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SESTO CAPITOLO 

IL CONTINENTE ASIATICO 

 

Osservando  l’oriente  del  mondo,  dobbiamo  fare  ulteriori  considerazioni.  Giappone,  Corea,  Cina,  hanno  legislazioni,  sistemi  governativi  e  principi,  ovviamente,  differenti.  Si  ha  l’opportunità  di  mettere  in  luce  alcune  caratteristiche  delle  regolamentazioni  analizzate  in  relazione  a  fattori  “unificanti”  di  determinati  Stati  o  a  situazioni  particolari.  Un  esempio  chiaro  deriva  da  alcuni  Stati  del  Medio  Oriente,  nei  quali  è  palesemente  riscontrabile  il  richiamo  comune  all’Islamismo,  non  come  fonte  religiosa,  filosofica  o  normativa,  ma  come  appartenenza  al  mondo  “arabo”.  Inoltre,  la  Costituzione  Irachena,  ad  esempio,  contiene  una  definizione  di  “Nazione  araba”,  identificata  nel  “popolo  delimitato  all’Atlantico  e  dal  Golfo  Arabo,  dove  la  lingua  araba  è  la  lingua  della  maggioranza  della  popolazione”(Artt.1‐5)124.  In  base  alla  Costituzione giordana, la concessione della cittadinanza ad un “arabo” che soddisfi i requisiti previsti dalla  legge, è atto dovuto (Artt. 13 e 14). Per questo Stato, la naturalizzazione di un “arabo”, nato in Giordania o  nei territori occupati della Palestina, non è subordinata ad alcun requisito particolare, potendo effettuarsi  con  semplice  domanda  (Art.  5)125.  solo  nella  Costituzione  della  Repubblica  Araba  dello  Yemen,  si  fa  riferimento all’appartenenza religiosa, allorché si limita la naturalizzazione, al “musulmano straniero”(Artt.  4 e 5)126. Un fattore importante è quello relativo alla costituzione di nuovi Stati, in posti che prima avevano  una condizione di dipendenza. In questi casi, come ad esempio per le legislazioni di Paesi come Pakistan,  Bangladesh,  Birmania,  Brunei,  l’obiettivo  primario  della  legislazione  è  quello  di  individuare  i  “cittadini  originari”,  in  base  a  criteri  diversi  tra  cui  l’appartenenza  a  determinati  gruppi  indigeni  o  la  nascita  sul 

        

124 Si osservi a tal proposito  il sito web www.asianews.it da cui sono state tratte le analisi fatte; 

125 Si osservi a tal proposito il sito web www.osservatorioiraq.it/l’importanza‐di‐essere‐giordani e www.annusca.it;              126 GIOVANNI KOJANEC (a cura di), La cittadinanza nel mondo, Legislazione dell’Asia, IV vol., Padova, 1986. 

70  territorio127. Accanto alla cittadinanza originaria, a volte, esiste una cittadinanza la cui acquisizione dipende  da una “registrazione” e che è riservata a chi, non essendo nato né trovandosi sul territorio dello Stato in  questione, ha tuttavia vincoli di discendenza con persone collegate con il territorio stesso. In alcuni Stati si  presenta  un  aggiornamento  significativo  delle  normative,  come  ad  esempio,  per  quanto  riguarda  la  Repubblica Popolare Cinese. La legislazione giapponese ha una disposizione secondo cui il cittadino che ha  acquistato  una  cittadinanza  straniera  per  nascita,  perde  la  cittadinanza  giapponese  ex  tunc,  salvo  che  manifesti  la  volontà  di  mantenerla  (Art.  12)  e  stabilisce,  altresì,  che  il  doppio  cittadino  può,  sempre,  rinunciare alla cittadinanza giapponese (Art. 13). Essa si fonda, dunque, sulla possibilità (derivante anche da  altre circostanze, come la nascita da genitori di cui uno straniero) di una doppia cittadinanza, ma con varie  norme tende poi ad eliminarla. In vari Stati come ad esempio il Giappone stesso e la Repubblica Popolare  Cinese, l’India , l’Indonesia e la Thailandia, l’acquisto volontario di una cittadinanza straniera determina la  perdita di quella posseduta. In altri è riconosciuta una facoltà di rinunzia. In un terzo gruppo, che include  Stati  arabi,  l’Iran  nonché  la  Mongolia,  la  perdita  della  cittadinanza  è  subordinata  ad  una  decisione  dell’autorità  e,  talora,  l’acquisto  non  autorizzato  di  una  cittadinanza  straniera  è  oggetto  di  sanzioni.  L’atteggiamento  diverso  adottato  dalle  diverse  legislazioni  dipende  dalle  finalità  considerate  preminenti:  nel  primo  caso  dipende  dal  rispetto  della  decisione  individuale  e  si  accompagna  all’intento  di  evitare  la  doppia  cittadinanza.  Nella  seconda  ipotesi  è  solo  la  volontà  dell’interessato  ad  assumere  rilevanza.  Nel  terzo caso l’appartenenza alla comunità statale ha tale carattere esclusivo e assoluto che lo status non può  essere  influenzato  da  circostanze  che  appaiono  estranee  alla  comunità  stessa.  Dopo  questa  panoramica  generale  riguardante  l’Oriente,  prima  di  addentrarci  nell’analisi  specifica  dei  Paesi  che  più  ci  interessano  (Giappone, Corea del Nord e del Sud e soprattutto Repubblica Popolare di Cina) è importante sottolineare  che tutte le legislazioni ‐‐ e non soltanto quelle del continente asiatico ‐‐, indipendentemente dalle matrici  da cui derivano, disciplinano la cittadinanza alla luce di istituti comuni. Questo permette di considerare lo  status  con  un’accezione  universale,  in  cui  il  vincolo  Stato  ‐  cittadino  sembra  ispirarsi,  nel  mondo        

 

127 Cfr. l’Art. 4 della legge del Brunei ed altresì l’Art. 3 di quella birmana; 

contemporaneo,  ad  una  visione  uniforme  della  comunità  statale.  Da  qui  discendono  importanti  conseguenze, sia sul piano del diritto internazionale privato, sia per quanto concerne il diritto sostanziale  interno  in  relazione  a  tutti  gli  aspetti  riguardanti  la  situazione  degli  stranieri  (dei  “non  cittadini”che  sono  cittadini di altri Stati o coloro che per essere privi di tale cittadinanza meritano un trattamento particolare,  nel  senso  che  sono  cittadini  di  altri  Stati  ma  che,  in  certe  situazioni,  rifiutano  i  vincoli  con  gli  stessi,  rifugiandosi,  per  un  motivo  o  un  altro,  all’estero,  per  i  quali,  dunque,  determinate  misure  di  tutela  sono  assolutamente  necessarie).  Un  altro  problema  che  sorge  è  quello  della  discriminazione,  per  cui  è  importante la ricerca di equilibri tra tutela della comunità dei cittadini e condizione dello straniero.                                

72  IL GIAPPONE 

 

Com’è  noto,  la  questione  della  cittadinanza  è  particolarmente  problematica  in  Giappone  in  quanto,  nonostante all’Art. 14 della Costituzione del Giappone, si legga:  “tutte le persone (versione inglese) e tutti i  cittadini  (versione  giapponese),  sono  uguali  davanti  alla  legge  e  non  possono  essere  discriminati  politicamente, economicamente o socialmente, sulla base di razza, credo, sesso o di altro tipo  di fondo”,  persiste una forte connotazione razzista contro chiunque non sia cittadino giapponese128. Theodore Bestor,  professore di studi giapponesi ad Harvard, durante un’intervista al New York Times affermò: “i giapponesi  tendono  ad  avere  la  forte  convinzione  intrinseca  secondo  cui  i  comportamenti  di  ogni  persona  siano  strettamente connessi a questioni genetiche e biologiche”129. Gli stranieri vengono, spesso, additati come 

batakusai, ossia “puzzolenti di burro”, poiché essi, così come i cinesi, non amano mangiare latte né i suoi 

derivati di cui gli occidentali, invece, sono ghiotti. Gli stranieri generalmente dicono di essere trattati bene,  molti  tuttavia,  si  lamentano  delle  persone  che  per  strada  li  guardano  e  ridacchiano,  o  ci  sonno,  anche,  coloro che sono sottoposti ad umiliazioni come racconta, sempre durante un’intervista al New York Times,  una ragazza  americana  ma studiosa di giapponese,  che in metropolitana è stata derisa da alcune ragazze  del  luogo  e  additata  come  “rosa  e  pelosa”.  Come  questa,  di  storia,  ce  ne  sono  molte  altre,  si  parla  addirittura  di  giapponesi  che  escono  dai  bagni  pubblici  se  vedono  entrare  un  non  giapponese  o  di  giapponesi  che  si  alzano,  mentre  sono  seduti  sui  mezzi  pubblici,  se  accanto  a  loro  si  siede  uno  straniero.  Questo sentimento anti‐straniero, è stato ulteriormente accresciuto dalla globalizzazione e dalla crescente  perdita di lavoro a causa delle importazioni a buon mercato. Jorge Bustamante130, un esperto delle Nazioni  Unite per i diritti del lavoro, ha detto durante un’intervista al  Kyodo News “il razzismo e la discriminazione           128  DIENE DOUDOU, Racism, Racial Discrimination, Xenophbia and Related Forms of Intolerance. Follow‐up to an  Implementation of the Durban Declaration and Programme of Action. The United Nations Human Rights Council, 2008.  129 Dati rilevati dal sito www.factsanddetails.com/japan.php?itemid=6328&catid=18  

130 Dati rilevati dal sito www.notizieemigranti.com, sulla conferenza stampa tenuta nel marzo 2010, all’Onu Univesity 

basata  sulla  cittadinanza,  sono  ancora  troppo  comuni  in  Giappone,  sui  posti  di  lavoro,  a  scuola,  nelle  strutture  sanitarie  e,  persino,  per  quanto  riguarda  la  possibilità  di  prendere  in  affitto  un  appartamento”.  Verrebbe  dunque  da  pensare  che  il  Giappone  necessita  ardentemente,  alle  soglie  del  21esimo  secolo,  di  adottare  una  legislazione  capace  di  prevenire  ed  eliminare  il  problema  della  discriminazione  razziale,  considerato che l’attuale legge non ne  è in grado.  Questo soprattutto perché,  negli anni, molti interventi  poco  felici  sui  “non‐giapponesi”,  sono  arrivati  proprio  dai  dirigenti  politici;  un  esempio  può  essere  dato  dall’affermazione  di  Yasuhiro  Nakasone,  primo  ministro  conservatore  del  Giappone  nel  1980,  fece  arrabbiare  le  minoranze  residenti  nel  suo  Paese,  quando  si  riferì  al  Giappone  come  una  “Nazione  Omogenea”, dove non esisteva discriminazione semplicemente perché esiste “una sola ed unica etnia, uno  Stato  ed  una  lingua”.  Continuò  insultando  gli  americani  e  le  minoranze  americane,  quando  asserì  che  “il  livello  intellettuale  degli  americani  era  molto  inferiore  a  quello  giapponese  a  causa  della  presenza,  tra  di  loro, di neri, messicani e portoricani”131. Il governatore Shintaro Ishihara usò, per riferirsi agli immigrati, la  parola “sangokujin”, termine denigratorio, significante “paese del terzo Stato”. Fu un termine usato dopo la  seconda guerra mondiale per dire a cinesi e coreani di andar via dal Giappone. Accusò, inoltre, gli iraniani  residenti in  Giappone, di traffico  di  droga e gli immigrarti  cinesi di avere un ruolo  chiave nell’incremento  della criminalità organizzata. Sostenne, poi, che se i cinesi fossero rimasti ancora a lungo, ci sarebbe stata  un  “inquinamento  genetico”.  Questo  non  bastò,  aggiunse  che  tutti  coloro  che  erano  entrati  in  Giappone  illegalmente,  avevano  perpetuato  crimini  atroci132,  affermazioni,  naturalmente,  prive  di  qualsiasi  tipo  di  fondamento.                 131 Dati rilevati dal sito web www.facli.unibo.it/.../AppuntiTeraoMinoranzeGiapponedicembre2008.doc   132 Dati rilevati dall’analisi del sito web www.anidojo.net?p=1439  

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