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Il pasto Un rituale collettivo

3. Situazioni narrative

3.2. Il pasto Un rituale collettivo

Se da un lato la situazione narrativa delle “gite fuori porta” si contrappone a quella ambientale delle città, dall'altro il rituale

collettivo del pasto – cerimoniale “di gruppo”, creatore di spazio

sociale, attività appunto rituale362 –, consumato generalmente tra le

mura domestiche, è correlato ai “luoghi abitativi” del capitolo precedente ed è dunque presente anche in alcuni lungometraggi già trattati. Per esempio sono state analizzate tre opere – nell'ordine,

Gosford Park di Altman, El angel exterminador di Buñuel, The Dead di

Huston – in cui le sequenze della condivisione del pasto sono significative anche e soprattutto dal punto di vista della messa in scena della coralità. Si ricordino in Altman i pranzi e le cene in cui vengono contrapposti i mondi di servi e padroni; in Buñuel l'“incubo” narrato ha inizio proprio con una cena che si protrae troppo a lungo e durante la

quale iniziano a verificarsi strani accadimenti363; infine per quanto

riguarda Huston è già stata analizzata la lunga sequenza della cena, con la macchina da presa che stacca da un personaggio all'altro e con i campi totali che avvolgono l'intera tavolata. In questi tre film, la situazione in questione, pur funzionale, rimane parte di un “insieme

362 Cfr. Mary Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita

sociale, traduzione di Eleonora Bona, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 165-67. Il volume raccoglie saggi tratti da due raccolte: Implicit Meanings. Essays in Anthropology del 1975 e In the Active Voice del 1982.

363 Inevitabile – in questa particolare sezione in cui si approfondisce la situazione del

pasto – è il collegamento con il posteriore La Grande bouffe (La grande abbuffata, 1973) di Marco Ferreri, che mette in scena però solo quattro personaggi (un giudice, un pilota, un ristoratore, un produttore televisivo), decisi a compiere un suicidio erotico-gastronomico chiusi in una villa parigina, che «si trasforma ben presto in una scatola buñueliana», da Alberto Scandola, Marco Ferreri, Milano, Il Castoro, 2003, p. 99. Ferreri anticipa un altro lungometraggio in cui il rituale e la condivisione del pasto è centrale – anche se, scrive Viviana Lapertosa, «non è il tema del cibo o il discorso sull'alimentazione, a essere affrontato, ma piuttosto un'accezione molto particolare dell'espressione “mangiare”», da Viviana Lapertosa, Dalla fame all'abbondanza. Gli italiani e il cibo nel cinema italiano dal dopoguerra a oggi, Torino, Lindau, 2002, p. 159 – , ma dove ancora una volta sono sempre solo quattro le figure (quattro fascisti, che rappresentano i quattro poteri) al centro del dramma: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, ispirato al manoscritto del 1785 Les 120 journées de Sodome, ou l'École du libertinage del marchese de Sade. La situazione della condivisione del pasto, in Ferreri e in Pasolini, è inoltre differente, poiché il rituale non ha soste, non è momento di ri- unione, ma una sorta di costante “flusso”, quasi senza senza interruzioni.

corale” messo in evidenza da altri aspetti più efficaci, tra cui, appunto, la rappresentazione dei “luoghi” e il rapporto che intercorre tra i

personaggi e lo spazio in cui essi si muovono364.

Ancora una volta – come già per The Cat and the Canary di Leni,

Grand Hotel di Goulding, La Règle du jeu di Renoir e The High and the Mighty di Wellman – è un “film-archetipo” dell'argomento approfondito

in questa sezione: Dinner at Eight (Pranzo alle otto, 1933) di George

Cukor365. La trama è semplice e più o meno linearmente sviluppata:

Millicent, moglie snob di Oliver Jordan, armatore malato e prossimo al fallimento, organizza una fastosa cena di gala, invitando l'anziana, ricca e grassa attrice Carlotta Vance, il capitano d'industria Dan Packard, con la bionda e sciocca moglie Kitty al seguito, il medico di famiglia Talbot con la consorte Lucy, l'attore ormai sul “viale del tramonto” Larry Renault e una coppia di poveri parenti, che prende il posto dei due ricchi inglesi, per i quali Millicent ha inizialmente organizzato l'evento. Due padroni di casa e otto invitati, circondati da altri personaggi, “secondari” ma significativi (la cameriera dei Jordan, la “servetta” di Kitty, la figlia e l'agente di Larry, etc.).

Alla base del film di Cukor è un'omonima pièce del 1932 di Edna Ferber e George S. Kaufman, e il regista mantiene l'impianto teatrale dell'opera: i personaggi entrano ed escono “di scena” a turno, attraverso la porta della sala; porta che alla fine del film si chiude, come un sipario di fronte allo spettatore. Scrive a questo proposito Carlos Clarens: «The episodic structure discourages any ensemble acting, but there are some superior star turns which, more than the precision of each entrance and exit, give the picture its heightened theatrical tone»366.

364 Un ultimo esempio: in Domenica d'agosto di Emmer – esaminato a proposito della

situazione narrativa della “gita fuori porta” – l'intera giornata è scandita nei suoi momenti salienti, e uno di questi è il pranzo, durante il quale i nuclei (familiari, di amici, etc.) si riuniscono, condividendo una pausa dai divertimenti.

365 Uscito in Italia anche con il titolo Una cena speciale. Si ricordi inoltre l'omonimo

remake del 1989 di Ron Lagomarsino.

366 Carlos Clarens, George Cukor, London, BFI, 1976, p. 39 [«La struttura a episodi

non lascia spazio a un'azione “di gruppo”, ma ci sono alcune importanti svolte da parte di alcuni personaggi che forniscono al film il suo accentuato tono teatrale, più

L'intera vicenda – ambientata a New York nel 1929, dopo il crollo della Borsa di ottobre – è sviluppata nell'arco di una settimana, durante la quale i personaggi vengono uno alla volta introdotti, presentati e sviluppati separatamente, ciascuno nel proprio ambiente. Nel corso della narrazione emergono relazioni, rivalità, curiosità: Carlotta è stata in passato amante di Oliver, Larry non ha nemmeno i soldi per pagare l'albergo ed è incapace di dialogare con la figlia Paula, il “trafficante” Dan ha causato la rovina finanziaria di Oliver, Kitty è l'amante del dottor Talbot, la figlia dei Jordan ha una relazione con Larry, Millicent – nonostante i problemi economici e di salute del marito – si preoccupa solo dell'organizzazione e della riuscita della cena.

Nel finale si ritrovano finalmente tutti insieme – fatta eccezione per l'alcolizzato Larry (John Barrymore in un ruolo semi- autobiografico), che (fuori campo) si toglie la vita, disilluso dal suo stesso agente Max Kane – per l'agognata cena, nascosta, fuori campo e fuori dalla storia: il film si conclude prima che i commensali si siedano a tavola. Significativamente, dopo un racconto a incastri che descrive sempre due o tre personaggi per volta, solo una delle ultime inquadrature, un totale della sala da pranzo, racchiude tutti gli invitati a cena, rappresentanti di una borghesia statunitense medio alta, spogliata delle apparenze e dei trucchi del perbenismo: il “fascino discreto”, già negli anni Trenta di Cukor, in piena depressione economica, è smascherato in una commedia corale, sgradevole nel sarcasmo “alla

George Bernard Shaw”367, tragicamente ironica e malinconicamente

sprezzante.

Si è anticipato nel capitolo precedente che El angel exterminador di Buñuel è accostabile per diversi aspetti – su tutti, gli atti mancati o reiterati della borghesia – al successivo (di un decennio) Le Charme

discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia, 1972).

I pasti mancati del terzultimo film di Buñuel scandiscono infatti il racconto (sceneggiato con Jean-Claude Carrière), determinando

della precisione di ogni entrata e uscita (di scena)», traduzione mia].

l'esistenza e la quotidianità di una borghesia incarnata nei sei

personaggi principali – «Six Characters in Search of a Meal»368, li

definisce Rebecca Pauly: don Raphael, ambasciatore a Parigi dell'immaginaria “Repubblica delle banane” di Miranda, i Thévenot, ovvero l'uomo d'affari François, la moglie Simone e la cognata Florence, e la coppia formata da Henri Sénéchal e dalla moglie Alice.

La «messa in scena buñueliana […] struttura una serie di elementi ideologici e politici su una serie di avvenimenti ripetitivi, ma non fornisce allo spettatore indicazioni per una lettura orientata in un'unica

direzione»369, scrive Cristina Bragaglia. In questa sede, interessa in

particolare sottolineare come i nove ostacoli, che interrompono i nove pasti (talvolta semplici merende) dei personaggi, vadano a sovvertire l'ordine e la ritualità della borghesia, coralmente incarnata nei sei protagonisti.

Per proporre qualche esempio, già nelle prime sequenze, sono due le cene mancate, neanche iniziate: quella a casa dei Sénéchal, che a causa di un disguido viene spostata in un ristorante, dove però è deceduto nel pomeriggio il proprietario e dunque non è opportuno disturbare. Due tentativi fallimentari, perché «non si completa mai nulla, nelle relazioni fra gli esseri strampalati che si alternano sulla scena del film, e tutto è sempre rinviato»370, sottolinea Fernaldo Di

Giammatteo. Vi è poi il mancato tè pomeridiano che le tre donne – «like the three Graces or Charities of Greek mythology, the three main women characters […] stroll through life inspiring awe and reverence

among the various male characters who intrude on their lives»371, scrive

368 Rebecca Pauly, A Revolution Is Not a Dinner Party: The Discrete Charm of Buñuel's

Bourgeoisie, «Literature/Film Quarterly», vol. 22, n. 4, 1994, p. 233 [«Sei personaggi in cerca di un pasto», traduzione mia]. E Pirandello è evocato anche nella sequenza della cena a teatro, in cui gli invitati sono costretti a recitare alcune battute – che ignorano – dal sesto atto del dramma del 1844 Don Juan Tenorio di José Zorrilla.

369 Cristina Bragaglia, Sequenze di gola. Cinema e cibo, Fiesole (Firenze), Cadmo,

2002, p. 29.

370 Fernaldo Di Giammatteo, Milestones, cit., p. 283.

371 Peter William Evans, The Indiscreet Charms of the "Bourgeoises" and Other

Women, in Peter William Evans – Isabel Santaolalla (a cura di), Luis Buñuel: New Readings, London, BFI, 2004, p. 145 [«come le tre Grazie o le Cariti della mitologia greca, i tre personaggi femminili principali […] passeggiano attraverso la vita, ispirando soggezione e rispetto tra i vari personaggi di sesso maschile che si intromettono nella loro vita», traduzione mia].

Peter William Evans – non riescono a consumare, poiché il cameriere le avverte che è tutto esaurito: tè, caffè, latte, tisane. In un successivo appuntamento irrompe un colonnello dell'esercito a spezzare il rituale, e anche il tentativo di riparare al danno fallisce: l'invito a casa dello stesso colonnello si rivela “finto” – un gioco, uno scherzo –, e i borghesi si ritrovano sul palcoscenico di un teatro, senza “sapere la parte” che devono recitare. E se i pasti sono costantemente interrotti (o neppure iniziati), i «luoghi del cibo (case, ristoranti, sale da tè) rappresentano il proscenio in cui viene recitata l'eterna commedia della

celebrazione di status di una classe superiore, o che tale si ritiene»372.

Il cibo – prima e basilare necessità umana – è dunque, scrive Auro Bernardi, «ritualizzato da queste persone la cui intera esistenza è circoscritta in un ambito quasi liturgico di incontri, adulteri, sotterfugi

e bassezze»373. Perché «l'ironia buñueliana colpisce i luoghi abituali del

rituale e permette di scoprire “l'uso” che di tali cerimonie fa la borghesia, il perbenismo ipocrita e la falsa rispettabilità che informano

di sé il rituale borghese»374, sottolinea ancora Cristina Bragaglia. E il

continuo rimandare e annullare i pasti è evidente metafora dell'impotenza (del potere) della borghesia, spaesata e inconcludente – si pensi alle tre camminate senza meta, da un nulla a un altro nulla, che interrompono il racconto. Il film è, in breve, costruito sulle tipiche tematiche buñueliane (sesso, morte, satira delle maggiori reazionarie istituzioni), in un surreale intreccio caratterizzato da flashback, improvvise interruzioni, onirismo, “realismo quotidiano e stravaganza fantastica”375, a creare – con le parole di Giuseppe Gabutti – un

«mosaico della realtà con le intrusioni del sogno»376.

Tornando alla questione della coralità, ai sei personaggi principali ne va poi aggiunto un settimo: il “vescovo-operaio”, assunto dai Sénéchal come giardiniere e al quale viene concesso via via sempre

372 Alberto Natale, Food Movies. L'immaginario del cibo e il cinema , Bologna, Gedit,

2009, p. 62.

373 Auro Bernardi, Luis Buñuel, cit., p. 312.

374 Cristina Bragaglia, La realtà dell'immagine in Luis Buñuel, cit., p. 122. 375 Cfr. Raymond Lefèvre, Luis Buñuel, Paris, Edilig, 1984, p. 141.

376 Giuseppe Gabutti, Luis Buñuel. L'utopia della libertà, Roma, Edizioni Paoline,

maggior spazio – come nell'episodio del moribondo, con il quale vengono recuperate suggestioni (nient'altro, dal momento che conclusione e ideologia di fondo sono variate) sadiane (in particolare

Dialogue entre un prêtre et un moribond del 1782), non nuove in

Buñuel: il prete perdona, ma l'uomo si vendica. Tra le altre indirette influenze letterarie, si ricordi Hamlet di Shakespeare, di cui il regista – con il racconto del sogno del militare che, istigato dalla madre, uccide il padre – stravolge le interpretazioni freudiane; o ancora, in merito al meccanismo narrativo, Manuscrit trouvé à Saragosse di Jan Potocki, con i suoi giochi e incastri tra le storie raccontate da più personaggi, e la novella Don Juan, contenuta nella raccolta del 1814 Fantasiestücke

in Callots Manier (Racconti fantastici alla maniera di Callot) di E.T.A.

Hoffmann, in cui lo scrittore tedesco racconta di essere trascinato nel sonno direttamente su un palco dove assiste alla rappresentazione del

settecentesco Don Giovanni di Mozart377.

Concludendo, citando Pino Bertelli, «il film è la dilatazione spazio/temporale di appuntamenti mancati, pranzi interrotti, follie e vendette consumati da una cosca borghese lungo il cammino dissolutivo, effimero della loro esistenza. Le otto storie si innestano (tra

digressioni e ammiccamenti) nel conforme e rituale borghese»378. Se

negli otto blocchi narrativi viene dato spazio alternativamente prima a un personaggio poi a un altro, essi si ritrovano tutti insieme solo, e appunto, in occasione del pasto da consumare, puntualmente reiterato, rimandato, annullato.

Per quanto riguarda l'Italia, Ettore Scola è certamente il regista che meglio esprime, nell'arco del ventennio degli anni Ottanta e Novanta, una certa forma di coralità legata al rituale del pasto. Roberto Nepoti accosta giustamente in un saggio i tre film cosiddetti “corali” di Scola – La terrazza (1980), La famiglia (1987), La cena (1998) –, identificando alcune relazioni tra le opere in questione, in particolare

377 Cfr. Alberto Cattini, Luis Buñuel, cit., pp. 108, 113.

378 Pino Bertelli, Luis Buñuel. Il fascino discreto dell'anarchia, Pisa, Biblioteca Franco

Serantini, 1996, p. 112. Cfr. Anche Pino Bertelli, Cinema dell'eresia. Gli incendiari dell'immaginario, Santa Giustina (Rimini), NdA Press, 2005, pp. 74-76.

«la pluralità e coralità della rappresentazione, i modelli di diegesi spaziale e temporale, la volontà di mettere in scena l'evoluzione

dell'antropologia culturale italiana»379.

Una breve e necessaria digressione. Nepoti non include tra le opere corali di Scola Le Bal (Ballando ballando, 1983): pur non motivando la decisione, compie un'esclusione appropriata. Il lungometraggio percorre – attraverso musiche e balletti – mezzo secolo di storia francese, divisa in cinque atti (che si concentrano su momenti storici salienti, in particolare la vittoria del Fronte popolare del 1936, l'occupazione nazista del 1940, la liberazione del 1945, il 1956 e gli echi del conflitto in Algeria, il Sessantotto), in una balera della periferia parigina nel 1984. Ispirandosi all'omonima opera teatrale del 1980, allestita dal Théâtre du Campagnol di Jean-Claude Penchenat, Scola mette in scena, senza dialoghi, ventitré attori, mimi e ballerini (che interpretano in tutto circa centoquaranta personaggi), in una sala da ballo che si trasforma in un “microcosmo storico”. Nonostante l'elevato numero di personaggi, il film non si può definire corale nel significato qui condiviso, poiché il protagonista è uno solo: la Storia (o, se si preferisce, la Cronaca). Roberto Ellero sostiene che i movimenti di macchina hanno il pregio di «tenere costantemente a fuoco la coralità e

gli individui, mediante un uso accorto di “totali” e di “particolari”»380,

ma non vi è alcuna indagine psicologica: i muti personaggi sulla scena non si possono forse neanche definire tali, nel momento in cui divengono semplici pedine di un puzzle, storico appunto, più ampio.

Tornando ai film “corali” – e rimandando opportunamente al terzo capitolo l'analisi di La famiglia –, il momento del pasto ha funzione specifica sia in La terrazza sia in La cena – tappe fondamentali sia nella filmografia di Scola sia nell'elaborazione del concetto di coralità cinematografica –, con diverse modalità di messa in scena e differenti risultati nello sviluppo dell'intreccio e nella rappresentazione della coralità dei personaggi.

379 Roberto Nepoti, Famiglie, terrazze, cene: i film “corali” , in Vito Zagarrio (a cura

di), Trevico – Cinecittà. L'avventuroso viaggio di Ettore Scola , Venezia, Marsilio, 2002, p. 197.

Nella prima delle due opere, Scola ritrae – con la collaborazione alla sceneggiatura di Age e Scarpelli – una Roma “radical-chic”, incarnata in particolare in cinque personaggi: Enrico, interpretato da Jean-Louis Trintignant, sceneggiatore in crisi che si arrende alla stesura di una “facile” commedia a episodi, ma poi si tempera letteralmente – e simbolicamente – un dito e finisce ricoverato; il giornalista politico Luigi (Marcello Mastroianni), che cerca di riallacciare i rapporti (si sono separati da pochi giorni) con la moglie, donna avviata a una carriera televisiva381; il depresso funzionario della RAI Sergio (Serge

Reggiani), ex romanziere di successo, che perde la vita sotto la neve finta di uno studio televisivo – rievocando la morte del pilota Mastroianni nel citato La Grande bouffe; Amedeo (Ugo Tognazzi), ignorante (confonde allegoria con allegria, Capitan Nemo con Memo, etc.) e volgare produttore cinematografico, con un passato da comparsa in film mitologici; e infine l'onorevole Mario Dorazio (Vittorio Gassman), deputato adultero – la giovane amante Giovanna è interpretata da Stefania Sandrelli – del PCI. Almeno altri tre personaggi fungono da ulteriore collante alle cinque storie principali (veri e propri episodi con un incipit e una conclusione comune): Galeazzo, attore comico in declino, da poco tornato disilluso dal Venezuela, dove credeva di trovare la “Mecca del Cinema”; un arrogante critico cinematografico, sempre pronto a sciorinare la propria opinione; la diciassettenne Isabella, che vaga per la terrazza, costantemente alla ricerca del fidanzato, figlio dei padroni di casa, e discorrendo un po' con tutti.

Il film si apre e si chiude – la macchina da presa prima si avvicina poi si allontana lentamente – con un campo totale della terrazza, “luogo-simbolo”, di un attico, cornice dove si presenta sin da subito una situazione collettiva (si incontrano amici, conoscenti, colleghi, parenti, formando una sorta di instabile “gruppo di famiglia”), da cui hanno

381 Nell'episodio dedicato a Luigi sono significativi due momenti: nel primo, mentre

discute con la moglie, la macchina da presa stacca per inquadrare altri personaggi (Scola non vuole abbandonare nessuno), mentre si continuano a udire le loro voci; il secondo è la sequenza di un'altra cena – altro “difficile” pasto – sempre tra i due, serviti da un anziano e tremante cameriere, che Luigi è “costretto” ad aiutare.

inizio gli sviluppi narrativi, e dove, qualche mese dopo, essi trovano un amaro epilogo in cui nulla, nonostante le svolte talora significative, sembra essere cambiato.

La struttura del film, con la stessa serata presentata da cinque angoli visuali diversi, a seconda del personaggio scelto come protagonista – rievocante la tecnica di The Killing (Rapina a mano

armata, 1956) di Stanley Kubrick –, permette di rivelare l'essenza della

storia da più punti di osservazione382. E la circolarità del racconto

sembra rendere i personaggi – scrivono Pier Marco De Santi e Rossano

Vittori – «claustrofobicamente prigionieri dei loro vizi»383.

Sin dall'inizio è evidente l'impianto polifonico dell'opera: frammenti di dialoghi, voci sovrapposte, discorsi interrotti caratterizzano quello che può essere definito il “prologo”, prima che il regista inizi a seguire Enrico, il primo dei personaggi a essere indagato. I cinque, con un montaggio che adotta efficaci ellissi, sono seguiti anche nei giorni e nelle settimane successive alla cena introduttiva, nella quale funge da leitmotiv la frase «È pronto, venite», pronunciata dalla padrona di casa sei volte: oltre alla prima, di carattere introduttivo, per altre quattro volte quelle tre parole interrompono il racconto e riavvolgono automaticamente gli eventi, fornendo al regista la possibilità di cambiare “punto di vista” – terminologia in questo caso impropria, dal momento che tutti gli intrecci sono comunque raccontati impersonalmente. E infine la medesima frase apre metacinematograficamente – si ode la voce che grida “ciak”, avviando le riprese – l'epilogo, che vede riuniti (fatta eccezione per lo sfortunato Sergio) tutti i personaggi.

Sulla terrazza – e nel corso del film – si parla di tutto. Vengono,

382 Cfr. Antonio Bertini (a cura di), Ettore Scola. Il cinema e io, Roma, Officina, 1996,

pp. 155-56. The Killing è tratto dal romanzo Clean Break di Lionel White e racconta l'organizzazione di una rapina a un ippodromo messa in atto dall'ex detenuto Johnny Clay, affiancato da numerosi altri personaggi (complici e non), ognuno dei quali fornisce la propria “visione dei fatti”. Ma Kubrick – o, meglio, il Jack Torrance di

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