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IL PRINCIPIO SPERANZA E L’UTOPIA RADICALE

1. L’utopia in discredito e il principio speranza

Fin dalla sua invenzione, la parola “utopia” ha goduto di una cattiva fama. La finzione narrativa di una convivenza armoniosa su un’isola che non c’è o di uno stato perfetto in una terra immaginaria, ovvero di una società ideale in un passato o in un futuro impro- babile, è stata per lo più considerata una fantasia chimerica e un esercizio letterario avventato e pericoloso. Così quando la parola ha cominciato a indicare ogni concezione di rapporti sociali radi- calmente diversi da quelli attualmente esistenti come progetto per un movimento di pensiero, di opinione o di azione politicamente rilevante, non si è persa occasione per denunciarne o per metterne in ridicolo l’astrattezza e l’irrealizzabilità1. Tanto maggiore è diventata

la sicumera di coloro che dal 1989 in poi hanno ripetutamente pro- clamato la morte definitiva dell’utopia davanti alle macerie del muro di Berlino e dell’impero sovietico, identificando nel tentativo abor- tito di realizzazione del socialismo marxista la forma più forte, an- che se inconfessata, e proprio per questo unica e tragica, di progetto utopico storicamente efficace, per quanto in definitiva fallimentare.

1 L’uso generalizzato di “utopia” nel senso di progetto ideale (irrealizzabile) è attestato, almeno in tedesco, solo a partire dal 1831. E già uno dei primi autori che impiega il termine in questo senso critica l’utopia come vana speranza, as- sociandola all’idea chiliastica, oltre che all’idea kantiana della comunità etica: W. Menzel, Geist in der Geschichte, Liesching, Stuttgart 1835, p. 39: “invano infatti si spera nel regno millenario, nella repubblica della virtù, nell’utopia”. Per un approfondimento del tema “utopia” e per un chiarimento dei significati del termine, in riferimento alle diverse effettive e possibili configurazioni che si profilano sul modello dell’opera di Thomas More, rimando al mio libro

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Già la convergenza e la ripetizione di simili asserzioni induce a sospettare che le cose non stiano in modo così semplice. Che forse siano risultati chimerici certi progetti, e che certi esperimenti siano falliti e magari si siano discreditati nella loro forma di realizzazione, ma che l’invenzione fantastica e l’elaborazione concettuale di nuove forme di vita e nuove organizzazioni della convivenza umana non siano tanto un prodotto patologico tipico della cultura occidentale moderna, centrata sull’idea dell’homo faber che si presume in grado di ridisegnare e ridefinire e manipolare tutto della propria esistenza, quanto lo sviluppo di un tratto caratteristico dell’uomo come tale. La ricerca e la riflessione antropologica confermano che la preoccupa- zione per il dopo e il domani, l’anticipazione mentale di ciò che an- cora non è ma potrebbe realizzarsi, la formazione e la sperimentazio- ne di modelli innovativi di risposta alle sfide delle situazioni sempre nuove, insomma l’apertura progettuale al futuro, è una componente costitutiva dell’essere-uomini, anche se costantemente intersecata e contrastata, e per lo più imbrigliata e mortificata, dall’opposta ten- denza a non uscire dai solchi già tracciati, a ripetere quanto è da sem- pre usato, a non avventurarsi su sentieri inesplorati e rischiosi, a dif- fidare di ogni seducente promessa di miglioramento dell’esistente2.

Per proporre più concretamente una riabilitazione dell’immagi- nare, del progettare e del pensare utopico3 non si può non prendere

come riferimento l’opera fondamentale di Bloch, Das Prinzip Hoff-

nung [Il principio speranza], uscita in versione definitiva nel 1959.

In questa opera è contenuta soprattutto una “filosofia della speran- za”, cioè una teoria e un’analisi filosofica sia della speranza come affetto, atto o atteggiamento umano (spes qua speratur), sia soprat- tutto come insieme di contenuti e oggetti e come termine ultimo dello sperare (spes quae speratur). In tal senso era più calzante il titolo provvisorio dato all’opera in lavorazione tra il 1944 e il 1950:

La speranza. La sua funzione e i suoi contenuti. Il titolo definitivo

è invece più provocatorio, dice di meno, ma anche di più. Quel che

2 Si veda in proposito Claudio Magris, Utopia e disincanto, Garzanti, Mlano 1999. 3 Che può essere vista come complementare rispetto a quella ampiamente or- chestrata da Arrigo Colombo, prima nel suo libro L’utopia. Rifondazione di

un’idea e di una storia, Dedalo, Bari 1997, poi nella sua Trilogia della nuo- va utopia, 3 volumi, Mursia, Milano 2014-2015. Si veda anche R. Mancini, Utopia: dall’ideologia del cambiamento all’esperienza della liberazione,

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non dice è chiaro anche solo sfogliando il lungo indice: che si trat- ta in massima parte di una rassegna dei contenuti delle speranze, dei sogni e delle loro formulazioni artistiche, utopiche, filosofiche. Quel che dice in più è la segnalazione della problematica filosofica- mente cruciale: la speranza non è solo un moto dell’animo, né solo momento costitutivo essenziale dell’essere umano, ma è dimensio- ne letteralmente centrale dell’essere in divenire del mondo nel suo complesso, è indicazione della meta immanente, ancora mancante e insieme paradossalmente fondante proprio nella sua “latenza”. Tut- tavia questo tema del “principio” è fatto emergere dalla registrazio- ne delle deficienze della realtà sia psichica sia sociale degli uomini, quali si riflettono nei loro tentativi anche solo mentali di superarle, immaginando stati diversi, non ancora vissuti, mai ancora esistiti in nessun luogo, “u-topici”, appunto.

La filosofia della speranza si dispiega così come “filosofia utopi- ca”, per usare il termine che Bloch aveva introdotto nel suo capo- lavoro giovanile, Geist der Utopie [Spirito dell’utopia]. E come la speranza ha bisogno di essere “concettualmente compresa” come

docta spes, riconosciuta nei suoi contenuti, nella sua direzione di

fondo e nel suo principio-fine, così l’utopia deve esser colta sia nella sua ampiezza sia nel suo necessario articolarsi, precisarsi e mediarsi con le tendenze reali, ossia come “utopia concreta”, che però non ri- nuncia a intendersi come “utopia radicale”, volta al novum positivo, realizzante, appagante.

2. La speranza come dimensione umana

Caratteristica e pregio della concezione di Bloch è aver posto l’ac- cento sulla centralità e sulla dimensione umana della speranza, oltre che sulla vastità dei suoi orizzonti e la varietà dei suoi contenuti. Que- sto si vede anzitutto nel modo in cui presenta e analizza lo sperare nel suo darsi primariamente “soggettivo” di affetto, atto o atteggiamento.

Bloch ha messo in luce che la speranza, in quanto “affetto d’atte- sa”4 (rivolto a un desideratum futuro), ha un orizzonte più ampio de-

gli affetti riferibili primariamente a qualcosa di presente o passato;

4 PH 1, 77-84, 121-128 [5, 83-90, 128-135]. Per un approfondimento del tema “speranza” rimando al mio libro Oltre Saturno, cit., cap. III.

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è più rispondente alla condizione umana di contingenza e obiettiva incertezza, rispetto alla disperazione e alla sicurezza; è un affetto aprente, luminoso e dilatante, anziché chiudente, rabbuiante e op- primente come gli affetti d’attesa negativi (paura, angoscia, dispera- zione); è inoltre primaria rispetto a questi ultimi, perché il negativo presuppone il positivo (l’uomo teme perché spera, dispera perché non riesce più a sperare)5.

La speranza è per lui il tono affettivo di fondo che accompagna e sostiene la volontà e la forza di vivere, di resistere e ribattere ai mali (alle aggressioni altrui e della sorte), di progettare e di operare, di compiere imprese o di svolgere bene il proprio lavoro e aiutare gli altri. Bloch osserva che in ogni singolo e anche minuto atto di speranza è contenuto implicitamente un moto del protendersi verso una positività di fondo, una direzione intenzionale rivolta a ciò che colma ogni desiderio e adempie lo sperare in toto6. Per riprendere

la distinzione di Gabriel Marcel tra espoir (cioè singoli atti e con- tenuti dello sperare, rivolti a scopi determinati) e espérance (come atteggiamento di fondo), ovvero tra j’espère que (sperare qualco- sa di particolare e relativo) e j’espère (sperare in assoluto)7, si può

dire che secondo Bloch l’espoir non tanto si oppone quanto rimanda all’espérance, è indizio o traccia del suo operare almeno virtuale, del suo essere o almeno dover essere presente e attiva. E questa spe- ranza “assoluta”8 si mostra indirizzata a una realizzazione totale, a

un essere riuscito sicut erat in spe, a un essere dotato di senso in quanto coincidente (o destinato a coincidere) con ciò che deve (o doveva) essere9. È un atteggiamento di fondo che permette di vivere

positivamente e attivamente nell’orizzonte di un bene inclusivo, non particolare, non esclusivo, cioè non solo privato né egoistico.

5 Il timore (che sia paura o angoscia) è aspettativa di un male futuro; disperazio- ne è ferma aspettazione del definitivo non realizzarsi o certezza dell’impossi- bilità del realizzarsi del bene desiderato.

6 PH pp. 122, 127 [129, 134].

7 G. Marcel, Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de l’espérance, Aubier Montaigne, Paris 1944,19522, pp. 43 s., 60, 63 s. [Homo viator. Prole-

gomeni a una metafisica della speranza, tr. it. di L. Castiglione e M. Rettori,

Borla, Roma 1980, pp. 42, 55, 58 s.]. 8 G. Marcel, op. cit., pp. 62 ss. [57 ss.]. 9 PH 364, 366, 1628 [368, 370, 1587].

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Se in Bloch, dunque, emerge una dimensione comunitaria dello sperare, questo però non diventa “sperare in qualcuno”, nel senso di sperare nel sostegno di un Altro trascendente. In questo ambito etico, sociale e politico la speranza è collegata piuttosto alla solida- rietà e alle potenzialità degli uomini che si impegnano e lottano per la libertà e la giustizia, in termini marxisti quindi alla “classe opera- ia”, o meglio, in termini più corretti (per la stessa lettura blochiana di Marx) all’umanità oppressa, cioè proprio a quello stesso uomo comune (quel “noi”) come “essere umiliato, asservito, abbandonato, spregevole”10 per il quale si deve nutrire la speranza in assoluto.

Inoltre, Bloch vede nella speranza, oltre che un Affekt e un atto di anticipazione cognitiva e di attesa attiva, un atteggiamento di fondo (e quindi un habitus umano) che ha una sua positività11; tuttavia non

la presenta direttamente come una virtù, ma sostiene che “si tratta di imparare a sperare” e precisamente a sperare nel modo giusto, distin- guendo quindi tra autentico e inautentico, tra speranza incontrollata e speranza coltivata, educata e informata (docta spes), tra speranza arbitraria o astratta e “speranza fondata”, “concreta”, “mediata”12.

Tuttavia lo sperare come atteggiamento si spinge fino in fondo, è contrario ad ogni rassegnazione così come alla disperazione, di- venta così un vero e proprio “principio”, come dice il titolo stesso della sua opera principale, anzitutto in senso soggettivo, cioè come principio cui il soggetto tiene fermo e si appella13. Per questo, anche

se rimane fondato su se stesso, sulle possibilità immanenti dell’es- sere umano e cosmico, la sua densità estrema è quella dello “sperare contro ogni speranza” che Paolo attribuiva alla fede di Abramo e del cristiano (Rm 4,18). Del resto anche un saggio antico, Eraclito, pro- poneva il paradosso secondo cui solo sperando si può far venire alla

10 K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), in K. Marx, F. Engels, Werke, vol. 1, Dietz, Berlin 1956, p. 385 [Per la critica

della filosofia del diritto. Introduzione, tr. it. di R. Panzieri, in K. Marx, F.

Engels, Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 197 s.]. Bloch cita molte volte questo “imperativo categorico” marxiano, a partire dal capitolo dedicato a Marx in Das Prinzip Hoffnung (PH 308 [312]).

11 PH 4 s., 10 s., 1623-1628 [9 s., 15 s., 1583-1587].

12 PH 1, 3, 5, 8, 166, 180, 1624-1628 [5, 8, 9, 12 s., 173, 186, 1582-1587]. 13 La speranza come “principio” non riguarda certo per Bloch soltanto la sfera

antropologia ed etica, ma investe la nostra comprensione “anticipatoria” del mondo e dell’essere nella sua totalità, proprio per l’assolutezza di cui tale principio è espressione.

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luce l’insperato: “Se non lo si spera, non lo si troverà, l’insperato, perché è irrintracciabile e inaccessibile” (fr. 18).

Questo non vuol dire che la speranza vada coltivata come puro irrazionale, come salto nel vuoto o nel buio, o come virtuosistico “salto mortale”, come spero quia absurdum. La speranza è qui piut- tosto l’espressione di una postulazione irremissibile. Certo Bloch sottolinea (proprio di fronte al fallimento – anche personalmente esperito e sofferto – di quel che considerava il massimo esperimento di emancipazione) che la speranza puramente umana non solo può, ma deve poter essere delusa e lo è necessariamente (a differenza della fiducia religiosamente riposta nel Dio che salva)14. Tuttavia

anche lui, come Marcel, riconosce che la speranza di fondo, la spes

qua speratur, è una fiducia che, in quanto risponde al dover essere

del bene, all’“imperativo dell’eterno”15, non può essere scossa da

delusioni e smentite storiche; anche se la cosa sperata, la spes quae

speratur, non è né garantita né già decisa, e anche se il corso della

natura e della storia sembrano in molti modi contraddirla16.

Lo sperare mediato nelle costruzioni storiche umane è dunque soggetto a delusioni e deve esserlo; l’utopia concreta si lascia ret- tificare e ammaestrare in relazione alla sua necessità di accordarsi con le possibilità oggettive, non tanto date quanto tendenziali. Ma lo sperare ultimo non decade e può continuare a filtrare e orientare l’esistenza, anche se e proprio perché non ha altri pegni a cui affidar- si se non le relazioni fondamentali dell’essere-uomini: la coscienza comune del dover-essere del bene; l’esperienza del male unita all’e- videnza della sua ingiustificabilità e intollerabilità; la constatazione della contingenza aperta del volere umano e del poter-essere della storia e del mondo; le potenzialità costruttive del nostro rapporto con noi stessi e con gli altri, con l’essere estraneo ed enigmatico della natura che forma e circonda la nostra corporeità, e con il mi- sterioso “fondamento-infondato”, il “realizzante” ancora inattuato, che sospinge dentro di noi e che ci costituisce come aperti al futuro.

14 E. Bloch, Kann Hoffnung enttäuscht werden?, la 385-392 [La speranza può

andare delusa?, VG 249-259]. Si tratta del testo della prolusione tenuta nel

1961 all’Università di Tübingen poco dopo l’abbandono della DDR per la Germania Federale.

15 A. Caracciolo, Nulla religioso e imperativo dell’eterno, Tilgher, Genova 1990; il melangolo, Genova 20102.

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Il coraggio di vivere non è mai disgiunto da una speranza che guarda intorno a sé e davanti a sé senza illusioni, ma anche senza chiusure.

Da tutto ciò si vede come in Bloch lo sperare abbia una dimen- sione religiosa (di trascendimento), in quanto contiene o implica un protendersi verso la totalità dell’appagamento e verso la liberazione da tutti mali, e tuttavia rimanga nella sfera dell’immanenza (uma- no-cosmica), distinguendosi non solo dalle tradizioni religiose che si fondano su promesse e rivelazioni divine (come quelle ebraica e cristiana cui pure attinge in larga misura), ma anche dalle posizioni filosofiche che fondano un’analoga apertura prospettica sulla fidu- cia razionale in una trascendenza universalmente riconoscibile. Per questo egli parla piuttosto di una dimensione “meta-religiosa”. Per lui, infatti, lo sperare esclude un ancoramento a un fondamento o una garanzia trascendente concepita come già in sé sussistente e per sé operante, e fa leva solo sul movimento di un trascendere imma- nente che si compie anzitutto al livello dell’agire umano, postulando e stimolando una cooperazione altrettanto decisiva con la natura in- terna ed esterna all’essere umano.

3. Costitutività dell’utopia

La stretta connessione che così viene accentuata tra sperare e agire implica un carattere costruttivo e progettuale dello sperare, che, in epoca moderna e contemporanea, è stato ed è tuttora spesso designa- to, col termine “utopia”. Bloch è stato certo, se non il solo, il più im- portante filosofo che ha assegnato al momento utopico un significato non solo essenzialmente positivo, ma anzi centralmente costitutivo per il pensare, l’agire e l’essere umano. Egli, infatti, fin dall’inizio, ed esplicitamente almeno fin dalla sua prima opera originale del 1918, intitolata appunto Spirito dell’utopia, ha voluto riportare l’attenzione sulla centralità antropologica dell’utopico come strato essenziale e portante dell’esistenza e della coscienza umana, radicato nell’inquie- ta tensione del preconscio da cui germina ogni inventività creativa di nuovo, in ogni campo: conoscenza, tecnica, arte, comunicazione, socialità, organizzazione, produzione, religione.

In Das Prinzip Hoffnung Bloch tende ad accostare sistematica- mente e quasi ad assimilare l’utopia alla speranza. Questo non vuol

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dire però che le identifichi. Anche in questa opera rimane centrale, come si vede bene dalle analisi svolte nella sua seconda parte, la distinzione (già delineata in alcuni scritti giovanili) tra la sfera delle pulsioni, quella degli affetti (moti dell’animo, emozioni, sentimenti) e quella della fantasia (immagini, sogni, scenari, utopie), che sono peraltro raccordate fra loro. Speranza per lui è così anzitutto un pro- tendersi affettivo, che ha implicazioni fantastiche e cognitive (si spe- ra qualcosa che è desiderato, immaginato come positivo e giudicato possibile e conseguibile in futuro), ma che non si risolve in esse. Utopia è invece prevalentemente una rappresentazione (costruzione fantastica e concettuale), che non necessariamente è accompagnata da speranza, ma lo è solo quando è assunta insieme come progetto e come proposta.

Questo senso diretto e positivo dell’utopia, però, è appunto il sen- so fondamentale ed essenziale che Bloch le attribuisce in quanto an- ticipazione di qualcosa che non è (ancora) ma che deve (dovrebbe) essere. Per lui dunque utopia è rappresentazione di un universale (dover-essere astratto, in sé) come concreto (possibile e futuro nella singolarità empirica dell’evento e dello stato di cose storico)17. Con

ciò l’utopia viene considerata nel suo significato positivo e come in- sieme integrale di momenti analiticamente distinguibili (costruzione fantastica, progetto concettualmente elaborato, predizione, propo- sta) ma di fatto unificati.

Che Bloch assuma e radicalizzi l’estensione del concetto di uto- pia tendente a farne una struttura antropologica, risulta poi del tutto evidente nella parte fondativa del Principio speranza, la cui linea principale esplicita che l’utopicità è non solo un elemento o tratto tipico dell’uomo, ma la caratteristica costitutiva e specifica dell’es- sere umano, che è centrato sulla “coscienza anticipante”. Tale tesi è formulata sinteticamente in un’opera successiva: “essere uomini significa realmente: avere utopia” (TE 239).

Ma molti passi dell’opera principale segnalano esplicitamente la necessità di un ampliamento semantico del concetto di utopia, che viene a indicare, oltre l’ambito politico e l’uso spregiativo, ogni “so- gno rivolto in avanti”, ogni “anticipazione” che “oltrepassa il corso naturale degli eventi” (PH 11 [16]):

17 Cfr. H.-G. Schmitz, Wie kann man sagen, was nicht ist? Zur Logik des Utopi-

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Si vede così che l’estensione orizzontale e verticale dell’utopico non è limitata, già anche sotto l’aspetto storico, alla sua apparizione più popolare: l’utopia politica. Secondo il suo senso il sogno di una vita migliore va ben oltre la sua sede originaria politico-sociale, ossia si estende ad ogni tipo di anticipazione culturale (PH 178 [184]).

Anzi, Bloch sostiene che solo comprendendo l’utopia nel senso più ampio, profondo e totale, come “organo metodico del nuovo”, come “stato di aggregazione obbiettivo di ciò che sta sorgendo” (PH 180 [186]), è possibile cogliere anche le utopie sociali e politiche del passato e del presente nel loro senso e nel loro contenuto istruttivo ed ereditabile:

l’utopia è stata limitata alla costituzione migliore, [...] anziché essere guardata e perseguita nella totalità concreta dell’essere. [...] Invece la so- stanza utopica, cioè il soddisfacimento dei bisogni inteso nella sua com- piutezza, senza i desideri insipidi che sono da dimenticare, con i desideri profondi che sono ancora da desiderare [...], deve essere compresa come un totum da cui le stesse utopie sociali dipendono. È questo totum a far sì che le antiche favole politiche siano ancora nuove e significative, che anche i loro errori siano istruttivi e le loro pretese obbliganti (PH 555 [549]). Non è lecito accusare Bloch di aver con ciò annebbiato l’utopico in una sfera indistinta tra aspettative, presagi, progetti, tra l’onirico, il re- ligioso, l’estetico e il politico-sociale, e di averlo stemperato in una ca- tegoria antropologica o addirittura cosmologica e ontologica18. Basta

scorrere l’indice del Prinzip Hoffnung, certo forse di per sé già troppo lungo per un lettore frettoloso, per vedere come Bloch nella prima parte accenni ai sogni quotidiani e ordinari, nella seconda parte parli di “funzione utopica”, nella terza esemplifichi i sogni popolari e di- storcibili, nella quarta parte tratti i progetti utopici propriamente detti, separando nettamente le loro diverse forme specifiche e distinguendo le utopie socio-politiche da tutte le altre, e anzi distinguendo, tra uto- pie sociali e teorie politico-giuridiche normative giusnaturalistiche, e nella quinta parte infine introduca le dimensioni utopiche decisamente oltrepassanti la sfera sociale e politica. Del resto, perché si dovrebbe

18 Come fa R. Saage, Begriffe, Gestalten und Kontexte des utopischen Denkens, in J. Calliess (a cura di), Die Wahrheit des Nirgendwo. Zur Geschichte und

Zukunft des utopischen Denkens, Evangelische Akademie Loccum, Rehburg-