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Il consumo collaborativo e sistemi locali alternat

Nel documento Food and the city (pagine 143-175)

Capitolo IV – Orticoltura urbana Sommario: Premessa; 1 Gli orti urbani in Italia; 1.1 Il fe-

Capitolo 5 Il consumo collaborativo e sistemi locali alternat

Sommario: Premessa; 1. Gli ecovillaggi e le transition town; 2. La gestione collettiva dei terreni; 3. La sharing economy ed il consumo collaborativo.

Premessa

Metà della popolazione mondiale vive in ambienti cittadini, dove le abitazioni hanno coperto il territorio naturale e rura- le, e dove la vita è organizzata in sistemi industrializzati. Eppure questi sistemi sono vulnerabili: rappresentano un limite per i cittadini che hanno bisogno di sempre maggiori tutele rispetto alla qualità del cibo ed alla trasparenza delle informazioni sui prodotti alimentari. Le proposte per far fronte a queste esigenze partono dalla società civile, con lo studio di meccanismi risolutivi volti a migliorare l’approvvigionamento alimentare locale ed a preparare le città all’epoca post-petrolio ed al cambiamento climatico, ed arrivano fino alla progettazione di ipotetici sistemi di au- toproduzione alimentare in ambiente urbano.

Un esempio di città che ha innovato il proprio sistema ali- mentare orientandosi verso un sistema alternativo, come analizzato nel corso della trattazione precedente, è quello di Detroit, città leggendaria nel periodo di produzione delle automobili, devastata poi dalla grande crisi americana ed oggi città viva grazie all’agricoltura: numerose zone indu- striali dismesse sono infatti utilizzate dai residenti come ter-

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reni per coltivare i prodotti indispensabili al loro sostenta- mento. Ma è possibile citare anche New York, che è consi- derata il “vivaio della guerriglia verde”, grazie alle spinte di un moto agricolo e culturale iniziato a Manhattan nel 1973 su iniziativa di una pittrice del Lower East Side, Liz Christy, con il nome per l’appunto di guerriglie verdi (green guerrillas), le cui armi sono pale, piantoi e seed boombs, bombe di semi lanciate nei territori incolti per far nascere nuova vegetazione. Il modello di riferimento è quello delle popolazioni urbane dell’Africa, dell’Asia e dell’America la- tina, dove la produzione di derrate alimentari in città nutre il 70% della popolazione urbana, e che viene riproposto in questi sistemi alternativi di produzione alimentare cittadina. Dopo aver passato in rassegna le tecniche comuni di produ- zione alimentare in ambiente urbano, occorre adesso analiz- zare proprio quelli che possono essere individuati come si- stemi locali alternativi che offrono spunti per il futuro delle città. L’assunto alla base di questi sistemi può essere rias- sunto dalle parole di Benedicte Manier193:“l’avvenire ap-

partiene alle città che avranno saputo anticipare la loro in- dipendenza alimentare”. L’obiettivo a lungo termine è quello di far emergere una nuova economia, ritenuta indi- spensabile alla sopravvivenza delle città, che oltre all’autosufficienza delle città assicuri la creazione di posti di lavoro, migliori le condizioni del nostro ecosistema, e

193 Giornalista dell’Agence France Press, specializzata in questioni so-

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possa rappresentare un nuovo modello per vivere insie- me194.

Uno dei fattori comuni a questi modelli di nuova economia è la partecipazione dei cittadini e la presenza di quelle che sono definite “politiche alimentari dal basso”: si tende in questo senso a superare l’impostazione classica della filiera lunga attribuendo un ruolo primario agli agricoltori che non si occuperebbero più solo della produzione degli alimenti, ma che completerebbero l’intero percorso “dal campo alla tavola”. Inoltre sono coinvolti i soggetti che solitamente rappresentano i destinatari della filiera: singoli cittadini, as- sociazioni, reti, fondazioni, cooperative, e molti altri. E’ una rivoluzione del modo di concepire non solo l’agricoltura ur- bana, ma in generale i bisogni di natura differenziata che coinvolgono i cittadini195.

1. Gli ecovillaggi e le transition towns

Ecovillaggi e transition towns sono esempi di sistemi locali alternativi, che prevedono una revisione delle politiche ali- mentari urbane a partire dal concetto stesso di relazione tra individui ed ambiente (in senso generico). Sono general- mente considerati alla stregua di visioni utopiche196 che, per

quanto radicali, possono rappresentare l’esigenza di cam- biamento nella concezione di politiche alimentari urbane.

194 MANIER B., Un milione di rivoluzioni tranquille, Roma, 2017,

pp.29-68

195 CALORI A. e MAGARINI A., Food and the cities: politiche del

cibo per città sostenibili, Milano, 2015, pp. 124-125.

196 PIGMEI V., Le piccole utopie contemporanee degli ecovillaggi,

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La nascita di un ecovillaggio prevede una stretta connessio- ne tra individui ed ambiente, presuppone un forte grado di condivisione, relazionale e materiale, consente uno stile di vita quotidiano che permetta il raggiungimento del benesse- re di tutti. In questa forma si sono sviluppati a partire dagli anni ’60 negli Stati Uniti, e dagli anni ’70 in Europa, e sono considerati dall’Unione Europea stessa un modello da stu- diare ancora oggi: ne è una dimostrazione il programma CLIPS197 (Community Learning Incubator Programme for

Sustainability), cofinanziato dal programma Erasmus+198.

Allo stato attuale si contano all’incirca 2000 ecovillaggi ne- gli Stati Uniti, 250 in Regno Unito ed Irlanda, 100 in Ger- mania, e poche decine in Francia e Spagna, mentre in Italia superano le 20 unità.

Non tutti gli ecovillaggi sono uguali: ogni comunità decide le proprie regole di funzionamento, ma sono tutte accomu- nate da una scelta consapevole di vita a basso impatto am- bientale. In alcuni casi si adotta un sistema di condivisione della proprietà dei beni; in altri casi i membri versano i pro- venti del proprio lavoro in una cassa comune; in altri casi ancora esiste un sistema di retribuzione differenziato a se- conda dell’attività svolta; ed infine ci sono ecovillaggi in

197 CLIPS è un programma che si propone l’obiettivo di creare una

guida per lo sviluppo di modelli basati sul valore della comunità, e che si basa sullo studio e l’analisi di ecovillaggi esistenti, ovvero di «co-

munità che utilizzano processi decisionali partecipativi per integrare le quattro dimensioni della sostenibilità, ecologica, economica, sociale e culturale, al fine di rigenerare ambienti sociali e naturali».

198 Per approfondimenti si rimanda al sito del Programma CLIPS,

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cui ogni nucleo familiare ha la propria economia e solo al- cune attività vengono gestite in comune.

In genere nella maggior parte delle comunità le decisioni importanti vengono adottate con il metodo del consenso199 e

per la risoluzione dei conflitti sono interpellati facilitatori e mediatori esterni. E’ un sistema partecipato ed orizzontale. Le transition towns sono modelli più recenti ed hanno come obiettivo principale la riduzione dell’impatto energetico del funzionamento delle comunità locali. E’ un movimento che si sviluppa a partire dal 2005 su iniziativa di Rob Hopkins, un insegnante di permacoltura, con il fine di realizzare una transizione: passare, cioè, a livello di comunità locale, da modalità di approvvigionamento energetico basate sull’impiego di petrolio a modalità caratterizzate da un im- patto ambientale limitato se non inesistente.

Tra i documenti dei membri della rete delle Transition To- wns sono enunciati anche i dodici passi necessari per realiz- zare la transizione. In questo documento si legge che uno dei temi oggetto della transizione è proprio il cibo ed in par- ticolare sono organizzati dai promotori incontri pubblici sul- la permacoltura (agricoltura sostenibile) e sugli orti sinergi- ci200.

199 Il metodo del consenso è un modo per prendere le decisioni basato

sul presupposto che i componenti della “comunità” di riferimento sono nella stessa posizione. E’ un metodo decisionale orizzontale, i cui ele- menti essenziali sono 5: la volontà di condividere il potere, l’impegno consapevole ed informato verso il metodo, lo scopo comune, l’ordine del giorno ben strutturato, una facilitazione efficace (BRIGGS B., Gui-

da pratica a facilitazione e metodo del consenso, Firenze, 2016).

200 FORNO F. e GRAZIANO P., Il consumo critico, Bologna, 2016,

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2. La gestione collettiva dei terreni

Negli anni Settanta Robert Swann e Slater King, cittadini americani militanti per i diritti civili, acquistano dei terreni e li donano ad un gruppo di contadini afroamericani biso- gnosi, utilizzando un sistema di comproprietà delle terre per la condivisione delle risorse agricole e una struttura giuridi- ca senza scopo di lucro, il community land trust, dove le ter- re sono gestite come un bene comune e le decisioni sono prese democraticamente.

Il primo community land trust è nato nel 1969 ad Albany in Georgia e da allora numerose aziende si sono stabilite su terreni in comproprietà.

Caso emblematico è quello della fattoria Fordhall in Inghil- terra: due giovani ereditano dalla famiglia la fattoria che de- tengono da generazioni in affitto; i proprietari decidono di vendere il terreno nel 2004 e non avendo i due giovani i soldi necessari per acquistarlo, lanciano la richiesta di aiuto. Oggi la fattoria Fordhall è in comproprietà a più di 7500 cit- tadini.

In Francia accade un fatto simile: è il caso di Terre de Liens, nato nel 2003 per opera di Jerome Deconinck, inge- gnere agronomo, che vedendo molte aziende cessare la loro attività, decide di offrire un sostegno tramite i contributi dei privati: si possono acquistare in questo modo azioni per un importo minimo di cento euro da investire in un’azienda personalmente scelta; Terre de Liens (che comprende

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l’associazione stessa, una società fondiaria che acquisisce e distribuisce i terreni, ed una fondazione che raccoglie dona- zioni in denaro o in natura) acquisisce i terreni e vi insedia giovani agricoltori ai quali le banche hanno rifiutato un pre- stito.

In Germania il primo community land trust è stato creato da un agricoltore biologico di Eichstetten, Christian Hiss, nel 2006: volendo ampliare il proprio terreno ad Edimburgo, e vedendosi rifiutare un prestito bancario, crea con un gruppo ristretto di persone una società per azioni alla quale aderi- scono centinaia di persone. E’ stata creata così una filiera biologica urbana che va dai campi alla tavola e che com- prende sedici imprese locali. E’ un esempio di filiera agroa- limentare cogestita dalla popolazione201.

3. La sharing economy ed il consumo collaborativo

Condivisione e collaborazione sono i due termini che più rappresentano la spinta verso nuove forme di politiche ali- mentari urbane: quella che oggi è comune chiamata sharing economy. E’ difficile trovare una definizione di sharing economy, perché si tende oggi ad attribuire più significati a quella stessa parola, includendo sistemi multilivello che hanno ben poco a che fare l’uno con l’altro. Condividendo l’impostazione dell’economista Mario Maggioni, per inqua- drare la sharing economy occorre partire da due definizioni: quella data dalla Commissione Europea nel 2016, come

201 MANIER B., Un milione di rivoluzioni tranquille, Roma, 2017,

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economia collaborativa202, e quella generalmente utilizzata,

quale termine che indica attività economiche e sociali che comprendono transazioni online.

Per trovare una definizione comune della sharing economy possiamo inquadrarla come un fenomeno rilevante diffuso a livello globale, che consiste nella gestione di una struttura ibrida di mercato attraverso piattaforme online, in cui rela- zioni profit e non profit si intrecciano203.

Il terreno fertile per la diffusione della sharing economy è quello del consumismo: viviamo in un sistema di ipercon- sumo, in cui il consumatore è abituato a comportamenti che lo rendono inconsapevole del suo impatto. Gli acquisti in sostanza non sono più ragionati, ed a titolo di esempio è possibile citare il consumo di acqua in bottiglia, percepito come positivo dal consumatore a livello personale, rappre- sentando in realtà la scelta potenzialmente meno efficace in un sistema alimentare urbano.

202 Dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al

Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato del- le Regioni del 02/06/2016: Ai fini della presente comunicazione, l'e-

spressione "economia collaborativa"7 si riferisce ai modelli imprendi- toriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l'uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati. L'economia collaborativa coinvolge tre cate- gorie di soggetti: i) i prestatori di servizi che condividono beni, risor- se, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono ser- vizi su base occasionale ("pari") sia prestatori di servizi nell'ambito della loro capacità professionale ("prestatori di servizi professiona- li"); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione — attraverso una piattaforma online — i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi ("piattaforme di colla- borazione"). Le transazioni dell'economia collaborativa generalmente non comportano un trasferimento di proprietà e possono essere effet- tuate a scopo di lucro o senza scopo di lucro.

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Allo stesso modo si può fare l’esempio dei prodotti “usa e getta”, a partire dall’utilizzo dei bicchieri di plastica, i c.d. “bicchieri della salute” come vennero battezzati alla loro nascita in quanto sterili, ma che oggi rappresentano soprat- tutto una fonte di spreco ed inquinamento.

La sharing economy è l’esatto opposto. Si contrappone al modello del consumismo per abbracciare un’idea di condi- visione e di cooperazione che può essere locale e fisica o può usare internet per connettere e combinare individui e prodotti. Le persone hanno avviato un nuovo processo di condivisione con la propria comunità, che può essere un comitato di quartiere o un network virtuale.

Ogni giorno le persone utilizzano queste forme di consumo collaborativo inteso come condivisione in senso tradiziona- le, quale baratto, prestito, commercio, dono, ma ridefiniti in chiave tecnologica in un sistema di comunità alla pari, dal basso.

Tutto questo permette di risparmiare tempo, denaro e spa- zio, con effetti positivi nell’ambiente, in ragione di una maggiore efficienza degli usi, e di una riduzione dell’inquinamento e dei rifiuti.

I ruoli previsti in un’economia di consumo collaborativo sono due: quello del fornitore alla pari, che fornisce beni da concedere in uso, condividere o prendere in prestito, e quel- lo dell’utente alla pari, che consuma i prodotti o i servizi di- sponibili. E’ possibile ricoprire anche entrambi i ruoli, met- tendo a disposizione dei beni, ed usufruendo di altri. Oltre ai servizi di sharing economy classici, è possibile individua-

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re degli stili di vita collaborativi, in cui persone con interes- si simili formano dei gruppi per condividere e scambiare beni meno tangibili, come il tempo, lo spazio, e le abilità, e comprendono, a livello locale, sistemi di condivisione per spazi di lavoro, beni, giardini, cibo204.

E’ questa ultima accezione della sharing economy, come stile di vita, che viene presa in analisi dal Comitato econo- mico e sociale europeo nel parere del 21 e 22 gennaio 2014 sul tema “Il consumo collaborativo o partecipativo: un mo- dello di sviluppo sostenibile per il XXI secolo”.

Nella prima parte del parere, il Comitato considera il con- sumo collaborativo come una pratica urbana grazie alla qua- le si possono condividere prodotti su una scala che “prece- dentemente non era immaginabile” (1.1); che contribuisce ad una trasformazione concettuale del lavoro (1.2); che rap- presenta “un’integrazione innovativa e vantaggiosa sotto il profilo economico, sociale ed ecologico per l’economia del- la produzione e del consumo” ed “una soluzione alla crisi economica e finanziaria in quanto rende possibile lo scam- bio in caso di necessità” (1.3); che necessità di una rego- lamentazione da parte delle istituzioni competenti (1.4). Al punto 2.4 dell’introduzione, si riassume inoltre quanto finora esposto circa l’importanza del consumo collaborativo o partecipativo nella situazione alimentare urbana: “Il con- sumo collaborativo o partecipativo può rappresentare uno strumento di mercato complementare con cui rilanciare e

204 BOTSMAN R. e ROGERS R., Il consumo collaborativo: ovvero

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rigenerare il mercato interno, risanandolo e rendendolo più equilibrato e sostenibile, a condizione di poter disporre di strutture fisse”.

Diretta conseguenza della tendenza all’iperconsumo è un li- vello eccessivo di spreco, particolarmente concentrato nelle realtà urbane, dove arriva a comprendere sino ad un terzo degli alimenti prodotti. Si stima che in Europa ogni anno vengano sprecati 88 milioni di tonnellate di cibo, pari a cir- ca 173 chili per persona, con circa 170 milioni di tonnellate di CO2 emesse a causa della produzione e dello smaltimen- to dello spreco alimentare dell’Unione205.

La maggior parte dei residui alimentari proviene dalle fami- glie, un dato che fa riflettere sulla scarsa consapevolezza re- lativa alla produzione alimentare stessa, determinata da una fin troppo ampia distanza fisica e psicologica tra il consu- matore e l’intero sistema di distribuzione in cui numerosi sono gli intermediari. La risposta è anche in questo caso in- dividuata nel consumo collaborativo, in un sistema peer-to- peer orientato verso una nuova forma di agro-comunità ba- sata sulla produzione locale di alimenti distribuiti su piccola scala. A livello nazionale è possibile rinvenire un riferimen- to a questo sistema nella legge n. 166 del 19 agosto 2016, rubricata “Disposizioni concernenti la donazione e la distri- buzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solida- rietà sociale e per la limitazione degli sprechi”, che al com- ma 2 dell’art. 9 fa riferimento a “modelli di consumo e di

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acquisto improntati a criteri di solidarietà e di sostenibili- tà”206.

Congiuntamente si rende necessaria una revisione degli in- dicatori di crescita economica, fra i quali lo stesso PIL (Prodotto Interno Lordo), inteso come reddito generato da un sistema socio-economico in un determinato intervallo di tempo. Il PIL sarebbe infatti in grado di rilevare la crescita economica di un sistema, senza però comprendere il livello di qualità della vita o di benessere, avendo come punto di ri- ferimento esclusivamente le transazioni monetarie. Nono- stante ciò, il PIL è ancora oggi il principale metodo di misu- ra del benessere nazionale, e non solo del reddito nazionale. In senso opposto, si propone una valutazione multidimen- sionale della qualità della vita che preveda come situazione di perfezione l’equilibrio fra i sistemi economico, sociale ed ambientale; la conservazione degli stock di risorse disponi- bili; il controllo dei flussi e dei meccanismi di interazione fra sistemi. Si tratta di identificare poi una serie di indicatori che coprano le dimensioni di benessere economico e socia- le, coerentemente al contesto sociale, politico ed economico della realtà in analisi, che siano specificamente rilevanti per

206 Art. 9 comma 2 legge 166/2016: Al fine di promuovere modelli di

consumo e di acquisto improntati a criteri di solidarietà e di sostenibili- tà nonché di incentivare il recupero e la redistribuzione per fini di be- neficenza, il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con i Ministeri del lavoro e delle politiche sociali, della salute e dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, promuove cam- pagne nazionali di comunicazione dei dati raccolti in tema di recupero alimentare e di riduzione degli sprechi, anche al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica e le imprese sulle conseguenze negative degli spre- chi alimentari, con particolare attenzione ai temi del diritto al cibo, dell'impatto sull' ambiente e sul consumo di risorse naturali e alle pos- sibili misure per il contrasto degli sprechi medesimi.

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l’ambito agricolo, e che dovrebbero far riferimento alla di- mensione economica, alla disoccupazione, alle differenze regionali, all’istruzione, alle condizioni abitative, alla salu- te, alla qualità ambientale ed alla partecipazione sociale207.

Un esempio di misurazione del benessere, alternativo e con- trario al PIL, è quello della FIL (Felicità Interna Lorda). Ta- le indice è stato introdotto per la prima volta nel Regno del Buthan dal Re Jigme Singye Wangchuck IV negli anni Set- tanta, ed è oggi un indicatore utilizzato dall’ONU, nel Pro- gramma di Sviluppo Sostenibile, per stilare il rating di oltre 150 nazioni all’interno del World happiness report e per migliorare le politiche interne208.

“La FIL è calcolata su 33 indicatori e 124 variabili che fanno riferimento a nove aree d’interesse (dette domini): benessere psicologico, salute, uso del tempo, istruzione, multiculturalità, buon governo, vitalità sociale, tutela della biodiversità e qualità della vita. Gli indicatori non hanno tutti lo stesso peso statistico”209.

Questo fa emergere un altro aspetto fondante dei sistemi di consumo collaborativo: la condivisione delle conoscenze. La FIL stessa ha un senso se utilizzata come parametro per individuare le buone pratiche che possono essere seguite da tutti i Paesi del contesto individuato.

207 GRASSO M. ed autori vari, Per un’altra campagna, Milano, 2010,

pp. 65-68.

208 I paesi più felici del mondo secondo le Nazioni Unite, pubblicato su

Internazionale.it il 24 aprile 2015.

209 IONTA F., Oltre il Pil: così in Buthan misuriamo la Felicità Inter-

Nel documento Food and the city (pagine 143-175)

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