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1.1 Storiografia di un sistema giuridico repubblicano

LE PRIME FASI

A distanza di circa mezzo secolo dalla caduta della Repubblica, una delle prime riflessioni postume sull‟esperienza statuale veneziana, e forse anche tra le più significative dell‟epoca, era giunta a maturazione. Con i suoi tre volumi, Venezia e le sue lagune era un‟opera che intendeva presentare l‟esperienza repubblicana attraverso la sua storia, l‟organizzazione politico-legale e la

vita culturale.53 Un avvocato, Daniele Manin, affrontò la complessa sezione dedicata al diritto.

Dopo una sintetica ricostruzione cronologica delle principali vicende giuridiche, l‟autore entrò nel merito della questione più rilevante, quella che segnò la peculiarità veneziana: la gerarchia delle fonti. L‟assenza del diritto romano venne letta come espressione piena di libertà dal potere universale imperiale. Tuttavia, l‟attenzione dell‟avvocato si concentrò maggiormente sull‟effetto della consuetudine, che non si limitava ad integrare le leggi scritte, ma ne decretava l‟efficacia o la debolezza, e ne evidenziò pure l‟intreccio con la legislazione penale delle origini.54 Ciò che Daniele Manin segnalò altro non era che uno degli aspetti politici più significativi della prassi veneziana, cioè la continua mediazione offerta dalla consuetudine tra volontà normative e concreti spazi d‟azione delle istituzioni politiche e giudiziarie.55

La dimensione consuetudinaria si presentava come il cardine di un sistema giuridico repubblicano che era espressione di un potere aristocratico e formalmente contrassegnato dall‟egualitarismo giuridico dei membri del ceto dirigente, stabilito a seguito della Serrata del Maggior Consiglio. La struttura di potere era perciò orizzontale, non gerarchizzata, e come corollario prevedeva una serie di meccanismi pensati per preservare un‟equa distribuzione delle cariche e impedire eccessivi accentramenti di potere.56 I principali erano la collegialità delle cariche, per favorire il controllo reciproco, e la contumacia, cioè l‟obbligo di non poter

53 AA.VV., Venezia e le sue lagune, 3 vol., Venezia 1847.

54 D. Manin, Della veneta giurisprudenza civile mercante e criminale, in ivi, I, pp. 17-18.

55 Sulla figura di Daniele Manin e la sua lettura del diritto veneto si veda C. Povolo, Un sistema giuridico

repubblicano: Venezia e il suo stato territoriale (sec. XV-XVIII), in I. Birocchi, A. Mattone (a cura di), Il diritto patrio. Tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), Roma 2006, pp. 297-353; G. Cozzi, La società veneta e il suo diritto: saggi su questioni matrimoniali, giustizia penale, politica del diritto, sopravvivenza del diritto veneto nell'Ottocento,

Venezia 2000, pp. 373-392.

56 Una situazione ben diversa si presenta a Venezia in età ducale, la quale non verrà qui delineata in quanto non necessaria alla comprensione della realtà del XVI secolo. Si veda comunque, per il periodo precedente all‟istituzione del regime comunale, Maranini, La costituzione, pp. 21-155.

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esercitare più volte consecutive lo stesso incarico, per garantire la rotazione dei patrizi nell‟esercizio degli uffici. Uno degli altri aspetti contraddistintivi era legato a doppio filo alla già segnalata assenza dello ius commune nelle gerarchie del diritto lagunare: la concentrazione della facoltà di amministrare la giustizia nelle mani del ceto dirigente veneziano. Avendo escluso i tecnici del diritto da questo delicato ambito, la scelta di dare enfasi non solo alla consuetudine come fonte giuridica ma, soprattutto, di sostituire il diritto imperiale, di matrice romano-giustinianeo, con l‟arbitrium del giudice è pregna di significato.

Seppur non prerogativa esclusivamente veneziana, il libero convincimento del giudice si coniugava senza problemi con i desideri di un élite nata come ceto mercantile che prediligeva il pragmatismo.57 A dare forma alla giustizia veneziana erano difatti i principi dell‟equità e della ragione naturale.58 Come è stato notato, l‟assenza dello ius commune era in realtà più formale che sostanziale, in quanto quest‟ultimo era stato veicolato all‟interno di quelle consuetudini che formavano il corpus di un assetto costituzionale non scritto.59 La finzione giuridica si prestava quindi alle pretese politiche di originaria autonomia dall‟autorità imperiale.60

Esistono infatti dei documenti giuridici di inizio XIII secolo che rappresentano i primi spunti di un sapere giurisprudenziale nella laguna: la Ratio de lege Romana e gli Iudicia a probis

iudicibus promulgata. La prima è un opera d‟ispirazione comparativa, mentre la seconda illustra i

punti di una prassi giudiziale ancora da elaborare in forma scritta. Entrambi i volumi erano ispirati ad un compendio del codice giustinianeo redatto nel XII secolo.61 Le consuetudini filtrate dal diritto romano si svilupparono sia dall‟incontro inevitabile con altre realtà e culture, sia in risposta a peculiari necessità sorte all‟interno della società lagunare, e regolavano soprattutto l‟ambito civile.62

57 Sugli spazi concessi all‟arbitrium nella normativa statutaria della penisola italiana nel Basso Medioevo si veda M. Vallerani, L‟arbitrio negli statuti cittadini del Trecento, in idem (a cura di), Tecniche di potere nel tardo Medioevo.

Regimi comunali e signorie in Italia, Roma 2010, pp. 117-148, e M. Meccarelli, Arbitrium. un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano 1998.

58 Per un confronto sul concetto di equità in sede processuale in un contesto ben differente, quello inglese, si veda D.R. Klinck, Conscience, Equity and the Court of Chancery in Early Modern England, Farnham-Burlington 2010; M. Fortier, The culture of equity in Early Modern England, Aldershot 2005.

59 Per i diversi aspetti costituzionali sopra delineati cfr. F. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 113-114, 294-296; G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 217-226; Povolo, Un sistema giuridico cit.

60 L. Pansolli, La gerarchia delle fonti di diritto nella legislazione medievale veneziana, Milano 1970, pp. 120-121.

61 B. Pitzorno, Il Liber romanae legis degli Judicia a probis iudicibus promulgata. Nota seconda per la storia del

c.d. Codi in Italia, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 43 (1907), pp. 4-12; idem, Il Liber Romanae legis della Ratio de lege Romana. Per la storia del c.d. Codi in Italia, ivi, pp. 101-136; S. Vinci, Un nuovo manoscritto della tradizione latina del Codi, «Annuario dell‟Istituto di Storia del diritto romano» (1907), pp. 228-239.

62 Cfr. E. Besta, Il diritto e le leggi civili di Venezia fino al dogado di Enrico Dandolo, Venezia 1900; B. Pitzorno,

Le consuetudini giudiziarie veneziane anteriori al 1229. La giurisprudenza di Venezia nella prima metà del secolo decimoterzo e la sua efficacia sulla formazione degli statuti, Venezia 1910. Sulla produzione notarile, da cui traspare in controluce

l‟influsso delle consuetudini, prima dell‟età comunale si veda F. Parcianello, Documentazione e notariato a Venezia

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Nella fase di passaggio dall‟età ducale a quella comunale fiorisce la codificazione statutaria, di cui si discuterà qui sinteticamente solo in relazione agli aspetti criminali.63 Tra fine XII e inizio XIII secolo la promissio maleficiorum di Orio Mastropiero e quella di Jacopo Tiepolo delineano i primi profili della giustizia penale veneziana. Seppur non codici nel senso tecnico del termine, quest‟ultimi chiariscono gli indirizzi di fondo presi dal Comune lagunare. In entrambi i casi viene più volte fatto riferimento alla discrezionalità del giudice, chiamato a emettere sentenza secondo coscienza anche a discapito di quei mezzi di prova noti come ordalie giudiziarie, senza però poter prescindere dalla confessione e dalla testimonianza. Altro tratto comune è il carcere, inteso non tanto come pena di per sé, ma più come mezzo coercitivo per spingere le parti a una composizione pecuniaria. Nella seconda promissio si sostiene con forza l‟impianto accusatorio della pratica veneziana, in cui offesi e offensori hanno un ruolo preminente nel dipanare le fasi processuali. Gli stessi capitoli permettono però di cogliere il significativo peso della procedura inquisitoria, segnata da un maggiore interventismo del giudice, nelle dinamiche giudiziarie.64

A Venezia però, così come nelle altre realtà urbane centro-settentrionali, si faceva ricorso ad una procedura mista, in cui elementi accusatori e inquisitori si combinavano e lasciavano sensibili margini d‟azione alle parti in conflitto grazie ad un approccio flessibile.65 Pochi anni dopo, nel 1242, avrebbe preso forma una vera e propria codificazione statutaria, sempre a opera di Jacopo Tiepolo, divisa in cinque libri, a cui ne venne aggiunto un sesto un secolo dopo. Nel primo prologo il doge enucleava proprio quella gerarchia delle fonti dal sapore marcatamente ideologico.66 In essa, si concedeva grande discrezionalità al giudice nel campo della gestione dell‟ordine pubblico garantendogli la possibilità di creare fattispecie giuridiche ad

hoc per quei comportamenti ritenuti delittuosi ma non contemplati nelle promissio o negli

statuti.67

63 Per una visione d‟insieme relativa allo ius proprium nel contesto italiano comunale si veda M.A. Benedetto, Statuti (diritto intermedio), in A. Azara, E. Eula (a cura di), Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, Torino 1971, pp. 385-398; M. Sbriccoli, L‟interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi

nell‟età comunale, Milano 1969; M. Bellomo, The Common Legal Past of Europe. 1000-1800, Washington 1995, pp.

78-96; M. Meccarelli, The Autonomy of Law and the Statutes of the Cities in the Legal Order of the Late Middle Ages, in Ţ. Radić., M. Trogrlić, M. Meccarelli, L. Steindorff (a cura di), Splitski Statut iz 1312. godine: povijest i pravo, Spalato 2015, pp. 41-52.

64 E. Besta, Appunti per la storia del diritto penale nel dogado veneziano innanzi al 1232, Milano 1899; E. Crouzet-Pavan, Potere politico e spazio sociale: il controllo della notte a Venezia nei secoli XIII-XV, in M. Sbriccoli (a cura di), La

notte. Ordine, sicurezza e disciplinamento in età moderna, Firenze 1991, pp. 46-66; S. Piasentini, Alla luce della luna. I furti a Venezia 1270-1403, Venezia 1992; G. Ruggiero, Politica e giustizia, in Arnaldi, Cracco, Tenenti, La formazione cit., pp. 393-395.

65 E. Maffei, Dal reato alla sentenza. Il processo criminale in età comunale, Roma 2005; M. Vallerani, Medieval

Public Justice, Washington D.C. 2012. Si affronteranno in seguito le caratteristiche del processo criminale

veneziano ma si veda nel frattempo Cozzi, Repubblica di Venezia cit., pp. 103-104.

66 R. Cessi (a cura di), Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, Venezia 1938.

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La cultura giuridica veneziana tra XIII e XIV secolo venne esplicitata dall‟opera di Bertaldo, che si premurò anche di definire organicamente il significato e l‟uso della consuetudine

all‟interno dei tribunali veneziani.68 È in questo periodo che avvenne la già menzionata Serrata

del Maggior Consiglio, il cui risultato principale fu la definizione delle condizioni giuridiche per l‟appartenenza al ceto dirigente, ma non solo, essa gettò le basi per quella forma di governo che, nella visione più tardi propugnata dal mito di Venezia, fu definita come mista: assommante cioè caratteri democratici, aristocratici e monarchici come la repubblica romana. Un‟immagine di perfetta armonia e equilibrio fu quanto alcuni umanisti patrizi del Quattrocento vollero in particolare patrocinare.69

Questa ricostruzione, tutto sommato abbastanza lineare, dei fondamenti del sistema legale veneziano nel basso Medioevo è stata problematizzata da Andrea Padovani, le cui osservazioni hanno posto in dubbio diversi assunti. In primo luogo, l‟esclusione del diritto comune dalle fonti giuridiche non sarebbe da imputare, in età comunale, al disegno politico di affermazione dell‟indipendenza veneziana dall‟Impero o per le preferenze di un nascente forte ceto mercantile verso un diritto più pragmatico. Adottare tale fonte giuridica non comportò infatti, nelle altre realtà della penisola, un decremento della propria autonomia. Il vero pericolo non sarebbe stato esterno, bensì interno alla laguna e incarnato da quegli esperti del diritto, che avrebbero potuto sfruttare l‟adozione del diritto giustinianeo-canonistico per rivendicare un maggiore peso politico.

Gli stessi Iudicia a probis iudicibus promulgata rappresenterebbero una romanizzazione in corso tra XII e XIII delle tradizioni lagunari, un periodo caratterizzato dalla ricerca di nuovi equilibri all‟interno del panorama giuridico tra usi consuetudinari e loro integrazioni giurisprudenziali. Il punto di svolta viene individuato nella redazione statutaria del Tiepolo, interpretata come parte di un programma volto a ridimensionare l‟arbitrium dei giudici a favore del diritto comune, che avrebbe dovuto guidare la libera coscienza di quest‟ultimi. Il sostegno all‟introduzione del diritto romano perse però presto ogni propulsione e, per compensare i vuoti normativi, nella seconda metà del XIII secolo prese avvio una densa attività di legiferazione, aumentando i problemi relativi alla certezza del diritto a causa della disordinata commistione di consuetudini e

parti consiliari, a volte contraddittorie o ridondanti. Inutili saranno, fino alla fine della

Repubblica, i tentativi di mettere ordine in questo mare magnum. Si tolse ogni spazio d‟azione

68 E. Besta, Jacopo Bertaldo e lo Splendor venetorum civitatis consuetudinum, Venezia 1897; un‟analisi dell‟opera in Pansolli, La gerarchia cit., pp. 205-218.

69 F. Gaeta, Venezia da «Stato misto» ad aristocrazia «esemplare», in G. Arnaldi, M. Pastore Stocchi (a cura di),

Storia della cultura veneta, vol. 4, Il Seicento, II, Vicenza 1984, pp. 437-94; A. Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in Arnadi, Pastore Stocchi, Dal primo Quattrocento cit., pp. 513-63.

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agli esperti del diritto e alle loro capacità interpretative emanando leggi prive di astrazione, ancorate a casi concretamente affrontati.

L‟opera di Bertaldo, a inizio XIV secolo, avrebbe poi spinto al potenziamento dell‟impianto consuetudinario, che si prestava alle necessità del ceto dirigente, argomentando che, come si è già detto, l‟adozione del diritto imperiale avrebbe aperto le porte della laguna ai tecnici del diritto e provocato una redistribuzione dei poteri.70 Questo irreversibile distacco dal diritto comune viene inoltre attestato, secondo lo stesso autore, dal concreto funzionamento delle magistrature veneziane, che si presentava come molto distante dalle esperienze altrove modellate sulla base del diritto comune. I principi che scaturivano da quest‟ultimo, come la figura monocratica del giudice, l‟organicità del rapporto tra competenza e giurisdizione degli organi e non solo, a Venezia vennero accuratamente evitati: organi collegiali e mancanza di un ordine preciso nell‟assegnazione delle pertinenze delle curie, una questione che si preferì lasciare all‟azione plasmante della consuetudine, caratterizzarono la prassi giudiziaria lagunare del XIII secolo.71

Dopo lo scoglio dell‟età del doge Tiepolo, la realtà giuridica e costituzionale veneziana nel basso Medioevo si presenta allora come incardinata su di una gerarchia delle fonti ben esplicitata. In realtà le ambiguità erano invece ancora forti, come è percepibile proprio nell‟amministrazione della giustizia: i giudici erano tenuti a osservare le norme procedurali contenute nei propri capitolari e poi applicare i contenuti delle promissioni del maleficio, nei casi criminali, e lo statuto, in quelli civili. Come ha osservato Pansolli, da una prospettiva formale la precedenza sarebbe dovuto spettare alle norme ratificate sia dai consigli governative che dalla

concio, cioè quell‟assemblea che rappresentava il populus privo di specifici diritti politici e che in

età ducale convalidava l‟elezione del dux.

I capitolari delle magistrature erano invece il frutto dell‟accorpamento delle risoluzioni votate in Maggior Consiglio e, in quanti tali, avrebbero dovuto essere fonti ausiliarie, integrative. Quest‟apparente discrasia giuridica è in realtà il riflesso dei mutevoli rapporti di potere che, dopo lo stabilimento della gerarchia delle fonti avvenuta nel XIII secolo, posero in primo piano l‟organo politico veneziano come conseguenza del progressivo esautoramento dell‟assemblea popolare. Che i giudici facessero più attenzione a rispettare le delibere del Maggior Consiglio è desunto, da Pansolli, dal fatto che quest‟ultimi fossero a loro volta membri del consiglio lagunare e appartenenti allo stesso ceto degli altri partecipanti alla vita politica.72

70 A. Padovani, La politica del diritto, in G. Cracco, G. Ortalli (a cura di), Dalle origini alla caduta della

Serenissima, 2, L'Età del Comune, Roma 1995, pp. 303-329.

71 Idem, Curie ed uffici, in ivi, pp. 343-345.

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LE DINAMICHE COSTITUZIONALI NEL RINASCIMENTO

Se questa ambiguità venne risolta sul piano informale senza creare strappi istituzionali o tensioni costituzionali, il Quattrocento fu invece la cornice in cui gli assetti veneziani furono sottoposti a forti pressioni e messi di fronte a una scelta determinante. In primo luogo, la famosa vicenda che ebbe come protagonisti il doge Foscari e il Consiglio dei Dieci segnò un forte punto di rottura non solo istituzionale, ma ripropose con forza la questione della posizione dogale di primus inter pares all‟interno del sistema repubblicano.73 Il timore di degenerazione tiranniche si era concretamente presentato nel secolo precedente in più di un‟occasione, ma non si erano affatto assopite, come si evince dalle continue revisioni alla

promissio ducale.74 Questa era l‟insieme di norme e limitazioni che il nuovo doge doveva giurare

di rispettare, regole che ponevano paletti alla sua autorità e aspirazioni personali75. In secondo luogo, la forte espansione territoriale, non più solo verso il Mediterraneo orientale, ma anche in direzione della penisola italiana, avvenuto a inizio secolo, pose il ceto dirigente lagunare di fronte ad una domanda spinosa.76

A prescindere dal dibattito circa la legittimità nell‟inserire Venezia nel novero degli stati regionali d‟Italia, è necessario evidenziare come il patriziato veneziano, consolidato il dominio in Terraferma, dovette scegliere se e come integrare i nuovi territori e le nuove realtà sociali assoggettate all‟interno della Repubblica.77 In altre parole, la questione era se cooptare i notabilati locali nel governo dello stato marciano, conferendo loro diritti politici simili a quelli goduti dal patriziato. La risposta fu inequivocabilmente negativa. Si decise di conservare inalterati i rapporti vigenti sia all‟interno delle realtà suddite che tra governanti e governati, istituendo una separatezza giuridica che regolò la Repubblica tra XV e fine XVI secolo.

Venezia mantenne la propria fisionomia di città-stato e preferì limitarsi a inviare i propri patrizi come rappresentanti della Signoria nelle città e territori acquistati. Il problema

73 Sulla vicenda e le conseguenze costituzionali cfr. G. Gullino, La saga dei Foscari. Storia di un‟enigma, Verona 2005; D. Romano, La rappresentazione di Venezia. Francesco Foscari: vita di un doge nel Rinascimento, Roma 2012; si veda anche la recente rilettura in D. Dibello, Dinamiche istituzionali e prassi normative nella Venezia del

tardo medioevo. Nota al caso Foscari, «Archivio Veneto», 12 (2006), pp. 5-21.

74 Sulla congiura Querini-Tiepolo cfr. Ruggiero, Politica cit., p. 399; sulla vicenda del doge Marino Falier si veda G. Ravegnani, Il traditore di Venezia. Vita di Marino Falier doge, Roma-Bari 2017.

75 Cozzi, Repubblica di Venezia cit., pp. 95-96; Pansolli, La gerarchia cit., pp. 61-82.

76 Mallett, La conquista cit., pp. 181-244.

77 A. Menniti Ippolito, Le dedizioni e lo stato regionale. Osservazioni sul caso veneto, «Archivio Veneto», 162 (1987), pp. 5-30. Per una riflessione più recente si veda M. Gentile, Leviatano regionale o forma-stato composita?

Sugli usi possibili di idee vecchie e nuove, «Società e storia», 89 (2000), pp. 561-573. Una prospettiva interna,

attraverso l‟analisi di fonti politiche, giuridiche e letterarie coeve, è presentata da M. Casini, Fra città-stato e

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dell‟autorità formale venne risolto con poche innovazioni nel sistema dell‟amministrazione della giustizia: la creazione, nel corso del Quattrocento e di inizio Cinquecento di due nuove Quarantie, per gestire il carico di appelli che dal dominio giungevano in laguna; l‟istituzione degli Auditori novi-Sindaci, che dovevano recarsi nei diverse giurisdizioni e giudicare gli atti dei rettori. Anche gli Avogadori di Comun, attraverso le loro prerogative giurisdizionali, finirono per avere un rilevante ruolo nella gestione dei rapporti tra Venezia e la Terraferma nel primo

secolo e mezzo di dominio.78

La potenziale svolta costituzionale era stata allora moderata con alcuni aggiustamenti sul piano istituzionale, simili peraltro a quelli adottati nei confronti del variegato stato da mar. La separatezza giuridica rispetto al centro lagunare si era tradotta, per i maggiori centri della Terraferma, in un certo grado di autonomia e, soprattutto, nella preminenza dei tribunali cittadini grazie al valore ideologico costituito dal diritto romano. Fu proprio lo ius commune a riproporsi come protagonista di una vicenda tutta interna all‟ambiente lagunare nella prima metà del Cinquecento. Si fa riferimento alla tentata riforma del diritto promosso dal doge Andrea Gritti.

Un tentativo ambizioso ma infelice, che avrebbe radicalmente cambiato il panorama giuridico veneziano in caso di successo. Difatti, i timori di perdere gli elementi più politici, e quindi concreti, che connotavano la giustizia veneziana ne impedirono la realizzazione. Sacrificare l‟arbitrium a favore dell‟introduzione dei tecnici del diritto, di cui tanto si diffidava,

avrebbe significato abbandonare l‟impronta consuetudinaria propria del sistema repubblicano.79

Al tempo stesso, ciò avrebbe implicato l‟avvicinarsi di più all‟ordine giuridico caratterizzante il tardo Medioevo, avvertito come poco utile al pragmatismo ricercato da una società che all‟epoca era ancora orientata verso il commercio, seppure dei profondi mutamenti erano in atto.80

Si preferì, in definitiva, affidarsi alla consuetudine ed alla costituzione informale che fino a

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