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1.2. Il locale complesso

1.2.4. Il rapporto marginalità-osservatore

L’elemento marginale può essere considerato, come si è visto, quasi uno scarto rispetto al tradizionale processo di sviluppo oppure, come si cerca di proporre qui, può essere il punto di partenza per una innovazione di metodo nel considerare il locale: una marginalità che potrebbe produrre una novità. Se considerata in questa accezione essa può far scaturire una certa “inversione locale della determinazione” (Morin 1985). La marginalità, quella che si riconduce al locale, può essere un punto di partenza per mettere in crisi il determinismo finora discusso. Considerata la critica ad una certa idea di sviluppo, considerato il ritorno al contesto attraverso la complessità e considerato il riferimento teorico alla dimensione locale, si può riflettere sull’elemento marginale come opportunità evolutiva e non come limite ad un certo tipo di sviluppo. Un contesto marginale può essere inteso qui come una deviazione, una non conformità, rispetto ad una generale previsione secondo un diffuso modello di riferimento.

Per generare la non conformità e affinché ci possa essere devianza è necessario un input, un qualcosa che inneschi tale processo. Nell’ottica di una sinergia tra teoria e pratica nel discorso intorno al locale e per poter descrivere meglio il ruolo della marginalità, bisogna procedere sul piano epistemologico dell’osservatore. Per capire bene chi è l’osservatore del locale, nell’ottica del presente discorso, vanno poste delle premesse. Innanzitutto, si tratta di essere disponibili a calarsi nel contesto quindi optare per una ricerca sul campo dando rilievo teorico ai dettagli di quel contesto. Già a questo punto ci si porrebbe su di un livello nuovo, si rinuncerebbe alla semplificazione di un locale inteso come oggetto che si può decontestualizzare. Alla base di questa osservazione c’è l’idea che sia necessario produrre un cambiamento all’interno di un determinato ambiente. Il cambiamento può risultare soltanto da nuovi elementi, da qualcosa che ir-rompe in quel contesto.

Se si immagina una realtà di diversi e vari contesti locali che formano quella che si potrebbe chiamare una rete poli-contestuale, si può anche immaginare un flusso di informazioni che passano non solo all’interno di un contesto, ma anche fra i contesti stessi (cfr. Bertalanffy 2004, 87 e ss.). L’informazione inter-contestuale è quel dato che fa percepire la necessità di un cambiamento da parte dell’osservatore locale: si acquisiscono nuove conoscenze, si entra in contatto con la diversità e si realizza la necessità di introdurre nuovi elementi nel contesto dove ci si è calati. Quando è attivo il flusso informativo, se pur minimo, può innescarsi quella dialogica antropo-sociale tra i luoghi che vede “da una parte un ordine programmatore che procede dall’alto e dal centro, e dall’altra una quasi organizzazione spontanea di carattere acentrico/policentrico che sale dal basso ed è diffusa

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in tutti i luoghi” (Morin 2004, 90). Questa riflessione, però, va ricondotta in un approccio dal basso, in una visione che passa da una storia universale ad una storia particolare, ad una storia dei luoghi particolari (cfr. Prigogine e Stengers 1993). E dunque anche l’osservazione è particolare, presuppone delle scelte, è inserita in un ambiente, ha delle finalità. Nello stabilire determinate finalità, valori, premesse e quindi nell’osservare ‒ secondo una visione complessa ‒ si fa riferimento ad una logica che spesso non è quella classica a due valori: il vero e il falso stabiliti in base ad un criterio universale di ipotesi, riscontro fattuale e infine conferma o smentita. Quest’ultimo sicuramente è un criterio imprescindibile che fa da sfondo alla pratica scientifica, ma talvolta se si procede verso il particolare e si comprendono sempre maggiori dettagli, come si è già detto parlando di scale di grandezza, i criteri di valore possono cambiare, possono acquistare diverse sfumature. La presenza stessa di un osservatore significa valori relativi, dipendenti culturalmente, significa una percezione soggettiva di ciò che si osserva. A riguardo risulta molto interessante, per esempio, la proposta di Gotthard Günter il quale introduce una logica basata sul giudizio di valore, una place value logic: ogni luogo contiene ed esprime dei valori, ma soprattutto, per poter affermare o negare qualcosa, occorre che vi sia un luogo preciso e anche un riferimento al valore della cultura che si situa in quel luogo (Günther 2004; Kaehr 2007). Il processo è localizzato, Morin parla di “un dasein ‒ un essere-là dipendente dal suo ambiente e soggetto al tempo” (Morin 1983, 175).

Si potrebbe dire a questo punto quindi che quella riduzione di scala, necessaria ad una utile interpretazione del locale, avviene nel momento in cui si introduce la figura di un osservatore. Egli partecipa al contesto osservato, non semplicemente lo analizza e scompone nelle presunte parti che lo compongono, astraendo poi per stabilire modelli e previsioni. Bisogna cercare di capire adesso in che modo nell’ambito della marginalità si possa innovare.

È proprio insistendo su un nuovo modo d’intendere l’osservazione che si può arrivare all’innovazione. Riconsiderando brevemente quanto finora detto, si è parlato di locale come contesto piccolo e marginale dove lo sviluppo, quello che ha tenuto il contesto stesso ai margini, è mancato perché impostato sulla non integrazione teorica dei dettagli locali i quali, però, a quel livello dimensionale sono fondamentali per una coerente e corretta interpretazione. È stato chiarito poi che la motivazione la quale spinge l’osservatore locale è l’idea della necessità di un cambiamento. Un cambiamento che si percepisce come necessario per la sopravvivenza del contesto, per attivare un processo ri-generatore interno. Questo discorso poi è stato ulteriormente qualificato parlando di un “flusso di informazioni inter-contestuale”. Tale flusso è fondamentale affinché l’osservatore conosca il cambiamento, entri in contatto con informazioni nuove, possa immettere in un contesto marginale, attraverso la scelta di osservarlo dall’interno, qualcosa che

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viene dall’esterno di quel contesto. In questo modo si introduce un elemento di novità nello spazio marginale: a questo livello solitamente ci si trova in un ambiente statico dove le relazioni e le azioni sono sempre le stesse per molto tempo. C’è bisogno quindi di un fattore esterno individuale che, si potrebbe dire, esplora. Un’esplorazione che, rispetto alla marginalità, significa iniziativa extra- contestuale, significa poter interagire con altri contesti rispetto a quello di partenza, entrare nella dinamica delle informazioni e indirizzarle verso il contesto di partenza. È fondamentale un ritorno di informazione per innescare l’innovazione. Innovazione che inizialmente si manifesta come devianza, quasi come iniziativa personale dell’osservatore che rompe l’equilibrio statico del contesto, quell’equilibrio che talvolta può creare certo delle suggestioni rievocative o folkloriche le quali però rinchiudono il locale nella morsa di uno sterile localismo (Bevilacqua, 2008).

L’innovazione invece avviene lontano dall’equilibrio e dunque si può affermare che la ri- generazione del contesto stesso, se legata all’innovazione, si basa sulla rottura dell’equilibrio (Capra 1997; Foerster von 1987; Morin 2001, 177-422). La proposta di una rottura-devianza che innova il contesto è legata, come visto, all’azione di un osservatore ‒ o di più osservatori ‒ che immette informazione aggiuntiva in quel contesto. Le informazioni entrando nella dinamica interna di un ambiente creano i presupposti per nuovi modi di azione, per nuove relazioni interne e possono, in definitiva, innescare un processo di cambiamento.

L’osservazione va quindi considerata in rapporto al cambiamento, in rapporto all’agire. Un tale rapporto, ad esempio, è affrontato da Gerald Midgley il quale afferma che “osservazione e intervento non vanno considerati come opposti e che l’osservazione può essere assunta a servizio dell’intervento” (Midgley 2003, 83). Quando si sceglie di osservare in una determinata direzione, da parte dell’osservatore, c’è la convinzione di poter intervenire verso un cambiamento. Midgley infatti parla di “agente” e descrive l’intervento in questi termini: “azione mirata di un agente per creare un cambiamento” (Midgley 2003, 79). Quando si parla di azione mirata evidentemente c’è l’aspettativa che quell’intervento possa portare ad una situazione finale diversa da quella di partenza.

Il locale qui perciò va concepito integrando una corretta percezione quantitativa, dimensionale ‒ come visto nel primo paragrafo ‒ ed una riconsiderazione qualitativa della marginalità. In questo modo è possibile dare una risposta a quanto chiesto in precedenza dove si domandava come porsi nei confronti del locale. In base al discorso condotto l’atteggiamento è quello di pensarlo come ambito dove esiste la possibilità d’azione, la possibilità di iniziare qualcosa. Ciò presuppone la rinuncia a considerarlo come ambito statico che tende allo sgretolamento. Il locale forse in questo modo può essere considerato terreno sperimentale innovativo per sostenere l’idea secondo la quale “Il mondo così com’è diventa allora il mondo su cui si può operare” (Foerster 1987, 115). Un’idea

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che si può sostenere e promuovere soltanto credendo in un approccio dal basso, iniziando dal locale appunto. È necessario abbandonare un’idea quasi “ontologica” del locale11 che porta nel tempo ad una situazione dove mancano le condizioni minime per qualsiasi discorso di sopravvivenza comunitaria e territoriale.

Non si può certo ingenuamente credere che basti un atteggiamento mentale là dove manca un requisito minimo quantitativo di sopravvivenza: al di sotto di certi numeri la marginalità non può innovare alcunché, diventa progressiva scomparsa e basta. Se però i numeri minimi sono dati è necessario acquisire una diversa attitudine per arrestare il processo di sgretolamento e magari invertire anche la tendenza numerica. (si veda ad esempio Pellegrini e Soda 2004; Raffestine 2003; Pollard 1997).

Alla fine del ragionamento e chiudendo il cerchio degli elementi discussi, si può tentare ora anche una risposta alla seconda domanda inizialmente posta su cosa sia il locale: una dimensione piccola e marginale dove proprio grazie a questo un’azione per il cambiamento è possibile.

Quanto detto, per essere teoricamente coerente all’interno dell’orizzonte di pensiero della complessità, ha bisogno di essere integrato con la nozione di “organizzazione” e il relativo concetto di “sistema”. In questo modo si cerca un supporto epistemologico alla riflessione sul locale e si fornisce un possibile quadro teorico di riferimento.

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