• Non ci sono risultati.

Un film si compone di immagini in movimento chiamate inquadrature. Esse corrispondono all’unità espressiva di base del discorso filmico11, hanno una durata temporale e rappresentano uno spazio in continuità. In relazione allo spazio, un’inquadratura racchiude tra quattro lati una porzione di realtà ripresa secondo un determinato punto di vista. Temporalmente, la durata di un’inquadratura è determinata dal suo inizio, successivo alla fine dell’inquadratura precedente, e dalla sua fine, precedente all’inizio dell’inquadratura successiva (Rondolino, Tomasi, 2000).

Un’inquadratura racchiude una porzione di spazio, che è composta in un determinato modo (organizzazione dello spazio, dei personaggi, degli oggetti) e che può essere ripresa da diverse posizioni e angolazioni e da diverse distanze. La distanza della macchina da presa rispetto al soggetto inquadrato determina la scala dei campi e dei piani, a seconda che sia inquadrata rispettivamente una porzione di spazio o una figura umana. Il campo di ripresa definisce la posizione dello spazio inquadrato. Diversamente, il piano di ripresa è definito in relazione alla proporzione in cui viene inquadrata la figura umana.

Nel corso dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, alcune di queste figure hanno assunto funzioni espressive convenzionali, come, ad esempio, il primo piano spesso utilizzato per dare rilievo drammatico attraverso l’espressione dei tratti emotivi del personaggio inquadrato.

Il punto di vista inteso strettamente nel senso visivo è determinato dall’altezza (inferiore, maggiore o alla stessa altezza rispetto al soggetto inquadrato) e dall’angolazione (inclinando l’asse ottico rispettivamente verso l’alto o verso il basso, oppure verso sinistra o verso destra, angolando la macchina da presa lungo l’asse orizzontale) in cui è posizionata la macchina da presa durante le riprese, ma

11 Sono unità più piccole dell’inquadratura i fotogrammi, che corrispondono alle singole immagini

in cui è suddivisa la pellicola impressionata. Rappresentano un’unità tecnica e non del linguaggio cinematografico, che non è percettibile durante la proiezione di un film. Ciò che lo spettatore vede è un’immagine ovvero un’inquadratura composta da una serie di fotogrammi che scorrono alla velocità di 24 fotogrammi al secondo, producendo l’illusione del movimento.

anche dalla possibilità di sostituirsi ad un personaggio e riprendere “in soggettiva” ciò che esso vede, invece di optare per una ripresa “oggettiva”, che corrisponde allo sguardo di un osservatore esterno. Inoltre, la porzione di spazio inquadrata dipenderà dalla scelta di un particolare obiettivo (normale, grandangolo, teleobiettivo, zoom) che determinerà la profondità di campo dell’immagine ripresa.

Può essere interessante considerare i rapporti che vengono a crearsi tra ciò viene ripreso e appare in campo e lo spazio escluso dall’inquadratura visiva, che rimane

fuori campo.

L’inquadratura può essere fissa o dinamica, quando viene ripresa in movimento, come ad esempio facendo scorrere la macchina da presa su un carrello o una piattaforma mobile (carrellata), oppure muovendo la macchina da presa attorno al proprio asse (panoramica) o facendo semplicemente delle riprese a mano. Anche i movimenti di macchina nel corso della storia del cinema hanno assunto alcune funzioni convenzionali, per cui la panoramica viene utilizzata per esplorare lo spazio quando l’inquadratura fissa non risulta sufficiente a descrivere l’ambiente. Diversamente le riprese a mano, sensibili ai sobbalzi e alle irregolarità, tipiche del cinema d’autore degli anni Sessanta, danno un’impressione documentaristica e comunicano un effetto di realtà.

Un insieme di inquadrature nelle quali si svolge ininterrottamente un’azione nello stesso ambiente costituisce una scena.

Un’unità narrativa più estesa è rappresentata invece dalla sequenza, che racchiude un insieme di scene. Spesso queste sono strutturate rispettando la tripartizione classica in inizio, sviluppo e climax, e conclusione. Le unità di tempo e spazio possono variare o essere continue e generalmente sono caratterizzate da un’unità narrativa, tematico-stilistica compiuta.

Quando due inquadrature si succedono, i raccordi possono essere determinati da uno stacco semplice, oppure da effetti particolari, che possono assumere il ruolo dei segni di punteggiatura. Si ha una dissolvenza, quando l’immagine si dissolve in uno sfondo nero o neutro oppure sovrapponendosi all’inquadratura successiva. Un’insieme di sequenze costituisce l’unità più grande rappresentata dal film.

Volendo paragonare il linguaggio cinematografico al linguaggio verbale, l’inquadratura potrebbe corrispondere alla frase e la sequenza al paragrafo.

4.1.1 La componente sonora delle immagini

Nel 1926 viene realizzato il primo film sonoro (Il cantante di jazz del regista americano Alan Crosland) e l’aggiunta di una colonna sonora composta da dialoghi, musiche e rumori introduce significativi cambiamenti, determinando soprattutto un maggiore realismo delle immagini, una maggiore fluidità del racconto e un maggiore peso alla sceneggiatura, poiché le trame e i dialoghi determinano un ancoraggio delle scene girate ad una particolare posizione nel racconto.

La voce che accompagna le immagini può essere presente prevalentemente in due forme: nel dialogo, riferita quindi ai personaggi, e come voce narrate, che può essere di uno dei personaggi come anche di un narratore esterno alla storia.

Generalmente, alle voci vengono aggiunti rumori naturali e musiche che vengono utilizzati come integrazione naturalistica in combinazioni variabili di suoni e immagini.

La musica può provenire dall’ambiente in cui si svolge l’azione e quindi da una fonte appartenente alla storia che il film racconta con la funzione di rafforzare l’impressione di realtà, ma può anche essere extradiegetica ed assumere una funzione di commento dell’azione o di amplificazione emozionale, sottolineando gli stati d’animo dei personaggi e accentuando l’effetto unitario del film. Il più delle volte la musica mira a potenziare il senso espresso dalle immagini o in taluni casi a contraddirlo.

In rapporto con le immagini è possibile individuare tre tipi di suoni, sempre a seconda della posizione della sorgente del suono e quindi in rapporto allo spazio filmico:

1. suono in (in campo), quando la sorgente del suono (parole, rumore o musica) è visibile nelle immagini;

2. suono fuori campo (off): quando la sorgente non è visibile nell’inquadratura ma ne possiamo comunque presupporre l’esistenza nell’ambiente ripreso solo in parte;

3. suono over: quando non proviene da una sorgente esistente sulla scena mostrata e non fa parte dello spazio-tempo della diegesi (voce narrante, musica d’accompagnamento).

Riguardo al rapporto tra suoni in e off vale la stessa legge di reversibilità che regola la relazione spaziale tra le immagini: un suono fuori campo (off) può diventare in quando un movimento di macchina o un cambio di angolazione nelle riprese ne rivelano la sorgente.

Anche a livello uditivo, analogamente al punto di vista, è possibile parlare di punto di ascolto, di primo piano sonoro, di soggettiva sonora.

Solitamente, i suoni e le immagini sono simultanei e sincronizzati, ci sono tuttavia dei casi di non corrispondenza fra suono e immagine (asincronia). Queste sfasature possono consistere in ritardi o anticipazioni, per cui udiamo il sonoro riferito ad un’inquadratura precedente o successiva.

Al fine di poter decodificare correttamente il messaggio trasmesso da un prodotto audiovisivo, è importante considerare i rapporti che si creano tra i codici visivi e auditivi, che possono configurarsi in diverse combinazioni. I suoni possono quindi essere:

- paralleli all’immagine, quando si svolgono contemporaneamente all’immagine, seguendo l’ordine delle inquadrature e dei soggetti parlanti (ad es. nel caso dei dialoghi);

- complementari, quando le informazioni trasmesse dal messaggio verbale integrano l’immagine, completandone il significato;

- ridondanti, quando trasmettono le stesse informazioni già comunicate dalle immagini, che potrebbero essere comprese anche senza il sonoro;

4.1.2 La luce e il colore nelle immagini

Ad assumere un ruolo importante nella composizione delle immagini e nella creazione dei significati che queste trasmettono, contribuiscono anche le luci e i colori che le contraddistinguono.

La luce non viene utilizzata unicamente per rendere ben visibile allo spettatore ciò che accade sulla scena, essa può assumere delle funzioni importanti nell’organizzazione e alla caratterizzazione di ambienti e personaggi, contribuendo a determinarne il significato. Rondolino e Tomasi (2000: 63) sottolineano come:

“attraverso il gioco delle luci e delle ombre, dei chiari e degli scuri, del colore, lo spazio cinematografico acquista senso, si drammatizza, diventa parte integrante e costitutiva della narrazione stessa.”

Anche l’illuminazione può essere distinta a seconda della posizione della sorgente di luce, che può trovarsi all’interno della scena (lampade, candele) e far parte della storia narrata (luce intradiegetica), e che spesso viene utilizzata per giustificare la luce proveniente da fonti esterne (luce extradiegetica), come riflettori o altri dispositivi tecnici.

Numerose sono le potenzialità espressive di luce, ombre e colori. Possono essere utilizzati in funzione di una narrazione classica, mettendo in evidenza ambienti e personaggi in modo chiaro e riconoscibile, e facilitando allo spettatore la comprensione di ciò che mostrano le immagini, come anche rendere ambiguo o contraddittorio il soggetto inquadrato, assumendo significati simbolici.

Anche il colore può essere utilizzato per rafforzare l’effetto realistico delle immagini, o può diversamente assumere una funzione espressiva, connotando il significato di quanto inquadrato attraverso effetti di colore particolari (utilizzo di toni caldi o freddi, associazione di colori particolari a situazioni, personaggi, esprimendo determinati stati d’animo).

Inoltre, il colore è un elemento importante anche nei film in bianco e nero, dove le tonalità di grigio, i bianchi e i neri vengono utilizzati con funzione espressiva. Un esempio è rappresentato dal cinema espressionista tedesco, che predilige

un’illuminazione altamente contrastata, e il contrasto tra luci e ombre assume importanti implicazioni simboliche.

Documenti correlati