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2. Fenomenologia, semiotica e stili videoludic

2.2. Il videogioco mitico

Per ordine espositivo, iniziamo ad esaminare i videogiochi all’apparenza più “semplici”, i “mitici”, caratterizzati dal ritmo narrativo “statico” per cui il controllo dell’inquadratura rispetto alla Performance simulacrale è assente. L’aggettivo “mitico” è utilizzato nel quadrato semiotico di Floch in riferimento a quelle pubblicità con una funzione “costruttiva”, nelle quali ciò di cui si parla viene costruito dal e nel linguaggio. Nel nostro ambito, i

videogiochi mitici sono legati da una relazione di “contrarietà” rispetto a quelli “referenziali” (che analizzeremo nel prossimo paragrafo), in quanto oppongono alla “volontà di rappresentare il reale” una “volontà di non rappresentare il reale”7.

Per fare un parallelo con l’arte in vista del principio fenomenologico della “ripetizione differente”, l’elettromorfismo esibirebbe una volontà costruttiva. Gli operatori visivi propriamente elettromorfi non si accontentano infatti di “rifare” o al massimo stravolgere il dato naturale – così come avviene per i movimenti postimpressionisti – ma di sostituirlo definitivamente con un oggetto ispirato tautologicamente alla sfera dell’arte e ai suoi codici figurativi. A differenza del sentire moderno, in un contesto elettrotecnico la percezione visiva non è più considerata come il mezzo privilegiato per cogliere e raffigurare la “verità” del mondo, bensì come veicolo di una rappresentazione “verosimile” ed illusoria di quest’ultimo. Come ha sentenziato Braque, “una cosa non può essere insieme vera e verosimile”8.

L’arte elettromorfa ripudia pertanto la concezione meccanomorfa dello spazio, in quantoi tempi di percorrenza delle distanze – scandagliate da raggi ottici rettilinei e simboleggiate dalla prospettiva aerea – non hanno più valore nei campi elettromagnetici di Maxwell, attraversati da flussi eterei di elettroni che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce. Secondo Barilli “in un regime elettromagnetico […] l’oggetto non è più colpito da raggi ottici lineari, bensì da onde, le quali oltretutto hanno una velocità così alta da rendere praticamente irrilevante il concetto di distanza”9. Per

questi motivi, il linguaggio elettromorfo non risponde ai principi di verosimiglianza meccanomorfi (“rappresentazionali”) volti a compiacere l’occhio, ma restituisce nelle sue tele uno spazio artefatto (“costruito”) e deformato dalla traslazione ininterrotta

del punto di vista, simbolo del moto eccentrico ed istantaneo delle onde elettromagnetiche.

Poniamo sotto esame uno dei videogiochi più celebri della storia videoludica e che presenta in modo paradigmatico le caratteristiche di un’opera mitica, Pac-man (1980) [1].

1. Pac-man, Namco, 1980.

Come primo step è necessario identificare la tipologia dominante di protesi digitale, affinché si possano analizzare lo stile e le forme espressive del videogioco in questione. Dato il ritmo narrativo statico, ovvero l’impossibilità di gestire l’inquadratura, non rimane che individuare il simulacro, che in questo caso coincide con l’avatar Pac-man, il personaggio su cui il giocatore esercita un controllo. Lo spazio topico richiama “differentemente” l’elettromorfismo, in quanto il simulacro svolge la Performance in una dimensione prettamente bidimensionale, “superficiale”, secondo la terminologia wölffliniana. Ad esempio, lo spazio in cui è possibile

“mangiare” (Performance) i puntini luminosi disseminati lungo il labirinto permette dei movimenti simulacrali non in profondità ma su una superficie distesa e piatta, per cui la narrazione performativa si realizza sulla base di scorrimenti laterali. A livello grafico, l’assenza di piani di profondità è simboleggiata dallo sfondo nero che si staglia al di sotto del labirinto, a marcare un grado zero per il valore meccanomorfo di “profondità” e “distanza”.

La “superficialità” è dovuta al punto di vista mitico, che risponde alla categoria della “molteplicità”. Lo “schiacciamento” del labirinto determina la simultaneità della visione di tutti gli elementi del mondo di gioco, per cui si instaura una sovrapposizione e una compenetrazione di piani spaziali entro una condivisa superficie bidimensionale. Gli oggetti posti nello spazio si qualificano secondo un principio di “ubiquità”, per cui le informazioni di cui sono detentori sono recepite dal Soggetto simultaneamente in un unico atto percettivo. La visione non è ristretta entro un inquadramento prospettico di una porzione limitata di mondo, ma si inscrive in una percezione globale (“molteplice”) dello spazio in ogni sua dimensione e sfaccettatura. Per questo motivo, l’interazione con il fuoricampo tramite la riconfigurazione dell’inquadratura – caposaldo dei videogiochi referenziali – nei videogiochi mitici non ha alcun rilievo diegetico, narrativo.

Si consideri la posizione del simulacro Pac-man (evidenziato in rosso) rispetto ad una power pill, la sfera di luce cerchiata in verde [2].

2. Pac-man, Namco, 1980.

3. P. PICASSO, Ma Jolie, 1911-1912.

Il giocatore non osserva il mondo di gioco attraverso gli “occhi” dell’avatar-simulacro, in quanto può scorgere la power pill al di là dei muri che dividono Pac-man dall’oggetto

in questione e che quindi ne occluderebbero la vista. In tal senso, lo spazio mitico rievoca lo spazio elettromorfo in cui “il centro è dappertutto”10, in un universo dominato dalle

altissime velocità degli elettroni che trasmettono informazioni attraverso la materia solida. La morfologia dello spazio mitico si struttura quindi secondo uno schema curvilineo a “proiezione cilindrica”11, in opposizione (contrarietà) alla costruzione

rettilinea a “proiezione conica”12 dei videogiochi referenziali.

Data la simultanea “molteplicità” percettiva del ritmo narrativo statico, la diegesi mitica è caratterizzata della “chiarezza”. Ovviamente, in virtù dell’interattività e della quadrimensionalità dello spazio, non si tratta di individuare superfici chiare o scure, fonti di luci o zone d’ombra, ma determinare con quanta evidenza gli elementi cognitivi si manifestino all’interno di una data inquadratura e non siano quindi celati nel fuoricampo. Possiamo intendere in tal senso lo spazio mitico come uno “spazio striato”13, in cui ogni luogo

“assolve una funzione nell’economia generale del racconto”14

ed è contraddistinto da “precise forme di azione”15.

Per illustrare in che modo intendiamo applicare la categoria wölffliniana della “chiarezza” ai videogiochi, raffrontiamo Pac- man originale mitico [1] e la versione referenziale FPS-MAN (2013) [4].