• Non ci sono risultati.

Oltre la morte dell’autore

1. Culturologia e videogioch

1.1. L’arte videoludica come normalizzazione del Dadaismo L’obiettivo primario di questa trattazione riguarda il far

1.1.2. Oltre la morte dell’autore

Il creatore, inteso come homo faber, artefice di manufatti pregiati e irripetibili mediante l’utilizzo di strumenti volti a piegare la materia fenomenica, nel Dadaismo è destituito dal suo ruolo di “vate”. È un’artista baudelairiano, la cui aureola è scivolata nel fango degli anni ’60 del XIX secolo, all’alba dell’era postmoderna. Nell’era elettrotecnica, secondo la prospettiva dei Dadaisti, non ha più senso esibire un’oggetto da omaggiare per mezzo di raggi ottici rettilinei. Le onde elettromagnetiche aggirano i corpi fisici e offrono possibilità ben più ampie rispetto a quelle ristrettive dell’inquadramento spaziale albertiano e cartesiano. È in ciò che consiste il ruolo elettromorfo dei ready-made, ovvero immergere fruitore e creatore in uno stesso campo crivellato da elettroni e da flussi elettronici fulminei e onnipresenti, che avvallano le distanze tra menti e generano costantemente energia inesauribile.

L’idea di oltrepassare la dimensione entropica dell’arte meccanomorfa e il rapporto gerarchico tra produzione e ricezione era quindi già presente nella mente degli artisti di inizio Novecento. Ciò che si vuol ribadire è che il linguaggio videoludico – interattivo e performativo – non è una monade che si staglia solitaria ma si inserisce a pieno titolo nella storia dell’arte e si confronta con le precedenti teorizzazioni estetiche. Perché dunque l’arte videoludica non si è manifestata con il Dadaismo?

La risposta che potremmo azzardare consiste nel tipo di tecnologia che caratterizza il supporto materiale di opere appartenenti ad una determinata congiuntura generazionale. Si potrebbe infatti affermare (provocatoriamente) che Duchamp, in assenza di una tecnologia elettronica come quella informatica, non può che proporre una rinuncia. Per far accedere il fruitore all’atto creativo nonostante l’assenza di un supporto elettrotecnico, l’artista Dada punta a bandire quanto più è possibile l’esercizio di competenze artigianali nella produzione di un’opera, attività accusata di alimentare il gap entropico. I Dadaisti cercano di eclissare quanto più è possibile la presenza dell’autore nell’opera per di valorizzare la ricezione, tradizionalmente vincolata alla mera presa d’atto della superficie. Il fine è consentire ai significati immateriali di emergere nella loro pienezza per instaurare una reciprocità tra creatore e fruitore, senza dissipare e dunque distorcere il senso nella materia.

Il ripudio della produzione del significante visivo comporta tuttavia una ridefinizione dell’artista, non più autore di un oggetto-manufatto ma promotore di legami semantici, astratti. In altri termini, la creazione di un ready-made consiste limitatamente nell’apprestare un’“intenzionalità”, motivo per cui è legittimo eleggere anche il più futile utensile opera d’arte. Infatti, “l’intero universo può essere riconsiderato ʻsotto specieʼ di valore estetico, pur di far scattare gli indici opportuni”17. Esibire uno scarto industriale, come un orinatoio

[2], tra i marmi di un museo non è nient’altro che un’operazione artistica, perché così l’autore ha voluto “intenzionare” un oggetto. Oggetto, sia chiaro, non necessariamente visibile18.

L’“intenzione” di acclamare un orinatoio “opera d’arte” è pertanto condizione necessaria e sufficiente nel processo di

creazione, che non prevede alcuna realizzazione concreta di significanti confezionati e definiti dall’artista.

2. M. DUCHAMP, Fontana, 1917.

Si considerino le riflessioni sul senso della Fontana (M. Duchamp, 1917) in quel tempo esposta, contenute in un trafiletto anonimo del 1917 della rivista «The Blind Man», condotta da Duchamp:

se Mr. Mutt19 abbia realizzato o meno la fontana con le sue stesse mani non ha alcuna importanza. Egli l'ha SCELTA. Ha preso un oggetto della quotidianità, l'ha collocato in modo tale che il significato denotativo scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista, in modo da concepire un pensiero inedito per l'oggetto20.

Lasciar percepibile traccia di sé implica una corruzione nel passaggio di informazioni tra autore e fruitore, una macchia indelebile intrisa di entropia che difficilmente un osservatore potrebbe cancellare. Personalizzare un’opera tramite uno stile

significante, infatti, la denota in un’alterità irriducibile per il fruitore, che non la riconosce come propria ma come frutto di una mente “altra”, il cui raggiungimento è reso impossibile dal gap artistico.

Tuttavia, si potrebbe dichiarare (ancora provocatoriamente) che non c’è scambio paritario neanche nella Fontana di Duchamp. Una volta che il realizzare è fagocitato dal solo “intenzionare”, la ricezione è esclusivo luogo di senso che sfratta il creatore-artigiano. Unica operazione concessa all’autore, sul piano significante, è infatti la traslazione dell’oggetto da un’ubicazione ad un’altra, dall’esterno all’interno di un museo, se non l’apporvi una semplice firma, falsa21. Si sacrifica alla celebrazione della ricezione la propria

autorialità.

Si potrebbe dichiarare in tal senso la “morte dell’autore”, la sentenza di Roland Barthes22 che riproponiamo in via

metaforica. Di fronte allo smarrimento di un crudo orinatoio, orfano di elementi espressivi impressi da un’artista ormai nullificato, non resta che ricostruire un’unità di senso a partire dall’unica figura sopravvissuta, il fruitore. Per Barthes è “quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito”23. È il destinatario, non l’autore, la

sfera in cui si pronuncia il senso di un’opera. I desideri e le aspettative che l’artista sigilla nel proprio manufatto si dissolvono di fronte all’atto interpretativo del fruitore, diverso, mutevole, “altro” rispetto all’autore. In altre parole, Duchamp è come se scegliesse la via del “suicidio” dell’autore, o meglio, di un certo tipo di autore, cioè quello tradizionale, affinché lo spettatore non si confronti con un’opera dalle energie entropicamente esaurite ma con una dinamica “macchina celibe”.

Picabia, altro illustre esponente del movimento Dada, riconduce questa concezione artistica nella “Guerra alla

forma”24, contro il culto del significante, guerra dichiarata nel

Manifeste de l’Ecole Amorphiste25. L’amorfismo dei quadri

bianchi dalle nude cornici, come Danse de Saint-Guy (F. Picabia, 1922) [3], defenestra dalla tela gli “ingombranti cadaveri che sono gli oggetti”26, affinché non li si contempli

con gli occhi fisiologici ma con quelli del cervello, unico organo capace di captare il flusso “elettrologico” di informazioni inviate dall’artista senza interferenze.

3. F. PICABIA, Dans de Saint-Guy, 1922.

La fruizione dell’opera è dunque esclusivamente mentale, così come lo è la ricostruzione del senso: “è l’osservatore, o colui che guarda, che deve ricostruire la forma, talvolta assente e per questo necessariamente vivente”27. Anche Picabia

condivide infatti i propositi di Duchamp per un’arte neghentropica. Svincolarsi dai limiti dissipanti imposti dalla

forma significante, ostacolo per una ricezione immediata e trasparente, permette di produrre significati sempre nuovi, “elettronici” e per questo fulminei, e di colmare dunque distanze apparentemente insormontabili come quelle descritte dal gap artistico. Tutto questo, però, a patto che si ridimensioni l’autorità dell’autore e la si dichiari anche del fruitore. Sul piano significante, è come se si instaurasse un rovesciamento, dal dominio del creatore e del suo stile a quello del fruitore e dei suoi significati. Insomma, un aut-aut: o l’autore, come nel meccanomorfismo pittorico e scultoreo, o lo spettatore, come nell’elettromorfismo amorfo Dada28.

I videogiochi è come se cercassero in un certo senso di scongiurare tale opposizione manichea. Infatti, la normalizzazione videoludica consiste da un lato nel confermare le sperimentazioni dadaiste – la produzione neghentropica di informazioni e la valorizzazione dell’atto interpretativo del fruitore – dall’altro nel riproporre una concezione più “tradizionale” del ruolo dell’autore. Se la fruizione di un videogioco non rientra nella dimensione entropica e gerarchica dell’arte meccanomorfa, dato che il giocatore può intervenire attivamente tramite interazione, quest’ultima non avviene tuttavia solo a livello concettuale, noetico, così come nei ready-made e nell’arte concettuale, ma anche sul piano dell’espressione significante e tangibile. Il videogioco, infatti, non è una tela amorfa, ma è un coacervo di immagini, suoni, testi e talvolta sensazioni tattili29

che rimandano ad una ricezione più comunemente intesa in cui è prevista la contemplazione e l’ascolto. Nello schermo c’è effettivamente un mondo di gioco prima di tutto da “vedere”, risultato di uno stile percepibile e riconoscibile di un programmatore che non si limita ad “intenzionare” l’oggetto, ma lo confeziona con la sua sapienza artigianale. In altre parole, il giocatore fa parte del processo estetico di un’opera

non solo sul piano del significato ma anche su quello del significante, cioè può modificare elementi audio-visivi la cui trasformazione è il simbolo del suo atto interpretativo.

Eppure, tale intromissione del giocatore a livello formale non produce una corruzione irreversibile di quanto ha creato l’autore, come accadrebbe invece in un quadro o in una statua. La normalizzazione videoludica si concretizza in virtù del supporto tecnologico adottato, la macchina informatica, che grazie alla sua peculiare anatomia permette quella reciprocità incessante tra immissione e ricezione di informazioni agognata dai Dadaisti e descritta in questa sede dalla nozione di “neghentropia”.