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Il cinema di Hirokazu Koreeda e il tema della memoria

Nel documento Ciò che le parole non dicono. (pagine 52-56)

40 Kirkegaard , 2010, p.18, mia sintesi.

3 LE FASI DELLA TRADUZIONE

4.1. Il cinema di Hirokazu Koreeda e il tema della memoria

Rivolgendo una rapida occhiata al cinema giapponese moderno, Koreeda Hirokazu rappresenta sicuramente un caso degno di menzione. Grande esploratore dell’animo umano, sfugge da qualsiasi classificazione rigida cinematografica, coniando uno stile personale ed originale. Koreeda nasce a Tokyo nel 1962, laureandosi presso l'Università Waseda di Tokyo nel 1987. I suoi studi sono orientati verso un profilo letterario, egli coltiva con grande passione il sogno di diventare scrittore: l’amore per la lingua e la letteratura giocheranno grande ruolo nella sua futura carriera da regista.

“Piuttosto che far chiasso con gli altri sono il tipo di persona che trova soddisfazione nello starsene a casa propria con in mano un buon libro [...]non sono mai stato bravo nei rapporti umani (non lo sono nemmeno ora). ˮ43

Ne è testimonianza la cura maniacale con cui scrive le proprie sceneggiature, ineccepibili nell'aspetto stilistico e di grande profondità linguistica, oltre al fatto di pubblicare in un lasso di tempo brevissimo sia il suo primo documentario ( Lesson

from a calf, 1991) che un romanzo (However, 1991). In altre parole, aspetto letterario

e cinematografico giocano un ruolo fondamentale all'interno delle opere di Koreeda, poiché rappresentano uno dei tratti distintivi dell'autore. Hirokazu Koreeda, a differenza di molti altri colleghi che già dall'infanzia sperimentavano attraverso la produzione di cortometraggi in 8mm, prende in mano la videocamera all’età di ventinove anni, nel 1991. Mostra subito forte interesse per il genere documentaristico, e, conscio del fatto della fine del periodo d’oro degli studios, ovvero una delle tante conseguenze dovute alla rottura della bolla nel periodo della cosiddetta “bubble

economyˮ, inizia a lavorare presso la rete televisiva Tv Man Union, nota per la

produzione di documentari sin dagli anni 50. Koreeda non è interessato da profitto e fama, non ricerca la notorietà, infatti è in disaccordo con la politica della Tv Man Union, la quale era totalmente concentrata sull'aspetto monetario. Ecco che il primo lavoro come assistente regista diventa frustrante per lui, si sente chiuso in una bolla e impossibilitato ad esprimersi come vorrebbe. In un’intervista di Claudia Bertolè, alla domanda di quali differenze intercorrono tra lavorare in tv o per il cinema, risponde così:

“Il lavoro del regista, fondamentalmente, è lo stesso. Se proprio dovessi citare

qualche differenza, be', allora direi che il cinema è- o almeno dovrebbe essere- il risultato dell'espressione individuale del regista[...], mentre quando si lavora per la televisione è difficile esprimersi solo individualmente e non venire a compromessi con tutto ciò che ti sta intorno, con la realtà del momento.ˮ44

Così, prendendo la scusa di alcune ricerche sul campo, trova il tempo di dedicarsi alla propria ispirazione. Koreeda è stato inserito a pieno titolo all’interno del cinema d'autore odierno giapponese dalla critica, a fianco a registi come Kurosawa Kiyoshi, Tsukamoto Shinya, Nakata Hideo e Ishii Sogo, da cui tuttavia si discosta per il forte grado di originalità volto a fuggire qualsiasi tipo di rigida classificazione cinematografica (Dalla Gassa, Tomasi 2010). Molti dei suoi lungometraggi, ad esempio, possiedono lo “sguardo documentaristicoˮ, abilmente associato al genere fiction, volontà di superare i limiti dei due generi e amalgamarli sapientemente in una nuova proposta cinematografica, fresca e interessante. Oltre che essere un regista in grado di utilizzare in maniera sapiente le tecniche di ripresa, si fa osservatore in prima persona delle piccole parentesi di vita (reale e non) che ci propone attraverso le sue opere. Ricordiamo ad esempio il già citato Lesson from a calf (1991), all’interno del quale descrive le reazioni di bambini della scuola elementare che adottano un cucciolo di vitello e lo vedono crescere nell'ambiente scolastico. Koreeda si reca personalmente in periodi differenti presso la scuola per catturare quanti più momenti autentici possibili, come ad esempio, la crescita e la vita, ma anche la morte del vitellino, che, nel documentario, diviene motivo di vero e proprio shock per i bambini, le cui espressioni vengono catturate dalla telecamera mentre leggono ad alta voce poesie di commiato che hanno appositamente composto. Cari a Koreeda sono il tema del ricordo e della memoria, affrontati soprattutto nella cosiddetta trilogia della memoria (Maboroshi no hikari, After life, Distance). Secondo Koreeda la memoria,“elemento fondante dell'individualità del singoloˮ45,è sia personale che

collettiva, in quanto rappresenta ciò che siamo ma anche ciò che ci unisce alle altre persone, in quanto verrebbe quasi spontaneo condividere i ricordi con chi ci sta accanto, non si tratta di intimità esclusiva. Ciò che ci permette di vivere anche dopo la nostra morte è la memoria, attraverso ricordo che i nostri cari conservano di noi. Ecco perché Koreeda, nelle sue opere, ci presenta un concetto di memoria così versatile e polivalente, poiché, per propria natura, si tratta di un elemento difficilmente analizzabile e richiudibile in rigidi confini etimologici. All’interno dei

44 estratto da un’intervista redatta in Japan Pop di Claudia Bertolè, traduzione di Gianluca Coci. 45 Bertolè, 2013, p.18.

primi tre lungometraggi già citati di Koreeda, la memoria, oltre ad essere identità, diventa confronto con il proprio passato e con il dolore dovuto alla perdita di familiari. Aspetti fondamentali per il regista, in quanto lo hanno toccato personalmente con un’esperienza di vita: egli infatti, in tenera età, ha osservato i cambiamenti che il morbo dell’Alzheimer ha prodotto sul nonno, che piano piano si è spento davanti ai suoi occhi, perdendo completamente ogni ricordo di sé e di chi amava.Da tutto ciò non può che trasparire una vaga sensazione di triste irrisolutezza. Koreeda, molto probabilmente, associava episodi di vita vissuta a sensazioni che provava in quel grande periodo di incertezze e crollo dei valori dopo il cosiddetto scoppio della bolla. Forse possiamo identificare alcuni punti in comune presenti nel Novecento occidentale, secolo di tristezza, di inquietudine assente, dove la memoria cerca di far tornare alla mente qualcosa che è stato completamente perduto. Questo sentimento opprimente non può che trovare un proprio adattamento all'interno delle anime degli artisti e della cultura. Per quanto riguarda la sfera letteraria, Eugenio Montale, all’interno del suo “Occasioniˮ, pone la memoria come elemento principale: ciò che ci coinvolge non ci dice di esistere, rimanda piuttosto a vicende di gioia, dolore, esperienze di vita e morte, quello che rimane aleggiante nell’aria è solo una fragile immagine che reca con se speranza di felicità. Secondo Montale la memoria viene inesorabilmente cancellata dallo scorrere del tempo, le viene negato il valore che Koreeda tanto ricerca, la propria identità. Il Novecento, secolo turbolento e desolato, presenta i lasciti di vigore ardito ottocenteschi con il testamento di autori come Foscolo, che, nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortisˮ, riporta: “Facciamo tesoro

di sentimenti cari e soavi, i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, a memoria che non siamo sempre vissuti nel doloreˮ. Una

sorta di testamento a cui appellarsi, una memoria che piano piano sta sfuggendo dalle dita della mano, sgretolandosi come sabbia al vento, per poi diventare oblio nel Novecento. I campi di trasfigurazione sono estesi, ecco che l'arte ci viene in soccorso per testimoniare questa tragica conversione da sentimenti d'ardore tipicamente ottocenteschi alla vera e propria perdita d’identità. Il dipinto che si vuole inserire a spiegazione viene ideato e ultimato proprio nel 1893 dal pittore norvegese Edvard Munch, il suo “Urloˮ di terrore verso la perdita dei valori che risuona nella natura delle cose, che permea l'universo. L'uomo improvvisamente si trova senza nessun appiglio, senza nessun ricordo, senza nessuna memoria cara a cui aggrapparsi per andare avanti. Ciò che rimane è un profondo senso di vuoto, forse lo stesso che Koreeda ha percepito all'inizio della propria carriera. Egli, però, non si è limitato al puro crogiolarsi nella tristezza, tramite una telecamera ha voluto dare una sua esistenza alla memoria, ha voluto riempirla, darle forma e ricordare a tutti che è

capace di provocare lacrime di gioia e di dolore, permette di sentire il soffio di vita che la propria identità rappresenta, emoziona attraverso il ricordo di una carezza, di una musica, di un gesto. Purtroppo, come ammette lo stesso Koreeda, il cinema può solo presentare un surrogato del fatto reale, qualcosa che mai potrà presentare la stessa emotività trasmessa da un gesto fisico, infatti egli si limita alla memoria visiva. Nonostante ciò, la volontà di portare un tema così profondo ed interessante, come a voler indicare che esiste e che non è dimenticato, è testimonianza del fatto che Koreeda forse involontariamente cerca di colmare uno di quei tanti vuoti che l'uomo ha dentro di sé da molti anni, quell'oblio inesorabile: egli sembra quasi voler comunicare che non importa se i sentimenti che si ricordano sono tristi o felici, ciò che importa è che essi indicano l’identità di ognuno di noi.

Nel documento Ciò che le parole non dicono. (pagine 52-56)