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LA TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ STATICA

I. 1.2 AL NUOVO ART 2103 DEL CODICE CIVILE

I.3 LA NULLITÀ DEI PATTI CONTRARI

II.1.1 LA TUTELA DELLA PROFESSIONALITÀ STATICA

Quello che andremo ad analizzare ora è il primo orientamento sorto nel periodo immediatamente successivo all’emanazione dello Statuto dei lavoratori, il quale presenta una visione rigida e statica nella ricostruzione dei caratteri che determinano la

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professionalità. La rigidità è il prodotto dell’influenza del clima culturale e del contesto economico degli anni ’70, fondato sul modello fordista-taylorista di organizzazione del lavoro, dove gli apparati produttivi risultavano fortemente verticalizzati e si enfatizzavano i vantaggi degli elementi di rigidità. Ci troviamo, infatti, in una fase economica di sviluppo ed espansione dove la rigidità non è vista solo nell’ottica di garantismo nei confronti del lavoratore, ma anche come strumento di promozione dell’occupazione. Ricordiamo, inoltre, che in quel periodo storico una parte della dottrina esaltava in maniera accentuata la rigidità dello statuto con la conseguente formulazione di teorie che «oltrepassavano visibilmente la lettura e la ratio della norma»42. Alcuni autori, infatti, sostenevano la soppressione dello jus variandi e la necessaria consensualità del lavoratore alla modifica delle mansioni, così da sottrarre il giudizio dell’equivalenza alla valutazione unilaterale del datore di lavoro43

. Tesi, questa, solo episodicamente sostenuta e negata dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, per le quali la sopravvivenza dello jus variandi, sebbene con caratteri differenti rispetto al precedente potere, sarebbe indiscussa. Nonostante venga riconosciuto il potere in capo al datore di lavoro, la giurisprudenza tende comunque, almeno in un primo momento, ad abbracciare impostazioni più radicali, riducendo quindi i margini dello jus

variandi. Ne deriva, dunque, una lettura rigida dell’inciso all’art. 2103 c.c., il quale

garantirebbe una protezione minima della posizione acquisita dal lavoratore e allo stesso tempo non imporrebbe al datore di lavoro obblighi di tipo promozionale44. Nelle numerose sentenze della Cassazione a favore della rigidità della norma si ribadisce più volte che, affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti, non è sufficiente che appartengano allo stesso livello d’inquadramento professionale, ma è altresì necessario che «le mansioni di destinazione consentano l'utilizzazione ovvero il perfezionamento e l'accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto» (Cass. 29 settembre 2008, n. 24293). Da qui è possibile ricavare i primi tratti caratteristici dell’equivalenza professionale di tipo statico: il bene da salvaguardare risulta essere il “saper fare” del lavoratore, ovvero il bagaglio di esperienze, capacità e conoscenze che questo ha sviluppato nel corso del

42 F. BIANCHI D’URSO, La mobilità “orizzontale” e l’equivalenza delle mansioni, in Quad. Dir. Lav.

Rel. Ind., 1987, I, p. 119.

43 In dottrina la tesi della consensualità della modifica delle mansioni è sostenuta da G. SUPPIEJ, Il

rapporto di lavoro: costituzione e svolgimento, p. 308 e ss.

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rapporto di lavoro pregresso. Di conseguenza, nel rispetto del limite dell’equivalenza la professionalità acquisita dal lavoratore che già possiede deve essere utilizzata anche nel successivo ambito mansionistico imposto dal datore di lavoro. Viceversa, qualora la spostamento del lavoratore da una mansione ad un’altra comportasse uno stravolgimento o una arretratezza del patrimonio professionale posseduto, allora l’equivalenza non potrebbe dirsi realizzata. È evidente che la tesi, così esposta, tende a garantire una tutela assoluta al lavoratore attraverso il mantenimento della sua posizione professionale, seguendo una linea di carriera di tipo continuativo ed omogeneo. Difatti, in questo ordine di idee, si presuppone che le nuove mansione assegnate al prestatore di lavoro debbano essere di contenuto professionale omogeneo rispetto a quelle esigibili precedentemente. La Cassazione precisa che la tutela della professionalità pregressa debba rispondere a due requisiti contemporaneamente, quello oggettivo e quello soggettivo, complementari tra loro, per cui la verifica della presenza dell’equivalenza delle mansioni è sottoposta a “doppio controllo”. L’equivalenza soggettiva costituisce il criterio secondo il quale durante il rapporto di lavoro la carriera del soggetto deve mantenersi su una linea professionale omogenea e di continuità nelle mansioni svolte. Di conseguenza, le attività lavorative di nuova assegnazione, per essere considerate equivalenti alle precedenti, devono presentare gli stessi contenuti professionali ed «armonizzarsi con le capacità acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo». L’affinità professionale delle mansioni è una garanzia per il lavoratore, che gli permette di utilizzare le competenze possedute, impedendo al datore di sottoutilizzare le capacità acquisite da questo nel rapporto di lavoro. L’equivalenza oggettiva, invece, non rimanda alla caratteristiche della persona del lavoratore, ma alla serie dei compiti che costituiscono la mansione. Per cui, affinché sia rinvenibile l’equivalenza di tipo oggettivo, le mansioni dovrebbero essere riconducibili al medesimo livello d’inquadramento professionale (o “area professionale”45

) e presentare lo stesso trattamento economico riservato alle mansioni di origine.46 Il requisito oggettivo non è

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Con il termine “area professionale” si intende l’insieme delle mansioni che presuppongono le stesse conoscenze teoriche e capacità pratiche, che il lavoratore dovrà utilizzare per la conservazione del patrimonio professionale acquisito (Cass. 4 ottobre 1995, n. 10405, in Riv. It. Dir. Lav., 1996, II, p. 578).

46 Cass. 15 febbraio 2003, n. 2328: «L'equivalenza delle mansioni che a norma dell'art. 2103 Cod. civ.

condiziona la legittimità dell'esercizio dello jus variandi — e che costituisce oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in cassazione, ove sorretto da una motivazione logica, coerente e completa — va verificata sia sotto il profilo oggettivo, e cioè in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione, sia sotto il profilo soggettivo, che implica

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sufficiente a dichiarare il rispetto della regola dell’equivalenza, in quanto all’interno della medesima categoria contrattuale, ma anche della qualifica, sono presenti mansioni di tipo eterogeneo sia dal punto di vista della professionalità sia per quanto attiene al valore della mansione stessa. Secondo questa concezione, dunque, la professionalità non solo non coincide con il livello classificatorio, ma nemmeno con l’area professionale47

. Per questo motivo, tale giudizio deve essere affiancato alla concreta valutazione del tipo di professionalità richiesta dal lavoratore nell’esecuzione delle mansioni a cui è stato destinato. Pertanto, nel momento in cui il giudice viene chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’utilizzo dello jus variandi nell’adibizione a mansioni equivalenti, deve valutare sia l’aspetto oggettivo dell’equivalenza sia quello soggettivo, quindi «senza limitarsi al rispetto del formale inquadramento del lavoratore», ma procedendo «anche all’esame del corredo di nozioni, abilità ed esperienze richieste ed utilizzabili nelle nuove mansioni» (Cass. 20 marzo 2004, n. 5651). Solo questo tipo di comparazione delle funzioni precedenti con quelle attuali consente di evitare l’elusione del diritto al rispetto delle competenze e professionalità maturate dal lavoratore. Inoltre, il giudice non dovrebbe limitarsi a verificare solo formalmente gli aspetti suddetti, ma indagare sull’effettiva utilizzazione del bagaglio professionale acquisito e posseduto dal lavoratore nell’esecuzione delle nuove mansioni esigibili48

.

Il limite più importante della visione rigida dell’equivalenza professionale è il conseguente ed inevitabile ridimensionamento dell’area della mobilità orizzontale permessa. Questo non solo va a svantaggio dell’imprenditore a cui viene preclusa la possibilità di organizzare in maniera dinamica la forza lavoro, ma allo stesso tempo penalizza anche il lavoratore stesso, in quanto non viene valorizzato il suo interesse ad una diversificazione delle proprie abilità che lo porterebbero di fatto ad aumentare la

l'affinità professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall'interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi.». Sullo stesso orientamento si vedano anche Cass. 8 febbraio 1985, n. 1038, in Riv. It. Dir. Lav., 1985, II, p. 714; Cass. 11 dicembre 2003, n. 18984; Cass. 3 luglio 2001, n. 9002; Cass. 1 settembre 2000, n. 11457.

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F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, p. 179. Sulla doppia chiave dell’equivalenza (oggettiva e soggettiva) si veda anche A. GARILLI, A. BELLAVISTA, Innovazioni

tecnologiche e statuto dei lavoratori, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1989, VI, p. 177.

48 Cass. 30 luglio 2004, n. 14666: « (…) nell'indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il

riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali. A tal fine l'indagine del giudice di merito deve essere volta a verificare i contenuti concreti dei compiti precedenti e di quelli nuovi onde formulare il giudizio di equivalenza (…) ».

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professionalità e continuare il percorso di carriera. Non potendo il datore di lavoro, nell’esercizio dello jus variandi in senso orizzontale, adibire il subordinato a mansioni che richiedano competenze tecniche e professionali diverse da quelle già possedute, si escludono automaticamente dal novero delle possibili mansioni esigibili quelle che prevedono la spendita di abilità e capacità aggiuntive e ulteriori da quelle acquisite precedentemente. La rigidità di tale impostazione tutta volta a valorizzare la sola prestazione lavorativa eseguita in passato porterebbe, inoltre, a creare le condizioni del licenziamento del lavoratore qualora, nel ristretto ambito delle mansioni equivalenti, venissero a mancare le posizioni lavorative a cui tale lavoratore potesse essere assegnato. In tale prospettiva, inoltre, è evidente che non rimane molto spazio alla contrattazione collettiva, giacché si trova anch’essa vincolata da tale limite ristretto. Nonostante i molti punti a sfavore che l’interpretazione rigida presenta, quello appena presentato è l’orientamento che ha avuto maggiore seguito per lungo tempo a cominciare dalla prima fase di decorrenza dello statuto, ma che anche recentemente, come vedremo, ha avuto qualche consenso dalla giurisprudenza49.