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Il paradigma del “paesaggio intenzionale”

L’approccio al paesaggio: esempi nel cinema moderno

5.2 Il paradigma del “paesaggio intenzionale”

Tra gli esempi che meglio illustrano il primo paradigma ci sono quei film che citano specifici quadri, come “ Brama di vivere” di Vincent Minnelli ( Lust for Life 1956) o “ Sogni” di Akira kurosawa ( Dreams 1990). Con differenti stratagemmi, entrambe i film riproducono visivamente dei famosi paesaggi di Van Gogh. Il film di Minnelli mostra ripetutamente l’artista al lavoro che trasforma il paesaggio reale in un paesaggio pittorico, mentre questo spazio è offerto come ambientazione. Quindi dal punto di vista narrativo esso serve a situare l’azione di una scena, in questo caso l’azione di dipingere, il suo status di paesaggio pittorico famoso mostrato mentre esso viene dipinto dall’artista, incoraggia contestualmente l’emergere del paesaggio autonomo nel film, anche se solo momentaneamente. Chiaramente il film fornisce allo spettatore i significati necessari per contemplare il paesaggio e compararlo con i famosi dipinti la cui creazione è rappresentata nella narrativa stessa del film. Differentemente dal caso di Barry Lyndon, il paesaggio cinematografico qui dipende ancora dal paesaggio pittorico. La differenza si sostanzia nel fatto che lo spettatore riconosce una citazione pittorica del regista che viene interamente attribuita al film. Il processo è identico al “ tableau- shot” (plan tableau) identificato da Pascal Bonitzer come “quel piano isolabile dalla continuità del montaggio e particolarmente segnato dalla sua dimensione plastica, che rappresenta e dà vita ad un incontro tra cinema e pittura” (Solomon M. , 2011) , Natali parla di piano-

paesaggio, che individua, proprio come il plan-tableau, in

quell’inquadratura che, arrestando il flusso narrativo, si definisce per la sua essenziale a-narratività. Proprio come il plan-tableau, anche il

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plan-paysage, laddove esso s’integra alla finzione, ne diviene un

elemento importante, ma in una maniera del tutto particolare e segreta. Questo processo, come Bonizer enfatizza, è dato da numerose variazioni, una in particolare si può riconoscere in Kurosawa nel segmento intitolata “Crows”, qui il protagonista, durante la contemplazione di alcuni quadri, entra letteralmente dentro l’universo paesaggistico dipinto da Van Gogh. Il passaggio dalla sala di un museo al mondo rappresentato nei quadri dell’artista, si arricchisce narrativamente con il desiderio del protagonista di incontrare fisicamente Van Gogh all’interno dei paesaggi da lui ritratti. Questo lato narrativo rischia costantemente, nella mise en scène, di essere offuscato dal lato contemplativo, in accordo con il continuo fluire e rifluire nella mente dello spettatore di narrativa e spettacolarità, e sotto la pressione costante e la contaminazione estetica che deriva dalla presenza dei paesaggi di Van Gogh e dall’integrazione fisica del protagonista all’interno di essi. Questa integrazione si manifesta in due modi: nel primo il protagonista compie un viaggio ideale indietro nel tempo per osservare i paesaggi reali al tempo di Van Gogh (alcuni dei quali riconoscibili nei quadri dell’artista); nel secondo il protagonista entra letteralmente dentro i quadri dando vita ai paesaggi e alle scene ritratte. Nell’ultimo espediente che domina la parte centrale del segmento, con una serie di effetti speciali, il protagonista attraversa sette diversi paesaggi di Van Gogh. Il risultato è un prodotto ibrido a metà strada tra il dipinto ( o disegno) e il cinema, che ricorda il film di animazione. Data la presenza dell’elemento narrativo e seguendo il personaggio che si sposta da un paesaggio dipinto ad un altro, si potrebbe dedurre che il paesaggio acquisisca maggiormente il carattere di ambientazione perdendo quello di opera d’arte. Già l’uso

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di dipinti paesaggistici permette allo spettatore di restituire ad ognuno di questi il volere di paesaggio sebbene essi siano adesso soggetti alla durata cinematografica: essi sono adesso paesaggi cinematografici. Un metodo differente e meno tecnologico viene usato all’inizio e alla fine del segmento, dove il protagonista passa dal Pont de Langlois situato ad Arles ai campi di grano di Auvers sur Oise, la magia dell’interpretazione del montaggio rende contigui nelle finzione scenica momenti e spazi che in realtà sono disgiunti. La transizione dalle tele sulle pareti del museo al paesaggio reale, che segna anche il passaggio dal linguaggio pittorico a quello filmico, è portata a termine attraverso un intenzionale gioco di mimesi: un’inquadratura del quadro è seguita dalla sua riproduzione filmica in vita “ reale” . Il passaggio viene creato da uno stacco e una breve pausa durante la quale la telecamere resta immobile di fronte al dipinto. Lo stesso processo agito all’inverso, chiude l’episodio. In entrambe i casi lo steso film ci fornisce i significati attraverso i quali far emergere il paesaggio filmico già valorizzato dalla co-presenza dei capolavori di Van Gogh e dalla loro riproduzione filmica. Tuttavia lo status di paesaggio filmico non è legato esclusivamente agli spazi connessi ai quadri di Van Gogh. Il gioco intertestuale di citazioni pittoriche, assieme con altri elementi formali presenti nel segmento ( come l’uso ripetuto di lunghe inquadrature, un montaggio che favorisce i tempi morti e un tessuto narrativo talmente semplici da poter essere abbandonato e ripreso con facilità) sembra incoraggiare lo spettatore nel saltare avanti e indietro tra ambientazione e paesaggio. Non vi è alcun dubbio sul fatto che i registi hanno a loro disposizione diverse strategie per fare esperire in modalità spettacolarizzata il film (o parti di esso) allo spettatore, e per dirigere la loro attenzione verso i luoghi

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e gli spazi in maniera tale da affrancare questi ultimi dalla subalternità all’ aspetto narrativo. Come visto precedentemente in Brama di

Vivere, queste strategie possono essere anche integrate all’interno

della storia stessa. Ad esempio la presenza, all’interno della storia, di un personaggio che osserva un paesaggio, può portare lo spettatore stesso a contemplarlo. Tra i numerosi esempi si può citare la scena del film Gli Spostati nella quale Marilyn Monroe alla vista del paesaggio del Nevada, esclama “ è un sogno”, esclamazione seguita da una lunga panoramica soggettiva della telecamera. Qui il segmento della costruzione narrativa ( inquadratura soggettiva che mostra l’oggetto commentato dal personaggio) e la sua costruzione visuale ( una lunga inquadratura) può indurre lo spettatore a prestare attenzione allo spazio attraverso il proprio punto di osservazione, trasformando come detto l’ambientazione in paesaggio vero e proprio.

In breve, ogni strategia che mira a dirigere l’attenzione dello spettatore verso gli spazi esterni e le ambientazioni piuttosto che verso le azioni e gli eventi che vi prendono luogo, può essere attribuita all’intenzione precisa di enfatizzare il paesaggio. Assolvono a tale funzione alcuni stacchi ( comuni nel cinema classico) o anche dei cosiddetti “ tempi morti” ( maggiormente utilizzati nel cinema moderno). Ovviamente, quanto più la strategia in questione sarà integrata nella diegesi, tanto minore risulterà la percezione dell’interruzione dell’aspetto narrativo a favore di quello contemplativo. È questo il caso di diversi stacchi presenti nel cinema classico. Per stacco s’intende quella inquadratura che indica un cambio spazio - temporale dell’azione all’interno della narrativa; esso è spesso accompagnato da effetti ottici come la dissolvenza in apertura

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o in chiusura, ma può essere ottenuto anche con semplici tagli strategici. Gli stacchi possono essere localizzati in diversi punti del film, inclusi l’inizio e la fine dove possono servire ad indicare i confini spaziali della diegesi. Un famoso esempio è Barry Lyndon, dove Kubrick usa l’immagine della residenza di Lady Lyndon, Hackton House, come leitmotiv per introdurre i diversi segmenti che vi si svolgono. La minima funzione narrativa di queste inquadrature consiste nell’assicurare la transizione tra due segmenti e nel presentare la nuova ambientazione dell’azione, senza perdere il carattere rappresentativo e descrittivo del paesaggio. Appare verosimile attribuire a Kubrick l’intenzionalità nel descrivere paesaggi che, come quello in questione, ricordano famosi dipinti. Gli stacchi del cinema classico, nei quali l’azione è generalmente assente o ridotta al minimo, possono quindi essere usati per dirigere l’attenzione dello spettatore verso gli spazi. A dispetto del puro pretesto narrativo legittimato dall’economia della diegesi ( il passaggio da un segmento all’altro e l’introduzione di un nuovo setting) esso permette all’ambientazione di diventare paesaggio.

In conclusione si può affermare che quanto più un paesaggio manifesterà un livello di distacco dalla storia tanto più esso sarà connesso ad un certo livello di modernità. Questa è la modernità dello spettacolo cinematografico: la modernità dell’attrazione, della frammentazione dell’eterogeneità, è questa la ragione per la quale, anche nei film più classici e narrativi, il paesaggio filmico contribuisce alla modernità della pellicola, anche se solo al nostro sguardo, allo sguardo dello spettatore. Quest’ultima affermazione spiega perché il cinema classico prova costantemente a contenere il

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paesaggio all’interno della funzione narrativa attraverso inquadrature soggettive e stacchi. Non bisogna sorprendersi dunque, nel vedere il paesaggio incorporato nel linguaggio visivo di diversi registi modernisti o all’interno dell’estetica avanguardistica di numerosi film-

maker sperimentali.