• Non ci sono risultati.

2. Paesaggio e territorio

2.4. Il "terzo paesaggio"

La difficoltà di indagine dei sistemi territoriali risiede sia sul piano dell’analisi empirica che su quello della elaborazione teorica, in cui il paesaggio appare orfano di un vero paradigma trasversale, capace di mettere insieme diverse tipologie di reti, come quelle ecologiche, quelle culturali, quelle urbane, quelle economiche, quelle infrastrutturali. Non mancano delle ipotesi circa l’esistenza di relazioni significative, come le

42

relazioni ecologiche connesse con le reti infrastrutturali e di interazione sociale (Dematteis, 1993). La riflessione critica e la sperimentazione sulle reti ecologiche hanno dimostrato la difficoltà e l’inopportunità di separarne il ruolo biologico da quello culturale ampiamente inteso (spingendo perciò ad elaborare il concetto di connessione bio-culturale). L’esperienza dei parchi ha evidenziato gli stretti rapporti tra i sistemi di aree protette in quanto risorse territoriali e i soggetti sovra-locali di governo del territorio. Un’ampia letteratura scientifica ha da tempo studiato le reti gerarchiche urbane (Camagni, 1990) e in particolare le relazioni sinergiche tra le reti urbane degerarchizzate, depolarizzate ed auto-organizzate e le reti equipotenziali dei trasporti, tutte caratterizzate dall'indebolimento dei vincoli di prossimità. Un obiettivo importante che ci viene posto dai nuovi scenari della globalizzazione è distinguere se le reti che si configurino come trame auto-organizzate delle realtà locali, possono contrapporsi dialetticamente agli ordinamenti gerarchici, o se, all'opposto, sono proiezioni di un ordine superiore che lega le realtà locali in sistemi di relazioni esogene ed eterodirette (Gambino, 2009). Il ruolo che ciascun nodo può svolgere nelle reti di cui fa parte dipende dai suoi caratteri specifici e dalla capacità di relazionarsi con le risorse del sistema-contesto. Perché il territorio non è fatto unicamente di un incrocio di reti diverse, ma di luoghi dotati di identità e, perciò, di una propria capacità di rapportarsi alle spinte globali, elaborando meccanismi di conservazione o trasformazione intrinsecamente dipendenti dalla propria capacità di auto- rappresentarsi e di essere rappresentati.

La città tradizionale aveva dei confini precisi, una popolazione ben definita che coincideva con un territorio. A partire dai primi decenni del XX secolo questa sovrapposizione diventa più rarefatta. L'avvento della città metropolitana crea un'entità territoriale funzionale costituita da un

43 core e da una periphery. La città si perde in uno spazio non precisamente

definito, in opposizione alla campagna e la questione della naturalità pone il problema dei diversi modi in cui l'uomo è presente nell'ambiente. Ad esempio, il termine giardino non sta più ad indicare l’hortus conclusus, il luogo chiuso delimitato dal recinto che protegge la natura ordinata dall’uomo dalla natura selvaggia e ostile che viene tenuta fuori dalle mura. Il giardino planetario (Clément, 2008) è contemporaneo alla città globale come il parco urbano lo era alla città dei secoli scorsi. Interpreta la natura contemporanea dell’ambiente antropizzato, la diversità degli esseri sul pianeta e la necessità di un ruolo gestionale di questa diversità da parte dell’uomo. Il concetto di giardino planetario si fonda su una triplice constatazione: il limite ecologico, la mescolanza planetaria, la pervasività dell’azione antropica.

In questo scenario nasce un paesaggio interstiziale, un territorio frammentario, residuo, sospeso. Il termine Terzo Paesaggio viene utilizzato da Gilles Clément per la prima volta nel 2003, in una analisi paesaggista del sito di Vassivière, nel Limousin. L’analisi evidenzia il carattere duplice di questo paesaggio: da un lato l’ombra, con le coltivazioni forestali dominate dalle piantagioni di pino Douglas, dall’altro la luce con le coltivazioni agricole principalmente dedite alla pastorizia. Queste due categorie di paesaggio individuate non esaurivano però la sua descrizione, ce n’era una terza dove si rifugiavano e sopravvivevano le specie vegetali scacciate dall’uomo con il diserbo. Questo terzo ambiente era costituito da lande, torbiere, ripe, bordi di strada, luoghi incerti, i “frammenti indecisi” del giardino planetario che rappresentano la somma degli spazi abbandonati dall’uomo e dove la natura riprende il controllo. A queste formazioni residuali e relittuali si aggiungono i territori tutelati istituzionalmente, aree protette, parchi e riserve e le riserve di fatto: i luoghi inaccessibili, incolti, i

44

deserti, le cime montuose. Il Terzo Paesaggio è, quindi, uno spazio privilegiato che accoglie la diversità biologica e si contrappone all’insieme dei territori antropizzati sottomessi alla gestione e allo sfruttamento dell’uomo. La gestione antropica delle componenti naturali del paesaggio seleziona la diversità e a volte l’esclude del tutto. Nei siti industriali, nelle città, in quasi tutti i luoghi dell’attività umana, dal turismo alle colture agricole e forestali, si riduce a poco o nulla la biodiversità. Anche dove la natura è affidata alle pratiche agricole delle sue componenti rimane ben poco, il numero di specie che ritroviamo in un campo coltivato o nel sottobosco di un impianto forestale è molto basso se confrontato con quello che sopravvive in uno spazio relittuale. Questa concezione ecologica e non patrimoniale del territorio conferisce valore positivo ad elementi come l’instabilità, la contiguità, l’improduttività, e a quelle che vengono definite da Clemént come pratiche consentite di non organizzazione. Questa visione del paesaggio contrappone l’innovazione biologica all’accumulazione economica. Per Gilles Clément il Terzo Paesaggio è come il Terzo Stato, del quale l’Abbé Siéyès diceva: «Cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che ruolo ha nel presente? Nessuno. Cosa vuole diventare ? Qualche cosa.» Nei residui di un’organizzazione territoriale si detiene la qualità del paesaggio planetario e all’uomo è riservato un ruolo decisivo dove il suo rapporto con la natura deve essere riconsiderato alla luce di una nuova attenzione alla diversità, sebbene Clément non parli di Terzo Paesaggio in termini naturalistici o ecologici, collegandolo piuttosto alla demografia. Clément si pone contro ogni forma di tutela e regolamentazione, affermando che l’uomo non deve applicare al Terzo Paesaggio i principi comuni dell’organizzazione del territorio, ma elevare la “non azione”, o un’azione minima, come possibile forma di rispetto nei confronti dei tempi e dei modi di crescita che appartengono alle diverse entità che compongono il

45

complesso mosaico della biodiversità. La proposta di lettura del paesaggio offerta da Clemént si oppone a quella dominante, operata attraverso una selezione strumentale degli elementi del territorio - forme naturali e antropiche, gruppi sociali e identità locali, specie autoctone e allogene - che confluisce inevitabilmente in una lettura e in una visione dello spazio propria di una classe sociale e quindi tendente ad escludere quelle di altri gruppi sociali.

46