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Un’immagine d’insieme

Nel documento Violenza domestica in Italia - tesi (pagine 58-60)

LA RAPPRESENTAZIONE MEDIATICA DELLA VIOLENZA DOMESTICA: STEREOTIPI, PROBLEMI E DISCORSO EGEMONE

2. Un’immagine d’insieme

Se ad una prima occhiata i messaggi proposti presentano una qualche somiglianza, uno sguardo più profondo potrebbe far comparire delle rappresentazioni intrise di stereotipi culturali, riproposti incessantemente. Per cercare di ricostruire un disegno complessivo dei documenti finora discussi e rendere evidente quanto gli spot ricalchino la cultura sessista allora, diventa necessario passare in rassegna le immagini ricorrenti di donne e uomini di cui si ha evidenza.

Dall’analisi appena proposta risulta abbastanza evidente che le star incontrastate dei messaggi mediatici relativi alla violenza domestica siano le donne. Un’attenta osservazione rivela alcuni pattern ricorrenti, che nondimeno rimandano ad un’immagine stereotipata delle donne maltrattate. Di seguito cercherò di darne una panoramica.

L’ingenua. Crede che l’uomo che la maltratta lo fa “per gelosia,perché troppo

innamorato”.Giustificazioni su giustificazioni si accumulano per convincere sé stessa e gli altri che, dopotutto, un comportamento manesco sia sintomo di “vero amore”.

L’incredula. Fa del “lasciar correre” il suo approccio principale alla violenza. Si può trattare

di chi, davanti a minacce di molestie le prende sul leggero e di chi, davanti al fatto compiuto, si ostina a credere che si tratti solo di un brutto momento, come passano tante coppie. Prima o poi finirà.

La comprensiva. Perdona chi la picchia per il suo eccessivo buonismo e perché, in fondo, ci si ama.

La timorosa. Soffre, ma le manca il coraggio e la risolutezza di troncare un rapporto in cui credeva.

L’impavida. Nonostante sia una decisione difficile denuncia chi la maltratta. Che si tratti di

denuncia privata(alle autorità), o pubblica(attraverso i principali mezzi di divulgazione di informazione) si parla di una donna che dimostra non solo molto coraggio ma anche obbiettività verso la situazione di pericolo.

La realista. Al primo segnale di violenza si allontana, certa che sia la cosa giusta da fare. Da una parte dunque, abbiamo una donna stereotipata come vittima, prima del suo carnefice e poi di sé stessa: incredulità, ansie, giustificazioni la rendono “complice” nella sua situazione di prigionia. E’ di fatto una donna debole, che nella sua passività è riconducibile al modello di donna previsto dalla cultura maschilista: questa, con le sue immagini, finisce inevitabilmente per influenzare anche le rappresentazioni della violenza. Dall’altro lato invece abbiamo un’immagine totalmente contraria, spesso scoraggiata in una cultura sessista: ci si presenta davanti agli occhi una donna forte che decide di non soccombere all’uomo, ma di reagire. Due immagini opposte come queste, non mancano però di essere messe in relazione: in nessun caso la condizione di vittima è presentata come eterna. Anche qualora la rappresentazione abbia un finale tragico infatti, è frequente il ricorso a scene che mostrano cosa sarebbe successo se si fosse agito diversamente. Insomma, la violenza è mostrata come un tunnel dal quale si può uscire, basta solo un po’ di forza di volontà e pragmatismo.

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Da un passaggio di condizione come quello appena delineato si può dedurre che l’idea prevalente su cui queste rappresentazioni vengono coniate sia quella di “fasi di elaborazione e accettazione della violenza”, momenti che vengono percepiti nella coscienza pubblica comune in termini di fasi temporalmente distinte.

Luciano Di Gregorio, psicologo operante sul territorio toscano,ne da una chiara descrizione nel suo libro “L’ho uccisa Io. Psicologia della violenza maschile e analisi del femminicidio” :

“La vittima designata prima reagisce assumendosi la responsabilità personale dell’infelicità e dell’insoddisfazione del suo compagno. Si colpevolizza e crede di non essere stata all’altezza del compito di farlo felice, pensa di avere sbagliato qualcosa. Per cercare di rimediare cerca di decifrare ogni volta gli umori del partner e si assume il compito di riportare il suo compagno alla condizione di felicità precedente, si fa promotrice del potenziale cambiamento del partner e, per un certo tempo, crede davvero di riuscire a cambiarlo in meglio. Ma quando verifica che i suoi sforzi risultano vani,che le colpe che le vengono riversate addosso sono eccessive e che i maltrattamenti sono gratuiti, si rende conto che l’amore in cui aveva creduto non c’è più, si è trasformato in un rapporto conflittuale dominato dall’odio e dalla violenza di genere. Superata la fase di confusione e

disorientamento, a volte con l’aiuto di altre donne, o attraverso il confronto con le amiche, si rivolge a un Centro di ascolto, dove parlando di sé e della sua situazione prende finalmente coscienza della propria condizione e della realtà in cui versa il rapporto di coppia. Una volta che ha preso coscienza della sua condizione di vittima di abusi, che subisce senza essere responsabile di ciò che di

moralmente umiliante sta vivendo il suo partner, essa passa dal dispiacere per un amore che pensava che si fosse frantumato a causa sua, all’insofferenza per il compagno che la maltratta ingiustamente. E poi ancora più in giù, fino ad arrivare all’indolenza totale e all’odio manifesto, che la spinge, pur con timori e paure, verso il desiderio di separarsi dal suo carnefice”(Di Gregorio, 2014, p.48)84. Un discorso ricorrente questo, che ponendo la condizione di vittima come temporanea e reversibile e suggerendo a tutte coloro che hanno incontrato il problema di fronteggiarlo attraverso le risposte istituzionalmente proposte invita a rompere un silenzio inopportuno.

Che dire invece della figura maschile che emerge dalle rappresentazioni mediatiche italiane circa la violenza domestica?

Anche in questo caso nei testi sopracitati possiamo rinvenire delle raffigurazioni modello. Presenti in buona misura sono le immagini del maltrattante, le quali oscillano tra il rarefatto e il concreto: di lui si può semplicemente intuire la presenza dai segni sul volto della donna; si può sentire la

voce85;si può intravedere la figura, che però ha spesso i contorni del corpo e del viso sfuocati, quasi come a significare che quella persona potrebbe essere chiunque. Forme sempre più tangibili sono quelle di uomini “catturati” nel momento del raptus d’ira; in quello dove si rifugiano nell’alcool prima o dopo il compimento dell’abuso;o ancora nell’istante in cui si mostrano incoerenti con le loro azioni chiedendo scusa, negando il problema, rifiutandosi di ragionare.

In generale insomma, sembra dominare l’idea di un uomo che davanti ai problemi non sa far altro che rispondere con la violenza, “ l’ultimo rifugio degli incapaci”86. Ma fare di tutta l’erba un fascio

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Ritengo che parlare di stadi di accettazione sia limitante in quanto pone la condizione di vittima succube/donna poco lucida come inevitabile. Per il momento comunque, mi limito a indicare gli stereotipi che con più forza si rivelano dai messaggi mediatici analizzati, lasciando al paragrafo successivo le problematiche che ne derivano.

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Noto che la voce maschile può avere un doppio ruolo all’interno delle rappresentazioni visionate: può svelare alla donna la giusta via da seguire così come, dal lato opposto, può impersonare la coscienza del violento.

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si sa, è poco saggio. Ecco allora che nei video e sui cartelloni compare anche l’immagine di un uomo che condanna la violenza domestica come atteggiamento inaccettabile, un modello da seguire. Che gli uomini siano proposti come perpetratori della violenza o paladini della giustizia comunque, in entrambi i casi possiamo guardare a queste immagini come pensate essere funzionali alla

denuncia: lo scopo è di far notare a chi guarda che nell’uomo che commette violenza c’è qualcosa che non va.

Ma se appelli a denunciare sono tanto frequenti e se la condanna mediatica della violenza domestica è così forte, perché le donne mantengono il silenzio?

Nel documento Violenza domestica in Italia - tesi (pagine 58-60)