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IL DIVIETO DI MODIFICARE IN PEJUS LE MANSIONI

I. 1.2 AL NUOVO ART 2103 DEL CODICE CIVILE

III.1 IL DIVIETO DI MODIFICARE IN PEJUS LE MANSIONI

Per ottenere un quadro complessivo del tema legato al demansionamento e comprenderne meglio la portata ci apprestiamo ora ad analizzare le vicende problematiche inerenti a questo ambito, quali lo svuotamento delle mansioni, le deroghe previste per legge, il danno eventualmente conseguente dalla dequalificazione e le forme di tutela a protezione del lavoratore. Innanzitutto è opportuno chiarire cosa si intende con il termine “demansionamento” e in quali situazioni si verifica l’esercizio illegittimo del potere di modifica delle mansioni in capo al datore di lavoro.

L’adibizione a mansioni inferiori non è esplicitamente prevista o vietata dalla norma civilistica sulle mansioni del lavoratore, ma, come si è più volte ribadito finora, dai limiti che condizionano l’utilizzo dello jus variandi è possibile ricavare per via interpretativa che la condotta del datore di lavoro che assegni mansioni diverse da quelle equivalenti o da quelle superiori sia illegittima per violazione di legge. Inoltre, nell’affrontare l’approfondimento sul secondo comma dell’art. 2103 c.c., si è sottolineato come tale previsione vada a rafforzare il carattere imperativo dell’intera previsione normativa, al punto da ritenere che il divieto della dequalificazione professionale risieda precisamente in questo secondo comma. Nella versione originaria dello stesso articolo era, al contrario, possibile l’accordo tra le parti che stabilisse una deroga in pejus. La pattuizione, dunque, era ammissibile con il consenso del lavoratore, sia che si trattasse di un consenso espresso sia che si verificasse per comportamento concludente. La rinnovata norma, che ha voluto preservare la dignità professionale del contraente debole del contratto, ha limitato l’autonomia negoziale delle parti sancendo la nullità di qualsiasi patto individuale o collettivo da cui derivasse una dequalificazione.

L’inferiorità delle mansioni, come per l’equivalenza, va valutata sotto il profilo della professionalità, pertanto non sono assegnabili quelle mansioni che presentino contenuto o valore professionale inferiore rispetto a quello delle mansioni di origine. Tuttavia, il

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rispetto della non inferiorità non si verifica solamente indagando il confronto tra diverse attività lavorative, ma anche e soprattutto tre le stesse mansioni, poiché in seguito ai mutamenti nell’organizzazione del lavoro dovute ad esigenze di flessibilità, queste potrebbero non essere più professionalmente equivalenti rispetto alle stesse ma eseguite precedentemente alla modificazione degli assetti produttivi. Nella verifica giudiziale del rispetto o della violazione del divieto di demansionamento è necessario inoltre, come ha affermato più volte la Corte di Cassazione, raffrontare le mansioni effettivamente assegnate con quelle proprie delle qualifica di appartenenza, in quanto la formale equivalenza delle mansioni vecchie e nuove non è sufficiente a scongiurare la violazione del divieto di modificazione in pejus, se di fatto vengono attribuiti compiti sostanzialmente inferiori. In questo caso, infatti, verrebbero ugualmente pregiudicate le competenze specifiche del lavoratore e la sua prospettiva di sviluppo di carriera, integrando quindi a tutti gli effetti un caso di demansionamento (Cass. 4 agosto 2000, n. 10284). Una precisazione ora è d’obbligo: il caso della dequalificazione professionale del lavoratore costituisce fattispecie diversa rispetto a quella della violazione dell’obbligo di equivalenza, perché mentre le mansioni inferiori sono sempre non equivalenti rispetto a quelle originarie, non è detto che mansioni non equivalenti siano sempre inferiori. A questo punto è necessario distinguere tra dequalificazione professionale a seguito di una riduzione “qualitativa” e riduzione “quantitativa” delle mansioni: se la giurisprudenza è concorde sul primo punto, ovvero sul fatto che il ridimensionamento del livello di professionalità integri sempre un caso di demansionamento, in quanto l’inferiorità della mansioni si misura proprio sul grado di professionalità, in relazione alla seconda questione si è discusso se la riduzione o sottrazione di compiti, di per sé, possa essere letta come una lesione alla dignità professionale del lavoratore. A riguardo si è espressa la giurisprudenza, con un orientamento ormai consolidato, affermando che la mera riduzione quantitativa di compiti non sia rilevante ai fini della dequalificazione, giacché l’equivalenza va verificata sulla base della qualità dei compiti eseguiti dal lavoratore. Tuttavia, esistono dei casi in cui anche il decremento quantitativo delle mansioni possa essere ricondotto ad una diminuzione qualitativa delle stesse, determinando, così, un danno alla professionalità del lavoratore81. Un caso di sottrazione delle mansioni è stato

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individuato anche nell’affiancamento del lavoratore, che da solo eseguiva una determinata mansione, ad un altro dipendente con le medesime attività lavorative. Si è precisato, come è ovvio, che l’affiancamento, da solo, non costituisce una fattispecie di demansionamento, ma che per accertarlo si rende necessaria una valutazione del giudice al fine di verificare se ciò comporti anche uno snaturamento qualitativo e quindi una lesione della professionalità del soggetto ai sensi dell’art. 2103 c.c.82

. Il datore di lavoro deve consentire al suo subordinato la conservazione ed, eventualmente, l’accrescimento del bagaglio professionale acquisito, cosa che, invece, non si verifica quando la riduzione quantitativa e insieme qualitativa delle mansioni determini la sottoutilizzazione professionale del lavoratore, costringendolo all’obsolescenza delle competenze lavorative possedute83. Rientrano in questa fattispecie anche le situazioni in cui il lavoratore sia costretto a forzata inattività (seppur senza intaccare la retribuzione), per effetto della riduzione totale dei compiti, in quanto la giurisprudenza riconosce nel lavoro «non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto»84. A tale opinione si giunge dalla lettura congiunta di due importanti principi costituzionali - l’art. 4 e l’art. 35 Cost. - che riconoscono il diritto al lavoro e la tutela del lavoratore come parte debole del contratto. Recentemente il ragionamento costituzionalmente orientato della giurisprudenza è stata oggetto di critiche85, in quanto il richiamo ai suddetti principi non si estenderebbe al punto da

1995, n. 276, in Riv. It. Dir, Lav., II, 1995, p. 825; Cass. 23 marzo 1999, n. 2744; Cass. 4 agosto 2000, n. 10284, in http://www.studiolegaleriva.it/public/cass-10284-2000.asp, Cass. 19 maggio 2001, n. 6856, in

http://www.ago.camcom.it/P42A1513C1365S1360T2/Sentenza-Corte-di-Cassazione-19-maggio-2001--n- -6856.htm. «(…) non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce

automaticamente in una dequalifìcazione professionale in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale - per natura, portata ed incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale - da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un conseguenziale impoverimento della sua professionalità».

82 Si veda Cass. 11 gennaio 1995, n. 276, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, II, pp. 825-827, con nota di I.

MILIANTI, Sottrazione di mansioni mediante affiancamento di altro lavoratore e dequalificazione

professionale. «La dequalificazione (…) deve essere accertata in relazione alle specifiche mansioni

svolte. Nel caso concreto, la Corte ha ritenuto che affiancare al lavoratore, che da solo e in via esclusiva svolgeva nell’azienda mansioni di alto livello, un altro soggetto comporti un abbassamento del livello professionale».

83 Cass. 11 luglio 2005, n. 14496, in Mass. Giur. Lav., 2006, p. 66. Precisa che non ogni modificazione

quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrare il demansionamento, «dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionali raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale, (…)»

84 Cass. 4 ottobre 1995, n. 10405, in Riv. It. Dir. Lav., 1996, II, p. 578, con nota di F. BANO. 85

C. PISANI, Commento all’art. 2103, in E. GABRIELLI (diretto da), Commentario del codice civile, 2013, p. 150.

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riconoscere il diritto del prestatore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione lavorativa. Sembra più convincente far rientrare il caso della totale privazione di compiti nella fattispecie della riduzione quantitativa e qualitativa delle mansioni, giacché si tratta pur sempre di una modificazione delle mansioni “per riduzione”. Infine, è inammissibile il mutamento di mansioni in pejus qualora questo sia disposto per motivi disciplinari: l’art. 7, comma 4° dello Statuto dei Lavoratori vieta, infatti, che vengano disposte «sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi nel rapporto di lavoro».