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Il “cammino comunitario” della Corte costituzionale italiana.

Il compito di definire l'assetto dei rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno è stato storicamente attribuito a due opposte visioni interpretative: il monismo e il dualismo. Secondo la visione monista (il cui maggior teorico fu Hans Kelsen) adottata dalla Corte di Giustizia europea l'ordinamento nazionale rappresenta una diretta derivazione dell'ordinamento internazionale/comunitario configurandosi quindi come un unico ordinamento giuridico in cui vige il principio del primato e della diretta applicabilità del diritto comunitario all'interno del contesto normativo nazionale mentre la visione dualista delinea i rapporti tra i due ordinamenti in termini di separazione reciproca preoccupandosi di delimitare l'ambito in cui si esercita la sovranità nazionale e di salvaguardarne l'autonomia di fronte a ordinamenti esterni.

La prospettiva monista (di cui si è parlato nella prima parte del presente lavoro) utilizzata dalla Corte di Giustizia per spiegare i rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamenti dei singoli Stati membri non è stata facilmente accettata dalle Corti costituzionali di questi ultimi. Anche il nostro giudice costituzionale ha incontrato delle difficoltà nell'accogliere il monismo, difficoltà dovute al fatto che egli adottava una prospettiva, con riferimento ai rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, imperniata sul c. d. dualismo, indicante un assetto di rapporti tra i due ordinamenti imperniato sul rispetto della sovranità statale e sulla loro reciproca autonomia in cui le norme derivanti dall'ordinamento comunitario possono produrre effetto all'interno dell'ordinamento nazionale solo se quest'ultimo emana degli atti “ad hoc” (secondo regole di diritto interno) di recepimento delle norme comunitarie. La Corte costituzionale italiana ha sempre sostenuto tale prospettiva nel tentativo di riservarsi un ruolo, o meglio, un sindacato autonomo nelle ipotesi di conflitto della normativa comunitaria con i principi costituzionali fondamentali e i diritti inviolabili della persona:

l'obiettivo di porsi come “custode” del nucleo dei principi fondamentali del nostro ordinamento e dei diritti inviolabili della persona poteva conciliarsi esclusivamente con una visione “dualista” dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario non ammettendosi, viceversa, nella prospettiva monista, l'esistenza di un organo giurisdizionale nazionale competente a sindacare la conformità al dettato costituzionale delle fonti promananti dall'ordinamento comunitario.

Seguendo questa concezione, il nostro giudice costituzionale ha dovuto compiere un'opera di conciliazione tra l'autonomia riconosciuta ai due ordinamenti e la disciplina unitaria emanata da organi legislativi nazionali e comunitari: nel compiere questo lavoro egli ha però utilizzato delle categorie concettuali inconciliabili con la dimensione comunitaria avvalendosi dell'argomento secondo cui i due ordinamenti sono “autonomi e distinti” ma, allo stesso tempo, “coordinati” tra loro per spiegare la vincolatività all'interno del nostro ordinamento di una fonte del diritto (quella comunitaria) emanata da organi diversi da quelli che, secondo la nostra Costituzione, detengono la funzione legislativa.161 L'accettazione, da parte del nostro giudice costituzionale, dei principi

sanciti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (in particolar modo, il principio dell'immediata applicabilità della normativa comunitaria) è avvenuta in maniera graduale seguendo un percorso non lineare (che, in alcuni momenti, è stato caratterizzato da una netta contrapposizione tra le due giurisdizioni) che, a tutt'oggi, pur non essendo giunto ad un punto d'arrivo stabile e ben definito, tende a configurare i rapporti tra giudice europeo e giudice costituzionale secondo una logica collaborativa (come vedremo a proposito della tutela dei diritti umani).

Questo “cammino comunitario” intrapreso dal nostro giudice costituzionale solitamente viene descritto secondo un “criterio cronologico” che lo suddivide in quattro fasi. In questo lavoro, invece, il rapporto tra la Corte costituzionale e l'ordinamento comunitario viene analizzato descrivendo l'evoluzione di tale rapporto in riferimento a quattro principali tematiche: il fondamento della partecipazione dello Stato italiano all'ordinamento comunitario, il principio della supremazia e dell'immediata applicabilità del diritto comunitario sul diritto nazionale e la tutela dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili.

161ANTONIO LA PERGOLA, Costituzione ed integrazione europea:il contributo della giurisprudenza costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Milano, 1999, Tomo II, p.1737 ss.;

a)-Il fondamento costituzionale della partecipazione dell'Italia alle Comunità europee.

All'interno dello Stato italiano l'adesione ai trattati istitutivi e ai successivi atti che li hanno modificati e integrati è sempre stata autorizzata e resa esecutiva attraverso lo strumento della legge ordinaria (e non con legge costituzionale). L'unico fondamento di carattere costituzionale che ha legittimato la partecipazione italiana al sistema creato dai trattati istitutivi è stato da sempre rinvenuto nell'art.11 della Costituzione in virtù del quale “l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di

sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” e “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Inoltre, “quando ne ricorrano i presupposti, è possibile stipulare trattati i quali

comportino limitazione della sovranità, ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria”: lo strumento della legge ordinaria è stato ritenuto insufficiente a fornire tale

legittimazione considerando in particolar modo le conseguenze nel dettato costituzionale di gran parte delle norme emanate al livello comunitario, tenendo conto del fatto che spesso, il Trattato istitutivo, attraverso la previsione di atti direttamente applicabili e dotati di forza di legge come i regolamenti, consentiva a questi di operare nell'ordinamento dei singoli Stati membri, pur non essendo emanati da organi ai quali la Costituzione italiana attribuiva la funzione legislativa. i dubbi circa la sufficienza della legge ordinaria a rendere esecutiva nell'ordinamento italiano l'adesione alla Comunità Europea sono stati ulteriormente avanzati con riferimento al Protocollo sui privilegi e sulle immunità delle Comunità Europee del 1965, che estendeva ai parlamentari europei alcuni tipi di immunità e privilegi, come l'autorizzazione a procedere, attribuiti in origine ai soli parlamentari italiani mediante norme di rango costituzionale.162

In queste occasioni il nostro giudice costituzionale ha affermato che le leggi ordinarie che davano esecuzione, nell'ordinamento italiano, alle norme dei Trattati istitutivi trovavano il loro ruolo autorizzatorio nella disposizione dell'art.11 Cost..

La giurisprudenza costituzionale si sofferma sul ruolo attribuito all'art.11 della Costituzione riguardante “le limitazioni di sovranità” messe in atto dall'Italia in vista dell'adesione alle Comunità Europee in alcune sentenze-cardine: la n.14 del 7 marzo

162Sentenza del 28 dicembre 1984, n. 300, Cecovini c. Almirante, riguardante la legge del 3 maggio 1966, n. 437 di esecuzione del Protocollo sui privilegi e sulle immunità delle Comunità europee, allegato al Trattato di Bruxelles dell'8 aprile 1965 (il c. d. Trattato sulla “fusione degli esecutivi”).

1964, Costa c. Enel (con riferimento alla legge di esecuzione del Trattato di Roma, la n.

1203 del 14 ottobre 1957), la n.98 del 27 dicembre 1965, Acciaierie San Michele (con riferimento alla legge di esecuzione del Trattato istitutivo della CECA, la n.766 del 25 giugno 1952) e la n.183 del 27 dicembre 1973, Frontini c. Ministero delle Finanze.163

b)-I rapporti tra le fonti dell'ordinamento comunitario e nazionale: il principio della diretta applicabilità e del primato del diritto comunitario.

Il tema dei rapporti tra fonti interne e fonti comunitarie venne affrontato per la prima volta dal nostro giudice costituzionale a metà degli anni sessanta attraverso due sentenze-cardine:la n.14/1964 e n.98/1965. Nella sentenza n.14 del 24 febbraio 1964 (in questa occasione la Corte era stata chiamata a pronunciarsi riguardo all'eventuale incostituzionalità della legge istitutiva dell'ENEL, la n.1643 del 6 dicembre 1962, per violazione del Trattato CEE, di cui il giudice nazionale sosteneva il carattere costituzionale per il tramite dell'art. 11 Cost.), in primo luogo, il giudice costituzionale riconobbe ai Trattati istitutivi il potere di “derogare” al sistema di competenze configurato dalla Costituzione italiana fondando questo potere sul disposto dell'art.11 il quale assume la veste di “norma chiave della partecipazione italiana al sistema comunitario”, di “fondamento giustificativo” delle limitazioni di sovranità operate dallo stato, con conseguente rinuncia, da parte di quest'ultimo, a quote significative di sovranità.164

In modo particolare, si utilizza l'art.11 Cost per giustificare l'immissione, al'interno del nostro ordinamento, di norme comunitarie, conferendo alle leggi di esecuzione dei Trattati una vera e propria “copertura costituzionale”. Allo stesso tempo, però, il Giudice costituzionale precisa che questa copertura non conferisce, in alcun modo, alle

leggi ordinarie di esecuzione dei trattati comunitari, un'efficacia superiore a quella delle comuni leggi ordinarie. Di conseguenza, le limitazioni di sovranità legittimate

dall'art.11 non comportano alcuno stravolgimento all'interno della gerarchia delle fonti interne.165 Nel proporre queste affermazioni il nostro giudice costituzionale rifiuta il

163Rispettivamente in Rivista di diritto internazionale, 1964, p.295 ss., 1966, p.53 ss., 1974, p.130 ss.; 164Sentenza del 7 marzo 1964 n.14, in Giurisprudenza costituzionale, 1964, p.129 ss.;

165A questo proposito il Giudice costituzionale afferma che “ciò non importa alcuna deviazione delle regole vigenti in ordine alla efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti in sede comunitaria, sulla base dell'assunto che l'art.11 non ha conferito alle leggi ordinarie di esecuzione dei trattati

principio del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale sancito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ma, viceversa, egli pone le norme comunitarie e quelle interne sullo stesso piano affermando che alle prime andava attribuito lo stesso rango ordinario proprio della legge di esecuzione del trattato attraverso cui esse entravano a far parte dell'ordinamento giuridico nazionale assoggettandole agli stessi principi sulla successione delle leggi nel tempo regolanti il diritto interno. Come conseguenza di questo approccio, in questa prima fase i conflitti tra norme interne e norme comunitarie vengono risolti, non ricorrendo al giudizio di costituzionalità innanzi al Giudice costituzionale, ma attraverso l'applicazione del “criterio cronologico”: in caso di antinomia tra le due fonti prevale quella emanata per ultima perciò le leggi interne posteriori prevalgono sulle norme comunitarie incompatibili e viceversa.. In tal modo, si compie una sorta di processo di assimilazione tra norme comunitarie e norme interne, in quanto entrambe sono sottoposte ad un principio tipico del diritto nazionale, quello della “successione nel tempo” che, al contrario, non vige nell'ordinamento comunitario.

L'applicazione di questo criterio dava adito a numerose problematiche: in primo luogo, esso consentiva in modo sistematico e frequente la deroga della normativa comunitaria da parte del nostro legislatore ordinario, il quale, di fronte a norme comunitarie ritenute “scomode” poteva emanarne di proprie destinate, senza trovare ostacoli, a succedere, in virtù del criterio temporale, a quelle di derivazione comunitaria. A farne le spese, in questo caso, sarebbe stata la potestà normativa riconosciuta alla Comunità dagli stessi Stati membri: il suo carattere cogente nei confronti degli stessi era messo in serio pericolo in quanto si forniva loro lo strumento per disattendere, secondo mere ragioni di opportunità, gli obblighi derivanti dai trattati istitutivi. L'impostazione sostenuta dalla nostra Corte si poneva in netto contrasto con le posizioni sostenute dalla Corte di Giustizia, la quale criticava apertamente l'equiparazione, all'interno della gerarchia delle fonti, tra la norma comunitaria e la legge di esecuzione dei trattati istitutivi e la conseguente assoggettabilità di entrambe al criterio cronologico. In particolar modo, il giudice comunitario evidenziava il contrasto tra questa impostazione e le caratteristiche

istitutivi delle Comunità un'efficacia superiore a quella della legge ordinaria”. Secondo CELOTTO, l'art.11 si configura come “norma permissiva che permette l'assunzione di limitazioni di sovranità senza andare però a derogare sulla gerarchia interna delle fonti”.

proprie del diritto comunitario il quale non potrebbe, in ragione della sua specifica

natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità e ricordava al giudice comunitario come il trasferimento dei diritti e

degli obblighi effettuato dagli Stati a favore dell'ordinamento giuridico comunitario determinasse, di fatto, una limitazione definitiva dei loro poteri sovrani.

Inoltre, la dottrina dell'epoca metteva in evidenza l'inidoneità del criterio cronologico e dello strumento dell'abrogazione nel risolvere i conflitti tra diritto comunitario e diritto interno: questo perchè si può parlare di “abrogazione” solo con riferimento a fonti che, all'interno della gerarchia delle fonti, si trovano in posizione pariordinata. Al contrario, si evidenziava, come di fatto, le norme interne e le norme di derivazione comunitaria non fossero collocabili in una posizione di parità trovandosi di fronte, invece, ad una posizione di sovraordinazione della norma comunitaria rispetto a quella nazionale. Il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno inizia ad affermarsi nel pensiero del nostro giudice costituzionale verso la metà degli anni settanta anche se, a fronte di questo primo segnale di apertura nei confronti delle posizioni avanzate dalla Corte di Giustizia, non pone in discussione il suo tradizionale approccio dualista nel configurare i rapporti tra i due ordinamenti. É bene, però, evidenziare come la Corte inizi ad apportare delle modifiche a molte delle sue affermazioni contenute nelle precedenti pronunce: il primo segnale di questa revisione (o revirement) è contenuto nelle sentenza n.183 del 27 dicembre 1973 in cui essa ha occasione di esprimersi riguardo alla legittimità costituzionale della partecipazione italiana all'ordinamento comunitario affermando la supremazia della normativa da esso promanante sul diritto nazionale anche se, pur ammettendo tale primato, per il momento omette di definire attraverso quali meccanismi esso trovi attuazione concreta.

In questa pronuncia la Corte aveva respinto l'eccezione di incostituzionalità riguardante la legge di esecuzione del Trattato istitutivo della CEE, che era stata sollevata in riferimento alla presunta incompatibilità dei regolamenti comunitari con il dettato costituzionale. A questo proposito il giudice rimettente sosteneva che i regolamenti in questione, avendo efficacia obbligatoria ed immediata applicabilità nei confronti dello Stato e dei cittadini italiani, comportavano una inammissibile rinuncia alla sovranità

con conseguente modifica della struttura costituzionale dello Stato italiano.

Nel respingere la questione di incostituzionalità, la Corte si ricollegò al disposto di cui all'art.11 della Costituzione, ribadendo il suo ruolo autorizzatorio delle limitazioni di sovranità che consentivano all'Italia di instaurare delle forme di collaborazione con gli altri Stati, sancite con la firma dei Trattati che davano vita alle Comunità Europee, sostenendo, inoltre, che tali limitazioni di sovranità potevano attuarsi mediante lo strumento della legge ordinaria, con conseguente prevalenza delle norme comunitarie che concretizzavano le suddette limitazioni di sovranità sulle norme costituzionali. In questo contesto, il diritto comunitario, di natura primaria (i Trattati) e derivata (regolamenti e direttive), costituiva l'espressione diretta di un potere attribuito alla Comunità da parte degli stessi Stati membri mediante la stipulazione dei Trattati istitutivi. Ed è proprio con questa stipulazione che gli Stati contraenti mettevano in atto le “cessioni di sovranità” con le quali si devolveva alle Istituzioni comunitarie, il potere di emanare tali atti normativi.

Di conseguenza le fonti comunitarie, secondo la prospettiva fatta propria dal giudice costituzionale, dovevano trovare piena e diretta applicazione in tutti gli Stati membri risultando incompatibile con il nuovo assetto comunitario il fatto che il regolamento comunitario direttamente applicabile incontrasse degli ostacoli derivanti da atti normativi nazionali. Allo stesso tempo, il giudice costituzionale affermava l'inammissibilità di un sindacato di legittimità costituzionale vertente sui regolamenti comunitari, in quanto essi non erano ricompresi tra le fonti elencate all'art.134 della Costituzione sulle quali, viceversa, tale sindacato poteva esplicarsi liberamente. Tale giudizio, però, poteva svolgersi sulla legge di esecuzione del Trattato istitutivo, nelle ipotesi in cui quest'ultima avesse determinato la violazione dei principi fondamentali dell'ordinamento comunitario o dei diritti inalienabili della persona (aspetto che verrà analizzato più avanti).166

Con queste affermazioni, il nostro giudice costituzionale accettò, per la prima volta, quei principi contenuti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità

166ALFONSO CELOTTO, L'efficacia delle fonti comunitarie nell'ordinamento italiano. Normativa, giurisprudenza e prassi, Torino, 2003; PASQUALE COSTANZO, La Costituzione italiana di fornte al processo costituzionale europeo, in www.consultaonline.it; FILIPPO DONATI, Diritto comunitario e sindacato di costituzionalità, Milano,1995;

Europee che con la sentenza Costa c. Enel del 25 luglio 1964 (della quale si è parlato all'inizio del paragrafo), affermava la sovraordinazione della norma comunitaria sulla norma interna, a prescindere dal fatto che questa fosse preesistente o meno con conseguente “primato” del diritto comunitario, inteso come condizione fondamentale per garantire sia l'esistenza che il funzionamento delle Comunità europee.167 A questo

proposito, i giudici comunitari affermavano che gli stessi Stati membri i quali, sottoscrivendo i trattati istitutivi delle Comunità Europee, avevano dato origine ad un ordinamento giuridico vincolante nei loro confronti, non potevano, in alcun modo, opporsi, mediante norme di diritto interno, agli obblighi derivanti dalla stipulazione dei trattati in questione.

Con la successiva sentenza n.232 del 22 ottobre 1975, ICIC, la Corte costituzionale affinò ulteriormente il principio del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, tenendo conto dell'ampio dispiegarsi della potestà regolamentare comunitaria e affermò due “principi–cardine” nella definizione dei rapporti tra livello comunitario e livello interno: la diretta applicabilità dei regolamenti sul nostro ordinamento interno e la loro preminenza sulle leggi nazionali descrivendo i meccanismi attraverso cui si attua tale prevalenza.168 Affermando questi principi il giudice costituzionale italiano si allinea

sulle posizioni sostenute dal giudice comunitario in materia di primato del diritto comunitario sul diritto nazionale e di supremazia, in caso di contrasto, delle norme comunitarie sulle norme di diritto interno, sia anteriori che successive: in particolar modo, si introduce il principio per cui una norma legislativa interna incompatibile con un regolamento comunitario preesistente è viziata da incostituzionalità per violazione dell'art.11, Cost. (ammettendosi il giudizio di costituzionalità come strumento in grado di garantire la prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno), di cui si ribadisce il riconoscimento delle limitazioni di sovranità determinate dall'adesione dell'Italia ai trattati istitutivi e del parallelo trasferimento agli organi della Comunità del potere di

emanare norme giuridiche configurandosi come norma interposta la legge di esecuzione

167Corte di Giustizia CE, 25 luglio 1964, causa 6/1964, Costa c Enel;

168Corte costituzionale, sentenza 22 ottobre 1975, n. 232, ICIC, in Rivista di diritto internazionale, 1975, p.766 ss.; “esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie debbono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni paese della Comunità, sì da entrare contemporaneamene in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari”.

del Trattato. Dal principio della diretta applicabilità dei regolamenti comunitari il Giudice costituzionale ricava un altrettanto importante corollario: il divieto, in capo al legislatore ordinario, di riprodurre il contenuto dei regolamenti in atti legislativi interni.169 Questo divieto è previsto a tutela della diretta applicabilità attribuita dall'art.

189 (ora art.249) del trattato istitutivo ai regolamenti (i quali sono caratterizzati dall'avere portata generale, dall'essere obbligatori in tutti i loro elementi e dalla diretta applicabilità all'interno degli Stati membri) e della previsione di cui all'art.177 dello stesso trattato, nel senso che la riproduzione del regolamento può determinare una novazione dello stesso (snaturando, in un certo senso, il suo contenuto originario) sul piano interno rendendo impossibile la proposizione di questioni pregiudiziali, interpretative e di validità del regolamento innanzi alla Corte di Giustizia. L'impostazione contenuta nella sentenza n. 232 del 1975 viene successivamente ripresa dalle successive sentenze n.205 del 28 luglio 1976 e n.163 del 29 dicembre 1977 con le quali il giudice comunitario ribadisce che i regolamenti comunitari hanno il potere di abrogare le leggi interne previgenti e con esso incompatibili (trovando applicazione in questo caso il criterio cronologico) mentre le leggi ordinarie emanate successivamente ad un regolamento comunitario che dovessero porsi in contrasto con il contenuto di quest'ultimo sono da dichiararsi incostituzionali in quanto, come suddetto, violano indirettamente l'art.11 del nostro dettato costituzionale.170 La dichiarazione di

incostituzionalità spetta alla Corte costituzionale la quale è l'unico organo che detiene il potere di rimuovere la norma incostituzionale dall'ordinamento giuridico interno.

In questa fase, la Corte costituzionale circoscrive il suo intervento volto a verificare la costituzionalità delle leggi interne contrastanti con i regolamenti comunitari unicamente alle leggi interne sopravvenute o successive all'emanazione degli atti comunitari, mantenendosi, con riferimento alle norme nazionali anteriori, il meccanismo dell'abrogazione implicita (sentenza n.163 del 29 dicembre 1977). Allo stesso tempo,

169La sentenza n.232 del 1975 afferma che i regolamenti comunitari, a condizione che essi siano completi nel loro contenuto dispositivo, costituiscono “fonte immediata di diritti ed obblighi sia per