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1. Culturologia e videogioch

1.1. L’arte videoludica come normalizzazione del Dadaismo L’obiettivo primario di questa trattazione riguarda il far

1.1.1. La macchina celibe

Scopo del Dadaismo è riformulare la funzione tradizionalmente assegnata all’artista, compositore di un manufatto inviolabile, per insistere invece sui significati che l’opera veicola, in modo da stimolare una dialettica operativa tra autore e fruitore. Come illustra Francesca Alinovi,

all’oggetto, costruito più o meno manualmente e con mezzi tecnici artigianali, verrà sostituita l’idea, l’invenzione, o il concetto che già in ogni caso precede la sua realizzazione. In altre parole, la cosiddetta arte concettuale, riformulata poi verso la fine degli anni ’60 ma inaugurata dalle operazioni di Duchamp e di Picabia, nasce dall’esigenza di garantire all’opera una durata che vada oltre la sua conservazione fisica, così da mantenere intatta e inalterata sia l’idea iniziale che il potenziale energetico ad essa connesso11.

Le opere e le riflessioni dei Dadaisti esprimono quell’in- terrogativo “normalizzato” dalla generazione della fine degli anni ‘60, da cui si sarebbe affermata l’arte videoludica: come far sì che le opere sfuggano all’entropia e acquistino un potenziale energetico in continuo aumento?

Marcel Duchamp, il “catalizzatore” più iconico del movimento Dada, codifica la questione nel concetto di “gap”, il “coefficiente d’arte”, ovvero la misura dell’“incapacità dell’artista ad esprimere compiutamente le sue intenzioni”12.

Nel mondo meccanico del dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, ovvero tra progettualità pensante e realizzazione concreta, l’atto creativo sconta infatti un’irriducibile inadeguatezza. L’autore non riesce a vincere la resistenza del supporto materico e i limiti della propria tecnica, insufficiente, per quanto raffinata, a restituire una copia fedele dell’idea originaria. Lo scalpello, il pennello o la penna si scontrano contro la durezza del marmo, della tela e della pagina, filtri di un surrogato distorto rispetto alla limpida immagine incisa nelle intenzioni dell’artista. Unicum nella storia dell’arte è il leggendario scultore Fidia, onorato da Plotino, poiché riuscì ad azzerare il fantomatico gap tra ideazione ed esecuzione e dunque a scolpire la figura di Zeus tale e quale gli si era presentata nella mente.

L’intervallo di tempo e di spazio tra progettazione e produzione, imposto dal mondo della termodinamica, non inficia infatti solo l’atto creativo ma anche la fruizione. Come la mano non raggiunge la mente, la mente di uno spettatore è remota rispetto a quella dell’artista, incapace il primo di cogliere appieno il senso che il secondo ha voluto imprimere nella propria opera. Il gap cui fa riferimento Duchamp è per noi ambivalente, perché riguarda il rapporto sia tra tecnica e intenzione immanente all’autore, sia tra quest’ultimo e il fruitore. L’opera sconta, una volta realizzata nella materia, un duplice svilimento “entropico”, dal momento che né risponde perfettamente alle intenzioni originarie dell’artista, né riesce a creare una sintonia diretta tra autore e fruitore. Quale soluzione per erompere dall’impasse imposto dal supporto “termodinamico”?

L’idea di un’arte che possa promuovere relazioni a generazione costante di “energia” è significativamente identificata da Duchamp con “l’idea di macchina, vale a dire con l’idea di una costruzione dinamica dal moto continuo e ininterrotto”13. Per Alinovi, infatti, i celebri ready-made di

Duchamp non sono nient’altro che macchine. Loro scopo è la rottura delle catene della contemplazione visiva a vantaggio di uno scambio incessante e simultaneo di informazioni tra artista e fruitore. Il ready-made di Duchamp è quindi una macchina ben diversa da quella termodinamica. È una “macchina celibe”14, aliena alla degradazione entropica e

motore inesauribile di energia in costante aumento secondo un principio di “neghentropia”, come l’avrebbe definito Charon nel suo saggio Lo Spirito questo sconosciuto15.

La temperie generazionale dada, scortata dagli albori elettrotecnici di inizio Novecento, tenta quindi di colmare il gap tra ideazione e realizzazione, tra autore e fruitore, per mezzo di una “macchina” elettrologica a conduzione neghentropica. Esemplare in questo senso l’opera di Duchamp Ruota di bicicletta (1913-51) [1], la cui desolante insignificanza permette di depauperare il valore canonicamente conferito allo stile autoriale e alla ricercatezza espressiva, per promuovere piuttosto una focalizzazione inedita sulla rete di relazioni semantiche che l’oggetto può suscitare. Rintracciare queste ultime spetta al fruitore che, dunque, acquisisce un ruolo fondamentale nel meccanismo di produzione estetica.

1. M. DUCHAMP, Ruota di bicicletta, 1913-51.

Semplificando, le macchine di Duchamp hanno poco da far “vedere”, poiché l’organo della vista, in regime elettrologico, si denuncia inefficace nella ricerca di senso, mentre vaga sulla superficie di un oggetto che nulla ha a che fare con il mondo dell’arte. Solo tramite il cervello, con un atto interpretativo, è possibile instaurare un rapporto attivo con un ready-made. In definitiva, non si deve intendere una “macchina” ready- made come il risultato di una composizione precedente di elementi stilistici – come se fosse un’opera tradizionale – ma come impulso inesauribile di connessioni noetiche tra autore e fruitore che prescindono dal supporto materico stesso.

I ready-mades, allora, non valgono in sé, in quanto oggetti, ma per le idee che riescono ad incarnare e a trasmettere, facendole scorrere, per così dire, dalla mente dell’artista a quella del fruitore. I ready- mades servono dunque semplicemente da tramite tra un’idea e l’altra, sono dei conduttori di elettricità, esistono solo come punti di

raccordo tra diversi pensieri che si comunicano tra un cervello e l’altro per mezzo di impulsi elettrici, scariche, scintille. Anzi, […] la loro funzione primaria è quella di creare sostanzialmente sempre nuovi pensieri, alimentando così indefinitamente il proprio potenziale energetico iniziale.16