• Non ci sono risultati.

2. Situazioni ambiental

2.2. Luoghi abitat

Concentrandosi su luoghi abitativi quali l'appartamento, la casa o il palazzo, la villa o il castello, in cui la coralità è manifesta e legata alla specificità dello spazio chiuso, e l'ambiente diviene a sua volta funzionale personaggio di cui l'opera non può fare a meno, è necessario – prima di giungere al cinema del secondo dopoguerra – soffermarsi su tre lungometraggi significativi, anche e soprattutto, dal punto di vista della rappresentazione della coralità all'interno di spazi circoscritti: The

Cat and the Canary (Il castello degli spettri, 1927) di Paul Leni, Grand Hotel (id., 1932) di Edmund Goulding e La Règle du jeu (La regola del gioco, 1939) di Jean Renoir.

Il film di Leni è il primo dei quattro lungometraggi girati a Hollywood dal regista tedesco, che porta oltre oceano alcuni stilemi del cinema espressionista. Tratta dall'omonimo dramma teatrale del 1922 di John Willard – pièce della quale si accentuano gli aspetti comici – e sceneggiata da Robert F. Hill e Alfred A. Cohn, l'opera diviene modello per la cosiddetta categoria “Old Dark House”, influenzando il cinema horror degli anni Trenta prodotto dalla Universal e il filone delle

cosiddette “case stregate”142.

Nella primissima inquadratura, una ragnatela lascia spazio alla vicenda e una didascalia introduce i fatti, spiegando la metafora del titolo originale: «On a lonely, pine-clad hill overlooking the Hudson, stood the grotesque mansion of an eccentric millionaire […] Medicine could do nothing more for Cyrus West, whose greedy relatives, like cats

around the canary, had brought him to the verge of madness»143.

142 Il film è inoltre parodiato in The Laurel & Hardy Murder Case (1930) di James

Parrott e rielaborato in The Cat Creeps (1930) di Rupert Julian, La voluntad del muerto (1930) di George Melford ed Enrique Tovar Ávalos, The Cat and the Canary (Il fantasma di mezzanotte, 1939) di Elliott Nugent e The Cat and the Canary (Il gatto e il canarino, 1978) di Radley Metzger.

143 «Su una collina solitaria, ricoperta di pini, che sovrasta l'Hudson, si erge la bizzarra

magione di un eccentrico miliardario […] La medicina non può più nulla per Cyrus West, che i suoi avidi parenti, come gatti intorno a un canarino, hanno portato sull'orlo della pazzia» (sub ita dell'edizione dvd Ermitage). L'immagine è ripresa in seguito durante la lettura del testamento: «My relatives have watched my wealth as if they were cats and I... a canary» [«I miei parenti hanno osservato il mio stato di

La trama è semplice e lineare: in quanto eredi, s ei personaggi vengono convocati in un tetro castello per la lettura del testamento di Cyrus West, morto vent'anni addietro. Tra ospiti (la sorella Susan, la figlia Cecil, i nipoti Harry Blythe, Charlie Wilder e Paul Jones, la lontana congiunta Annabelle West), domestici (tra cui la signora Pleasant) e “intrusi” (il notaio, una truce guardia, a caccia di un maniaco rifugiatosi nella zona), dieci sono i personaggi principali, anche se Annabelle (Laura La Plante), ultima a giungere al castello, è forse il perno – nonché nome di richiamo nei titoli di testa – intorno al quale ruotano il complotto e le inquietanti vicende.

Prima ancora che gli ospiti compiano il loro ingresso in scena, una soggettiva dell'ignoto maniaco attraversa i corridoi e le stanze della magione, dove troviamo tende mosse dal vento, porte socchiuse, un quadro che si stacca dalla parete (cattivo presagio, nell'incombere della notte), i fili del telefono tagliati, una mostruosa mano che esce da una finta parete e rapisce Mr. Crosby o turba il sonno di Annabelle: tutti fattori che completano il quadro di situazioni da film “dell'orrore”.

Il film di Leni, nella prima parte, è ambientato perlopiù nella grande stanza dove avviene la lettura del testamento, mentre, nella seconda, nelle singole camere dove gli ospiti si ritirano e negli oscuri androni attraverso i quali si inseguono “fantasmi in carne e ossa”. Uno spazio chiuso, il castello, circoscrive dunque unità di tempo (sempre scandito da orologi e lancette) e di luogo (non si esce dai lunghi corridoi e dalle buie stanze) ben definite; mentre i personaggi, su cui Leni sofferma la macchina da presa secondo gli stilemi del tempo – dai volti allungati ai giochi di luci e ombre, tutto contribuisce a un claustrofobico senso di oppressione –, non vedono mai la luce del sole; fino allo svelamento finale della macchinazione, che riconduce le atmosfere da “cinema dell'orrore” su un piano prettamente giallistico – Pino Bruni scrive a proposito di “parodia dell'orrore”144 –, in cui le salute come se fossero stati dei gatti e io... un canarino», sub ita]; e dalla finta guardia che è stata pagata per incastrare Annabelle e spaventare gli ospiti del castello: «He's a maniac who thinks he's a cat, and tears his victims like they were canaries» [«È un maniaco che crede di essere un gatto, e squarta le sue vittime come se fossero canarini», sub ita].

influenze letterarie gotiche, in particolare per quanto riguarda l'ambientazione, sono evidentemente molteplici: da The Castle of

Otranto del 1764 di Horace Walpole a The Mysteries of Udolpho del

1794 di Ann Radcliffe, mentre la metafora del gatto e del canarino sembra richiamare – se non altro nel titolo – un racconto di Edgar Allan Poe, e il ripetuto campo lungo del gotico (e finto) castello, minacciosamente avvolto dalla nebbia, così come la figura del cocchiere, che non vuole fermarsi nelle vicinanze nemmeno per pochi secondi, sono chiaramente debitori di Nosferatu, Eine Symphonie des

Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922) di Murnau, adattato da Dracula

del 1897 di Bram Stoker.

Grand Hotel (1932) di Edmund Goulding è tratto dal romanzo del

1929 Menschen in Hotel della viennese Vicki Baum145, a proposito del

quale Camilla Baresani scrive:

«Certi romanzi, magari stipati di personaggi, hanno come principale protagonista la cornice narrativa o il luogo in cui si svolgono […] Grand

Hotel è anzitutto un romanzo corale intriso di decadenza individuale e storica

[…] Nei cinque giorni della narrazione, la vita dell'albergo conferisce stabilità alle esistenze altrimenti slabbrate di un gruppo di persone che vivono in un senso di disfatta personale, illuse o disilluse»146.

Il Grand Hotel è ispirato all'Adlon di Berlino, dove sono effettivamente ambientati, nel 1928, sia il romanzo sia il lungometraggio che a esso si ispira. Se il titolo originale letteralmente significa “Gente in albergo” e si concentra dunque sui personaggi, la traduzione (inglese prima, francese e italiana a seguire) «Grand Hotel» privilegia il luogo, sorta di “eroe eponimo”, protagonista implicito

Chieti, Libreria Universitaria, 1996, p. 65.

145 Adattato anche per il teatro nel 1930, in Germania da Gustav Gründgens e negli

Stati Uniti da William A. Drake (anche sceneggiatore del film) e Herman Shumlin. Il romanzo è riletto in chiave propagandista nel dramma populista – in cui l'originale coralità svanisce nei soli due protagonisti – Hotel Berlin (Hotel Berlino, 1945) di Peter Godfrey e rivisitato con Menschen in Hotel (1959) di Gottfried Reinhardt. Si ricordi anche, per la medesima ambientazione, Hotel (Intrighi al Grand Hotel, 1967) di Richard Quine, dall'omonimo romanzo del 1965 di Arthur Hailey.

146 Camilla Baresani, Un secolo al Grand Hotel, «Il Sole 24 Ore. Domenica», 28 marzo

dell'opera. Scrive Mario Rubino a proposito del romanzo:

«Non c'è un protagonista principale e le vicende dei sei personaggi vengono riferite in parallelo, nel loro intrecciarsi lungo i quattro giorni in cui si svolge l'azione: una scelta narrativa in cui è evidente l'influsso di

Manhattan Transfer di Dos Passos, che era stato tradotto in tedesco nel 1927

e il cui modello di group novel Vicki Baum fu tra le prime ad adottare»147.

Il pensiero di Matthew Kennedy in merito al film è similare («Grand Hotel was a landscape, with a scope and a structure never seen

before in an American movie»148), anche quando ricorda le parole dello

stesso regista: «Grand Hotel is one of the few stories ever written where no single character dominates, but where at least five are equally important to the story structure […] These five leading parts are

uniform. None dominates the other»149. E – approfondisce James Hay –

«il moderno hotel di lusso è stato canonizzato e celebrato come mito. Qui la “grandeur” dell'albergo si manifesta come una metaforica sala degli specchi che ingrandisce e raddoppia le paure e i desideri dei

personaggi»150.

Sei i personaggi principali del romanzo, cinque quelli del film, anche se i titoli di testa ce ne presentano sette: «Greta Garbo as Grusinskaya, the dancer, John Barrymore as the baron [Geigern], Joan Crawford as Flaemmchen, the stenographer, Wallace Beery as General Director Preysing, Lionel Barrymore as Otto Kringelein, Lewis Stone as Doctor Otternschlag, Jean Hersholt as Senf, the porter». Con Grand

Hotel, ci si trova di fronte nello stesso tempo all'archetipo e al prototipo

del film cosiddetto all star, e non ci si affida a un solo protagonista o a una coppia, ma a vicende parallele che si incrociano, in cui non prevale

147 Mario Rubino, Una scrittrice di prim'ordine fra quelle di seconda qualità , in Vicki

Baum, Menschen in Hotel [trad. it. Grand Hotel, cura e traduzione di Mario Rubino, Palermo, Sellerio, 2009, pp. 421-22].

148 Matthew Kennedy, Edmund Goulding's Dark Victory: Hollywood's Genius Bad Boy,

Madison, University of Wisconsin Press, 2004, p. 109 [«Grand Hotel era uno scenario di una portata e una struttura mai visti precedentemente in un film statunitense», traduzione mia].

149 Ibid. [«Grand Hotel è una delle poche storie mai scritte in cui non un singolo

personaggio prevale, ma dove almeno cinque sono ugualmente importanti per la struttura della storia […] Questi cinque ruoli principali sono uniformi. Nessuno domina sugli altri», traduzione mia].

nessun volto, nessuna storia.

Il sovrapporsi polifonico di voci irrompe già con la prima inquadratura, dall'alto: una carrellata ritrae un “esercito” di centraliniste al lavoro, i cui volti non si riconoscono, le cui parole non si capiscono, in un vociare ininterrotto e caotico che prelude al viavai continuo e al caos che crea la cornice alle vicende. Con la sequenza successiva i personaggi vengono presentati uno a uno, mentre, al telefono, raccontano al proprio invisibile interlocutore (lo spettatore stesso?) le vicissitudini che li hanno condotti sin lì. E il dottor Otternschlag riassume in poche parole, all'inizio, parlando tra sé, la non-storia che si svolge tra quelle mura: «People coming, going. Nothing ever happens»151. E ancora aggiunge in seguito: «What do you do in the

Grand Hotel? Eat, sleep, loaf around, flirt a little, dance a little, a hundred doors leading to one hall. No one knows anything about the person next to them. And when you leave, someone occupies your

room, lies in your bed. That's the end»152.

Il finale cinematografico tradisce in parte quello del romanzo: se infatti nel film troviamo solo le parole malinconiche del dottore («Grand Hotel, always the same. People come, people go. Nothing ever

happens»153), nell'opera di Baum ci imbattiamo prima nel dottore («È

terribile. […] Tutto sempre uguale. Non succede nulla»154), poi nel

tirocinante Georgi, che rimugina «un paio di pensieri ingenui e profondamente banali. “Che meraviglioso viavai in un grande albergo come questo! […] È davvero impressionante. Succede continuamente qualcosa. Uno l'arrestano, un altro passa nel mondo dei più, uno parte, un altro arriva […] Tutto sommato, è proprio interessante. D'altro

canto, è così che è la vita...”»155.

Poi, come il romanzo si dissolve con l'ultima frase («La porta

151 «Gente che viene, che va, tutto senza scopo», dialoghi ita.

152 «E che cosa si fa in un Grand Hotel? Si mangia, si dorme, si gironzola, si corteggia

qualcuna, si balla un po', cento porte sfociano in un atrio. Nessuno sa nulla di chi gli è accanto. E, quando parti, un altro occupa la tua stanza e anche il tuo letto. Così finisce», dialoghi ita.

153 «Grand Hotel, sempre lo stesso. Gente che viene, gente che va. Tutto senza scopo»,

dialoghi ita.

154 Vicki Baum, Grand Hotel, cit., p. 412. 155 Ibid.

girevole ruota su se stessa, e non smette di girare, girare, girare...»156),

così il film finisce sulla stessa immagine, con un'inquadratura della porta girevole, simbolo di continuità e circolarità allo stesso tempo, perché la vita prosegue e altre storie passeranno dal Grand Hotel, alternandosi e intrecciandosi, a Berlino come a Parigi (dove Otto fugge con Flaemmchen), perché – afferma il povero malato – «there's a Grand

Hotel everywhere in the world»157.

Su La Règle du jeu (1939) di Jean Renoir tanto è già scritto e tanti sono gli aggettivi con cui è stato etichettato: provocatorio e sarcastico, feroce e disperato, etc.

Una breve premessa. Il film – fantaisie dramatique, come l'autore

lo presenterà, in una versione posteriore, nei titoli di testa158 – è girato e

ambientato a Sologne, in Francia – le regole del gioco del titolo sono naturalmente le regole della società aristocratica e borghese, mondo dal

quale tra l'altro il regista proviene159. Diverse sono le ascendenze

letterarie a cui si richiama il regista: Alfred de Musset, innanzitutto, e il suo Les Caprices de Marianne, opera teatrale apparsa nel 1833 in «La Revue des Deux Mondes». Il poeta e drammaturgo francese, in cui confluisce una lunga tradizione europea (da Boccaccio a Machiavelli a Shakespeare), fornisce a Renoir lo spunto per quell'impasto di amori e intrighi, dispetti e tragedie che troviamo nella sua tragicommedia – o

«drame gai»160, “dramma allegro”, come lo definisce Bazin. Oltre a de

Musset, il regista si inspira anche a Le Jeu de l’amour et du hasard, del 1729, di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux – «La complexité et l'interpénétration des relations entre maîtres et valets renvoient directement à Marivaux dont les personnages, même s'ils appartiennent

156 Ivi, p. 413.

157 «C'è sempre un Grand Hotel dovunque si vada», dialoghi ita.

158 Si legge inoltre: «Ce divertissement, dont l'action se situe à la veille de la guerre de

1939, n'a pas la prétention d'être une étude de mœurs. Les personnages qu'il présente sont purement imaginaires» [«Questo spettacolo, in cui l'azione si svolge alla vigilia della guerra del 1939, non pretende di essere uno studio su usi e costumi. I personaggi che presenta sono puramente immaginari», traduzione mia].

159 Cfr. Fernaldo Di Giammatteo, Milestones. I trenta film che hanno segnato la storia

del cinema, Torino, UTET, 1998, pp. 124-25.

à des classes sociales différentes, se retrouvent parfois dans une quête

commune de bonheur»161, scrivono Arturo e Carlos Horcajo –, mentre

viene in generale ripresa la struttura teatrale del vaudeville e della

pochade, entrambi generi “leggeri”162. Ma sempre a proposito delle

suggestioni letterarie, afferma Dudley Andrew:

«The Romantic fiction of Hugo, Dickens, Dumas, and countless lesser figures originally set the stylistic requirements of American and mainstream French cinema at the end of the silent era. Similarly Zola and Maupassant, always of interest to french cinéastes, helped Jean Renoir muscularly reorient the style of world cinema in the 1930's»163.

James Hay – riferendosi a Grand Hotel – scrive giustamente che «i film degli anni Venti, la cui azione si svolgeva in un hotel di lusso o in un luogo di villeggiatura o su un transatlantico, offrivano una dialettica piuttosto superficiale quanto al conflitto tra le parti sociali. I personaggi di questi film appartenevano di solito al medesimo gruppo alto-

borghese, così come nel teatro naturalista precedente»164; ebbene sono

passati anni, e nel film di Renoir non è più così: nell'arco di un week- end, nel castello del marchese de La Chesnaye, personaggi di varie classi sociali intrecciano i propri drammi, i propri sentimenti, e – ricorda Carlo Felice Venegoni – «il continuo muoversi della macchina

161 Arturo Horcajo – Carlos Horcajo, "La Règle du jeu" et le théâtre, in AA.VV.,

Analyses & Réflexions sur... Jean Renoir. "La Règle du jeu" , Paris, Ellipses, 1998, p. 14 [«La complessità e la compenetrazione delle relazioni tra padroni e servi ruotano direttamente intorno a Marivaux, a partire dal quale i personaggi, anche se appartenenti a diverse classi sociali, a volte si trovano in una comune ricerca della felicità», traduzione mia].

162 Non casualmente viene citata in apertura la scena X dell'atto IV di Le Mariage de

Figaro (1778) di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, in particolare la canzone di Basilio: «Cœurs sensibles, cœurs fidèles, / Qui blâmez l'amour léger, / Cessez vos plaintes cruelles: / Est-ce un crime de changer? / Si l'Amour porte des ailes, / N'est- ce pas pour voltiger? / N'est-ce pas pour voltiger? / N'est-ce pas pour voltiger? » [«Cuor sensibili, cuor fedeli / che l'amor leggero odiate, / cessate i lai crudeli: / non è crimine cangiar. / Se l'Amore ha forme alate / non è tal per svolazzar? / Non è tal per svolazzar? / Non è tal per svolazzar?», da Le nozze di Figaro, traduzione di Felice Filippini, Milano, Rizzoli, 1953, p. 146].

163 Dudley Andrew, Concepts in Film Theory, Oxford, Oxford University Press, 1984,

p. 105 [«La narrativa romantica di Hugo, Dickens, Dumas e di innumerevoli figure minori ha originariamente stabilito i criteri stilistici del cinema mainstream americano e francese, alla fine dell'era del muto. Allo stesso modo Zola e Maupassant, sempre di interesse per i cineasti francesi, hanno fortemente indirizzato Jean Renoir nel riorientare lo stile del cinema mondiale negli anni Trenta», traduzione mia].

da presa è sollecitato […] dalla complessità stessa del soggetto, che avvolge su più piani diverse storie intrecciate in modo armonioso e

narrativamente funzionale»165.

Afferma Vieri Razzini, dopo aver definito mozartiano il film: «Secondo lo schema del teatro del Settecento, i personaggi si dividono in tre categorie: i signori, gli intrusi, i servi»166. Renoir usa – scrive

sempre Andrew – una «molteplicità di punti di vista per mettere a fuoco con nettezza il clima spirituale della Francia poco prima che inizi il

primo conflitto mondiale»167. Sotto questa luce, il film rientra a pieno

titolo nell'ambito della coralità e i personaggi vengono introdotti uno a uno: prima l'aviatore André Jurieu (che atterra all'aeroporto di Parigi – unica sequenza ambientata fuori dalla proprietà del marchese), poi Octave (interpretato dallo stesso Renoir); la voce della telecronista funge quindi da tramite, trasporta lo spettatore direttamente nella villa, dove troviamo Christine (austriaca moglie del marchese, amante di André e circondata da spasimanti) e la cameriera Lisette, il guardiacaccia Schumacher, il simpatico bracconiere Marceau, Geneviève, disincantata amante del marchese, e infine Robert. Coppie si creano, altre si disfano, i ceti sociali si fondono senza pudore per tutto il corso del film, in una “commedia degli equivoci”, il cui numero dei personaggi è potenziato e direttamente proporzionale alla confusione in cui tutti si trovano invischiati. Giorgio De Vincenti conferma:

«Secondo una modalità ricorrente in Renoir […] anche La Règle du jeu è costruito all'insegna della coralità. Non solo sono molto più che abbozzate le parti di contorno, dai domestici al generale, dall'omosessuale alla pianista, da Jackie a Saint-Aubin e ai La Bruyère, ma il numero degli stessi protagonisti, ben otto, è assai più elevato di quanto non avvenga normalmente nella costruzione di un testo cinematografico. Ciascuno di loro è sviluppato simultaneamente in due direzioni: quella che li vuole personaggi a tutto tondo, dotati di un proprio vissuto e di caratteristiche, anche psicologiche,

165 Carlo Felice Venegoni, Jean Renoir, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 68.

166 Vieri Razzini, Sul film, intervista contenuta nell'edizione dvd Teodora – Flamingo

Video. Ed è una efficiente schematizzazione già presente – è stato sottolineato – in The Cat and the Canary di Leni.

167 Dudley Andrew, Cinema francese: gli anni Trenta, traduzione di Giuliana Muscio,

in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. L'Europa. Le cinematografie nazionali, vol. III.1, Torino, Einaudi, 2000, p. 471.

ben tracciate; e quella che li ridefinisce continuamente nelle relazioni reciproche, le quali finiscono per costituire un tessuto vivacissimo, dotato di una sua autonomia, come una ragnatela di per se stessa significante: la vera e propria regola del gioco»168.

E se ogni personaggio incarna un differente stato sociale – per esempio, citando Pierre Guislain, «le personnage de La Bruyère, propriétaire d'une usine à Tourcoing, incarne cette aristocratie qui se

veut résolument moderne, à la page, en phase avec son temps»169 –, lo

spettatore non è passivo nel rapportarsi all'intreccio di storie e personalità: «Ce sont tous de personnages que le spectateur doit compléter: ils tirent leur existence de celle que le spectateur choisit de leur accorder. En inscrivant ses personnages dans l'espace codifié de la

Documenti correlati