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Il PCI tra governo e opposizione «legale»

2. Il PCI nel dopoguerra

2.2 Il PCI tra governo e opposizione «legale»

Il 1946 fu l'anno delle grandi scadenze elettorali. In primavera una serie di successi alle elezioni amministrative illuse dirigenti e militanti: l'obiettivo per le elezioni dell'Assemblea Costituente divenne così molto ambizioso: diventare il primo partito della classe operaia e, insieme al PSI, conquistare più della metà dei seggi. Le elezioni per l'Assemblea Costituente delinearono il PCI come un partito con una base prevalentemente rurale, di braccianti e mezzadri, forte soprattutto nei centri di media dimensione. La conquista dei ceti medi, che era uno degli obiettivi fondamentali legati alla costruzione del «partito nuovo», non si era verificata, né la politica moderata di partecipazione al governo aveva portato un risultato elettorale all'altezza delle aspettative. Inoltre il partito manteneva un carattere da organizzazione di combattimento: era infatti forte soprattutto nelle zone battute dal lavoro dei quadri dirigenti del partito e attraversate dalle lotte sindacali.88 Infine, i risultati del referendum non furono, com'era nelle previsione dei comunisti, un plebiscito a favore della Repubblica.

La presenza del PCI al governo fu caratterizzata da tre fasi: la prima, fino al governo Parri, cioè durante la Resistenza; la seconda fase terminò con l'elezione dell'Assemblea Costituente. Tra il giugno 1946 e il maggio 1947, la terza fase della presenza comunista al governo, l'azione comunista fu frenata dall'esigenza di rimanere al governo e da una scarsa dimestichezza con la macchina-stato.

Nel 1947 si crearono le condizioni interne e internazionali che determinarono l'estromissione del PCI dal governo. Nel periodo compreso tra l'uscita dal governo e le elezioni dell'aprile 1948, il PCI condusse da un lato una dura opposizione e dall'altro proseguì la discussione in seno all'Assemblea Costituente, fino all'approvazione della Costituzione.

Nella prima parte del 1948 la situazione politica fu dominata dalla

88 R. Martinelli, Storia del partito comunista italiano, vol. VI, Il «partito nuovo» dalla

campagna elettorale, vissuta come abbiamo visto come scontro finale e resa dei conti, sul piano internazionale; sul piano interno essa fu incattivita dalla cacciata delle sinistre dal governo.89

La campagna elettorale fu condotta dal PCI sulla base di due linee fondamentali: l'una affidava la capacità di raccogliere consensi al movimento di massa: quindi agitazioni politiche, sindacali e agrarie che fossero capaci di coinvolgere più strati sociali nella lotta; l'altra linea affidava più importanza alle forme di propaganda tradizionali, e mirava ad ottenere consensi più per il partito che per il Fronte. Era questa una strategia che puntava ad ottenere un cambiamento degli equilibri elettorali allo scopo di avviare una trasformazione delle basi economiche e sociali del paese.90

Una circostanza che mostra bene l'atteggiamento tenuto dal PCI nel corso della campagna elettorale fu il colpo di stato comunista in Repubblica Ceca, sfruttato propagandisticamente dalla DC e rivendicato in blocco dal PCI. Forti della loro visione della DC come mero strumento nelle mani dei reazionari e degli imperialisti, i comunisti, su «l'Unità», come vedremo, rivendicarono i fatti di Praga, paragonandoli alla guerra civile in Spagna, in Grecia e in Cina. Secondo la loro lettura, la stessa cosa sarebbe avvenuta in Italia se avesse vinto la DC.91

La prima fase della campagna elettorale fu caratterizzata da un certo pessimismo nella dirigenza del partito, per la lentezza nella costruzione del Fronte a livello locale e per l'incomprensione, presso la base, del significato del blocco con i socialisti: esso doveva essere non un espediente elettorale, ma movimento di masse organizzate, che doveva essere allargato il più possibile per raggiungere obiettivi politici, economici e sociali concreti.92

Il tentativo da parte dei comunisti di presentare lo scontro elettorale come una battaglia tra le masse lavoratrici e i ceti medi contro la DC, baluardo dei ceti

89 Ibid., p. 336. Cfr. E. Novelli, Le elezioni del Quarantotto. Storia, strategie e immagini della

prima campagna elettorale repubblicana, Donzelli, Roma 2008.

90 R. Martinelli, Il «partito nuovo» dalla Liberazione al 18 aprile, cit., p. 339. 91 Ibid., p. 341.

reazionari, si rivelò controproducente. Il clima di tensione cresceva costantemente e la base del partito si convinse progressivamente della certezza della vittoria, coinvolgendo nell'euforia gli stessi dirigenti comunisti e socialisti.

Togliatti impostò la campagna sulla base dell'asserita continuità tra il 2 giugno e il 18 aprile: secondo la visione del segretario soltanto la vittoria del Fronte poteva condurre alla realizzazione del contenuto sociale della Costituzione e proseguire dunque nella direzione avviata dall'istituzione della Repubblica e dall'approvazione della Costituzione. Però se da una parte la DC veniva identificata come il baluardo delle forze conservatrici e reazionarie, dall'altro Togliatti rilanciava la proposta di collaborare dopo le elezioni,93 dato che come abbiamo visto l'alleanza frontista tra i partiti di massa era un presupposto fondamentale nell'ottica della «democrazia progressiva».

Le elezioni del 18 aprile ebbero un valore periodizzante, in quanto fissarono i rapporti di forza tra i due maggiori partiti italiani e conclusero i processi di assestamento politico-sociali del triennio postbellico.94 La sconfitta elettorale del PCI fu frutto essenzialmente dell'incapacità del Fronte di attrarre il consenso dei ceti medi. Di fatto il Fronte ricalcava nei suoi risultati elettorali la geografia del PCI, il quale a sua volta si era sostituito al PSI nelle sue roccaforti dell'Italia centrale.95 La contrapposizione frontale, la minaccia di guerra civile, aveva giovato alla DC e aveva inoltre drenato consensi al PSI.96

La reazione dei dirigenti comunisti in primo luogo fu offensiva: Togliatti denunciò che brogli, ingerenze americane e vaticane avevano di fatto reso non libere le elezioni.97 D'ora in poi il segretario ripeterà in tutte le sedi, pubbliche e di partito, che un risultato ottenuto in condizioni tanto avverse non era da considerarsi disastroso e che anzi era un successo. Nonostante queste premesse Togliatti chiarì ai propri militanti che l'obiettivo del partito non era la conquista

93 Ibid., p. 346. 94 Ibid., p. 349. 95 Ibid., p. 350. 96 Ibid., p. 351. 97 Ibid., p. 354.

violenta del potere ma la lotta democratica in tutte le sue declinazioni: parlamentare, extra parlamentare, politica, sindacale.98 Anzi proprio il considerare la DC come un agente della reazione e del capitale spingeva a ribadire il carattere democratico della politica del PCI,99 e rendeva il Partito Comunista il principale sostenitore dell'applicazione dei principi costituzionali.

Il 18 aprile segnò quindi la fine della prima fase della storia del PCI nel dopoguerra e dette l'avvio a una nuova ondata di agitazioni nel paese e ad uno scontro durissimo con la polizia e con il governo. Le conseguenze negative della sconfitta elettorale si manifestarono anche con la scissione della CGIL e con l'intensificarsi della crisi del PSI.

L'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 fu un altro avvenimento decisivo nelle vicende del PCI di questi anni. Lo sciopero generale spontaneo che seguì e i moti di rivolta che ne derivarono segnarono l'esaurirsi del ciclo resistenziale, che aveva avuto degli strascichi con fucilazioni e regolamenti di conti, in particolare nel cosiddetto «triangolo della morte».100 La repressione governativa segnò il definitivo ritorno del monopolio della violenza nelle mani dello Stato.

La posizione del PCI di fronte ai moti popolari fu di rincorsa e troppo vaga: da un lato esso fece da moderatore delle pulsioni insurrezionali, rendendole di fatto vane ed evitando esasperazioni. Dall'altro la richiesta di dimissioni dell'intero governo rese tutta la mobilitazione inutile dal punto di vista dei risultati, dato che, all'indomani di elezioni così nette, ciò era un risultato impossibile da ottenere. Così facendo espose il movimento a una dura repressione, nelle piazze e nei tribunali. Ne seguì nel partito la constatazione della propria impotenza nei confronti dei meccanismi istituzionali. Questo rafforzò la sensazione di sfiducia e di isolamento, confermando le impreparazioni dell'iniziativa comunista rispetto al funzionamento concreto della macchina

98 Ibid., p. 366. 99 Ibid., pp. 354-355.

100G. Gozzini, R. Martinelli, Storia del partito comunista italiano, VII, Dall'attentato a Togliatti

statale.101

Nel biennio 1949-50 si verificò nel paese un'ulteriore radicalizzazione dello scontro sociale sia nel mondo agricolo che in quello industriale. A ciò si aggiunse la scomunica di Pio IX, determinata dal clima da «seconda Lepanto» causato dalle repressioni antireligiose che stavano avvenendo nei paesi dell'Europa centro-orientale.102 Il PCI rispose minimizzando e chiamando alla mobilitazione i lavoratori cattolici, sulla base della distinzione tra «chiesa delle gerarchie» e «chiesa dei credenti». In realtà la scomunica non ebbe un effetto rilevante sulle coscienze e all'isolamento politico dei comunisti non corrispose analoga emarginazione nella società.103