui accezioni diventano opinabili se si fa riferimento alle diverse aree di studio in cui tali termini trovano applicazione. Partendo dalla conoscenza degli usi specifici di questi concetti nel campo geografico, politico ed economico, vaso di Pandora dal quale la letteratura continua ad attingere varie terminologie, e le fa proprie, vogliamo qui precisare che la nostra applicazione di termini puramente geografici o economici sarà sempre influenzata dalla specificità del discorso e del contesto culturale di riferimento; secondo la metafora fisiologica cara a quel “cannibalismo/antropofagia letterario/a”67, elaborato dal modernismo brasiliano, qui particolarmente calzante, tali concetti sono completamente assorbiti dal nuovo milieu, o meglio ancora “fagocitati”, per poi essere “espulsi, rigurgitati” sotto un’altra forma, vale a dire con una nuova accezione, attraverso quel processo che sappiamo caratterizzare la società e, di riflesso, l’intera produzione artistica creola.

Dopo aver presentato le difficoltà linguistiche e metodologiche che tale lavoro presenta, e aver dunque stabilito i criteri di ricerca, entriamo nel vivo della nostra riflessione sullo spazio antillano e sulla sua rappresentazione. Il discorso oggetto di questa sezione si baserà su un approccio di tipo socio-psicologico e antropologico, in quanto saranno chiamate in causa, come supporto teorico della nostra tesi, definizioni e concettualizzazioni della coordinata spaziale, e delle sue varianti, che attingono ad aree di studio che hanno come oggetto campi molto diversi. Le cosiddette “scienze dello spazio” come la geografia e la cartografia, il cui obiettivo è circoscrivere e definire lo spazio fisico, attraverso strumenti di

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Secondo il padre dell’antropofagia letteraria Oswald de Andrade e il Manifesto antropofágico del modernismo brasiliano, la ritualità del cannibalismo primitivo può essere assunta come metafora dell’assorbimento dell’Altro, attraverso un processo di assimilazione e superamento dell’alterità che sfocia in un nuovo risultato, un nowhere, uno spazio intermedio, frutto dell’interazione tra il Sé e l’Altro; S. ALBERTAZZI, R. VECCHI (a cura di), Abbecedario postcoloniale II, Biblioteca di letterature omeoglotte, Quodlibet, 2002, p. 38. Questa suggestiva interpretazione dei processi di negoziazione identitaria potrebbe risultare valida anche per il nostro discorso sullo spazio, laddove i concetti spaziali normativi vengono rielaborati e “personalizzati” dal contesto specifico, vale a dire la cultura creola.

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misurazione scientifici e oggettivi, per poi riprodurlo su mappe e cartine, scrittura universale e universalizzante di uno spazio vuoto e neutrale che aspetta solo di essere riempito con nomi e coordinate, vengono messe in discussione da quelle materie che potremmo chiamare “immaginazioni dello spazio”, vale a dire la letteratura, la filosofia, la psicologia, l’antropologia… e le loro interpretazioni di una “geografia immaginata e immaginativa”. Il concetto di mappa e il suo carattere arbitrario, dovuto all’influenza della cultura dei cartografi e della loro visione, spesso eurocentrica, del mondo e dello spazio geografico, viene rielaborato dalla letteratura, dai suoi teorici così come dagli scrittori, attraverso quel processo già citato che produce come risultato una mappa alternativa, letteraria e non solo, dove le coordinate spaziali assumono un nuovo significato.

Questa originale interpretazione dello spazio, e della sua rappresentazione, geografica oltre che letteraria, informa un recente saggio di Jeanne Garane, già in precedenza citato, e il cui suggestivo titolo, in italiano “Geografie Discorsive”68, testimonia la tendenza del discorso attuale sulla rappresentazione letteraria dello spazio a seguire nuove prospettive di ricerca, a tentare strade inesplorate di riflessione, dove geografia e discorso letterario mettano le loro conoscenze al servizio di un’innovativa analisi dello spazio.

A testimonianza di come sia possibile reinventare e rinnovare il discorso sulla rappresentazione dello spazio, apportando notevoli contributi a quella che Yeager definisce “The new cultural geography”69, la geografia influenzata dalla produzione culturale, analizziamo nel dettaglio il processo di creazione del neologismo “geografie discorsive”. Il primo termine rimanda, tramite l’uso del plurale, ad una definizione molto più complessa della semplice “scrittura (graphein) della terra (geo)”, vale a dire ad un insieme di proiezioni carto(grafiche) di un’immagine della terra frutto della mente70; il secondo termine, l’aggettivo sempre plurale, deriva dall’idea che concetti come spazio,

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J.GARANE, op. cit.

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P. YEAGER,“Introduction: Narrating Space”. The Geography of Identity. Ed. P. Yeager, A. Arbor, University of Michigan Press, 1996, pp. 1-38.

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«[…] une image de la terre qui est création intellectuelle». C. JACOB,L’Empire des cartes: approche théorique de la cartographie à travers l’histoire, Paris, Albin Michel, 1992, p. 457.

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luogo e perfino geografia siano dei costrutti testuali volti a produrre, invece di semplicemente ri-produrre, tempo e spazio, in accordo alla nozione di testualità di Barthes, per cui i testi inscrivono e producono spazio e luogo, partecipando sotto forma di discorso geografico/cartografico71. Dall’unione di queste due rielaborazioni di concetti ormai abusati, nasce la nuova definizione di “geografie discorsive” che bene rappresenta l’intento della raccolta di saggi della Garane di testimoniare lo stato attuale della ricerca della geografia culturale nell’analisi di testi letterari e filmici. Nonostante la pluralità dell’opera, che mette insieme produzioni artistiche di origini, geografiche e culturali, ben diverse, riteniamo che il discorso teorico che la investe sia alla base di tutta la nostra ricerca, e risponda al nostro stesso obiettivo di rimappare lo spazio letterario, sempre in accordo all’imperativo di Marc Augé 72.

L’idea di fornire una mappa alternativa della letteratura contemporanea, che parte dalla vecchia definizione per crearne una nuova, richiama nozioni spaziali binarie, come here-elsewhere, il qui europeo ed occidentale che trova senso nel suo rapporto con un altrove lontano e coloniale, poiché da esso viene rimodellato, per dirla con Augé, o ancora la dicotomia ici-là della Gallagher. Nel delicato conflitto di interessi che coinvolge scienza e letteratura, se Lefebvre mette in discussione l’utilità della letteratura nella comprensione della produzione spaziale, in quanto non più punto di partenza della “scienza dello spazio”73, Foucault difende l’importanza dei testi descrittivi come “descrizione spazializzante dei fatti di discorso”74, e l’analisi delle rappresentazioni spaziali, che legittimano una “conoscenza” ideologica dei luoghi. Quella che Said chiama la “geografia immaginativa”75, vale a dire l’insieme delle costruzioni arbitrarie

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La nozione di testualità secondo l’approccio di Roland Barthes risulta strettamente legata all’idea di spazio e luogo come costrutti testuali, prodotti dalla teoria e dunque arbitrari.

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M. AUGE, op. cit., «Il nous faut réapprendre à penser l’espace», p. 49.

73

H. LEFEBVRE, La production de l’espace, Paris, Anthropos, 2000, pp. 45-46.

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M.FOUCAULT,“Questions à Michel Foucault sur la géographie.”, Hérodote 1, janvier-mars

(1976): 71-85. Dits et écrits. Vol. III. p. 33.

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Edward W. Said utilizza l’espressione «imaginative geography» come costrutto mentale al quale opporre pratiche sovversive come la scrittura, sia nella sua opera maggiore, Culture and Imperialism, New York, Alfred A. Knopf, 1993, sia nell’articolo “Yeats and Decolonization” in

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