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Il valore condiviso e lo sviluppo sostenibile

2. DALLO SVILUPPO SOSTENIBILE ALLA CREAZIONE DI VALORE CONDIVISO

2.3. LA CREAZIONE DI VALORE CONDIVISO

2.3.1. Il valore condiviso e lo sviluppo sostenibile

Oltre a Porter e Kramer, molti altri economisti hanno avanzato teorie sul superamento del conflitto tra profitti e sociale da parte delle imprese e sulla creazione di valore condiviso. In particolare Leandro e Neffa (2012) hanno discusso del concetto di valore condiviso all'interno dei problemi inerenti all'impatto ambientale delle aziende e allo sviluppo sostenibile.

Essi affermano che il capitalismo ha un bisogno continuo di materie prime per aumentare e mantenere la produzione, ma che la crescita esponenziale di produzione e consumi è incompatibile con la quantità limitata di risorse naturali presenti nel nostro pianeta. Per risolvere questo continuo consumo di risorse da parte delle imprese i governi dovrebbero prima di tutto focalizzare la propria attenzione sul concetto di sostenibilità ambientale, successivamente trovare le relazioni tra sviluppo sostenibile e produzione capitalistica identificando il modo in cui la sostenibilità socio-ambientale colpisce le vite degli individui che vivono nel contesto in cui l'impresa opera ed infine

devono trovare il percorso da attuare per porre in essere operazioni ambientali che creino valore per le imprese e per la collettività.

Le soluzioni adottate dai governi fino ad oggi circa l'impatto ambientale con scopo di mantenere la competitività delle imprese e dello Stato si sono concentrate specialmente sulla scelta dei materiali da utilizzare e non sui problemi sociali. E' Veiga (2010) che pone l'accento su questa questione affermando che tutto il sistema economico ora si sta spostando verso una continua ricerca di nuovi materiali meno impattanti e questa nuova competizione, non guardando alle esigenze della società, genera conflitti sociali, problemi di salute ed educazione e la decadenza del sistema urbano. E' il problema che ho esposto precedentemente parlando di sviluppo sostenibile: nella valutazione della sostenibilità, i governi non devono guardare solo all'aspetto economico perché anche se è l'indicatore più espressivo e di più facile comprensione, non osserva con attenzione gli altri due lati del triangolo dello sviluppo sostenibile: la società e l'ambiente.

Come detto precedentemente lo sviluppo sostenibile ha inserito la variabile natura all'interno delle politiche economiche attuate dai governi e dalle imprese, quando prima veniva considerata come esterna alla società e materia di competenza degli ambientalisti: partendo dal presupposto che le risorse ambientali venivano utilizzate dalle imprese nel loro ciclo produttivo e che le tecnologie e l'innovazione avrebbero consentito a tali risorse di poter essere utilizzate infinitamente se sostituite da altre, lo sviluppo sostenibile ha trasformato la natura in capitale, con conseguenze sul sociale e sull'ambiente stesso. (Leandro e Neffa parlano di “ambientalismo a libero mercato”). Secondo Veiga (2010) i governi e le società hanno ormai assorbito il concetto di sostenibilità, ma i primi devono concentrarsi sul trovare delle relazioni forti tra economia ed ecologia: il motivo del perché lo Stato non può più prendersi tutto l'onere di risolvere i problemi ambientali è insito nel fatto che i mezzi a sua disposizione rischiano di fermare lo sviluppo e la produttività, facendo ricadere gli effetti dei suoi interventi sui consumatori (vedi paragrafo precedente su traslazione in avanti). La collettività ben cosciente di ciò oggi chiede che siano le aziende a prendersi la responsabilità del degrado ambientale da esse provocato nella loro crescita, ed è qui che è nato il concetto di Corporate Social Responsibility (da qui in avanti CSR).

come una prerogativa della propria responsabilità esterna e dunque di rispondere di eventuali danni creati: oltre ad essere un concetto totalmente differente dal valore condiviso, la CSR viene spesso captata dalle imprese come pressione esterna e dunque tendente a farne diminuire i profitti, viene inoltre adottata solo per adempiere a leggi o evitare ripercussioni negative sull'immagine societaria ed in ogni caso non pone i problemi sociali al centro del business.

Il valore condiviso invece non cerca di limitare la responsabilità sociale dell'impresa, ma anzi spinge l'impresa a focalizzare il core business sui bisogni della società, in quanto essi hanno impatto sulla crescita aziendale e sull'efficienza operativa: se un'azienda lavora in e per una società che sta meglio, avrà certamente un ritorno economico, creando valore per sé e per gli individui circostanti.

Secondo Vaidyanathan e Scott (2012) la differenza tra CSR e valore condiviso sta nel fatto che il primo limita l'impatto sociale, mentre il secondo porta le imprese a vedere il progresso sociale come la chiave per lo sviluppo della propria attività e il raggiungimento del successo di lungo termine : si supera dunque il trade–off tra bene sociale e profitto aziendale.

Le due autrici nel loro articolo “Creating Shared Value in India: key to inclusive growth” (2012), elencano le differenza sostanziali tra CSR e creazione di valore condiviso, riassunte come di seguito: la motivazione della nascita della CSR sta nella reputazione aziendale e nella ricerca di accettazione della propria attività da parte della collettività; i driver di tale strategia sono gli stakeholders esterni; la misurazione avviene con metodi standard di controllo dei costi e dei benefici e viene tutto governato da appositi dipartimenti specializzati nella CSR; i benefici sociali vengono calcolati in base al successo ottenuto dai vari progetti mentre quelli societari vengono misurati in termini di riduzione del rischio e di aumento del valore dell'avviamento.

Il valore condiviso, invece, nasce dalla necessità di ottenere un vantaggio competitivo creando valore e il tutto viene guidato dall'inclusione dei problemi sociali all'interno della strategia aziendale; la misurazione viene effettuata guardando il valore economico e sociale creato e non c'è un dipartimento volto al suo controllo e al raggiungimento di determinate performance, ma tutta la struttura societaria viene permeata dal raggiungimento e dalla necessità di governare tale variabile. I benefici sociali vengono

misurati guardando i cambiamenti sociali di larga scala mentre quelli societari guardando le nuove opportunità di business create.

E' chiaro dunque come il valore condiviso sia totalmente diverso dalla CSR nella soluzione dei problemi inerenti al concetto di sviluppo sostenibile: se tutte le imprese attuassero strategie operative che rispondono ai bisogni sociali e che non producono degrado ambientale gli effetti positivi si vedrebbero in ognuno dei tre aspetti della sostenibilità. Dal punto di vista economico infatti, le imprese non solo riducono l'impatto ambientale e il consumo di risorse esauribili, ma creano un vantaggio economico sia per sé stesse che per lo Stato che non deve più sostenere i costi dell'inquinamento da una parte o bloccare lo sviluppo con misure restrittive dall'altra. Dal lato sociale, le imprese si focalizzano totalmente a rispondere alle necessità dei consumatori: con riferimento allo sviluppo sostenibile e al consumo di risorse naturali le imprese non si limiteranno a trovare i materiali meno inquinanti e a limitare continuamente il loro impatto sull'ambiente, ma faranno della riduzione dell'inquinamento lo scopo della loro strategia.

Dall'ultimo punto di vista, quello ambientale, il valore condiviso si traduce in un degrado ambientale ridotto al minimo, perché le strategie operative attualizzate hanno lo scopo di eliminarlo.

Un'altra relazione tra sviluppo sostenibile e valore condiviso ci viene data infine da Magatti (2012): egli infatti afferma, nel suo articolo “Crescere sulla base del valore condiviso” che il valore condiviso va oltre la logica di sfruttamento delle risorse contemplata nella sostenibilità e va contro la logica di consumo individuale dei beni avanzata dal capitalismo. Analizzare tutti i problemi inerenti la separazione tra crescita e impatto ambientale ha trovato nel valore condiviso la risposta ai problemi avanzati da Stato e società perché fa convergere i benefici ottenuti da quest'ultima con quelli dell'impresa.

Egli afferma inoltre, come Porter e Kramer, che il capitalismo ha il ruolo di dover soddisfare ed adeguarsi ai continui bisogni della società e che essi in questo momento confluiscono proprio nella necessità di valore condiviso, ma che questo si può realizzare solo con la collaborazione congiunta tra Stato, imprese e collettività. Vengono individuati dall'autore tre categorie di beni che possono essere utilizzati ai fini della

creazione di valore condiviso e che offrono degli spunti d'innovazione per i governi al fine di superare i problemi del controllo dei beni naturali e contemporaneamente quelli della crisi economica attuale: i beni contestuali, cognitivi/culturali e i relazionali.

I primi sono i beni che migliorano il contesto in cui la società svolge la sua attività e il più delle volte si parla di beni pubblici (a cui rimandiamo al primo paragrafo di questo capitolo per l'esposizione delle caratteristiche): come si è anche evidenziato nel corso del capitolo, la gestione di questi beni da parte dello Stato si è dimostrata totalmente inefficiente e dunque sono le imprese a doversi sostituire ai governi nella loro gestione e valorizzazione. Per farlo le imprese devono assumersi la responsabilità di questi beni trasformando la loro valorizzazione in opportunità di business.

I beni culturali o cognitivi sono quelli in grado di trasportare e fornire numerose informazioni: secondo Magatti (2012) si deve infatti passare ad un'economia della contribuzione, dove grazie allo scambio di informazioni tra imprese ed individui, si possono creare beni dove il ruolo del consumatore non viene separato da quello del produttore, perché entrambi ottengono lo stesso vantaggio da esso.

Infine i beni relazionali sono quei beni di cui un individuo può godere solo se condivisi con gli altri: un esempio di questa tipologia di bene è senza dubbio il welfare. Esso non deve infatti essere visto solo in un'ottica di riduzione dei costi della spesa pubblica e di efficienza nell'utilizzo delle risorse, ma anzi deve orientarsi a rafforzare il tessuto sociale aumentando i servizi a favore dell'individuo creando valore: solo così il welfare può tornare ad innalzare il livello della qualità della vita e ridurre i costi per i servizi pubblici a carico della società e in questo modo può far convergere le azioni economiche con quelle sociali.