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1.Immagini e Realtà

Qualche anno dopo la sua morte, la sua opera fotografica ha visto la luce in un libro edito da Gallimard (1993); poi, in occasione di una bella retrospettiva alla « Maison de la Photographie », il grande pubblico ha potuto conoscere finalmente la sua fotografia. Jean-Baptiste Del Amo, che firma la prefazione al catalogo prova a dire cos’è la fotografia di Guibert e per Guibert e cita le stesse pagine che l’autore dedica alla fotografia, raccolte ne L’image fantôme del 1981, pagine che hanno più di un debito con La Chambre claire di Roland Barthes.

Hervé è appena ventenne quando comincia a fotografare e soprattutto a fotografarsi e non smetterà più: una mania, quella degli autoritratti, che sembra rubare a Rembrandt, uno dei suoi pittori preferiti. La fotografia di Guibert è prima di tutto un incontro tra l’Io e l’Altro, tra lui e la macchina fotografica, tra lui e Thierry, tra il suo volto e il corpo di T., tra la realtà e le immagini.

L’autoritratto di Guibert a 20 anni deve molto alla pittura e all’autoritratto da giovane di Rembrandt; l’espressione del viso, gli occhi, la bocca, quei capelli in disordine, l’estasi del momento. Se di se stesso è il volto la parte che più lo affascina e

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lo ossessiona in un desiderio imperturbabile di fantasmare la propria immagine, distruggerla e ricostituirla, di T., Thierry, grande amore della sua vita, ad affascinarlo è il corpo, tutto intero. Diverse le foto che mostrano T. nudo, il corpo giovane adagiato su ogni specie di superficie disponibile; Del Amo giustamente dice che «les photographies prises de Thierry témoignent du désir impérieux d’Hervé Guibert»758

Del Amo conclude dicendo che:

a leur manière les photographies d’Hervé Guibert sont de petites vanités et nous rappellent l’urgence de vivre qui lui était si chère. Elles sont autant d’instants saisis dont l’image nous offre d’inventer pour chacune une histoire. Nul doute qu’Hervé Guibert aurait aimé que nous les regardions aujourd’hui comme des fictions dont la vérité, toujours, se dérobe759.

Le parole di Del Amo, che chiudono la breve introduzione al volume, in realtà aprono diversi interrogativi su come leggere le fotografie: piccole vanitas, urgenti istantanee di una vita in fuga, racconti scritti letteralmente con la luce, dove la finzione incontra e trasfigura la verità.

Del Amo non ha certo torto, ma c’è di più, un di più che si rivela quanto più si nasconde: è la questione urgente del desiderio e dei suoi fantasmi. Il corpo di Thierry, trasfigurato, messo a distanza, schiacciato ma desiderato lo dimostra. La questione del desiderio, se cosi è possibile definirla, dell’immagine erotica, in un senso che

758 Hervé Guibert photographe, Paris, Gallimard, 2011, p.18. 759 Ibid. p.22.

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chiariremo, è centrale nella sua fotografia così come nel discorso, nei frammenti di discorso che attorno a questa costruisce paziente negli anni. Interrogare la fotografia di Guibert infatti significa anche interrogare l’altra parte, il negativo della foto stessa, gli scritti, gli articoli che a partire dal 1977 pubblica per «Le Monde». Giovane e inesperto, insegue tuttavia una propria idea, qualcosa che lo punge, un nucleo, uno stesso gruppo di note che negli anni trasformerà in una piacevole melodia dove sempre si potranno sentire quelle prime note, quel primo accordo che ha fatto nascere tutto. Uno dei primi articoli è consacrato a tre fotografi americani, Cunningham, Weston e Adams, fotografi che ammira e di cui, dice in conclusione,«leurs photos invitent au plaisir des sens, à l’amour de la vie et a son respect»760

.

Quello che prima ho chiamato «questione del desiderio» è espresso dal critico ventenne in piacere dei sensi ed effettivamente nelle foto fatte e in quelle scritte c’è sempre questa ricerca e quest’invito al piacere dei sensi, al godimento. Accanto all’attivita di critico “mondano”, presente alle mostre e ai vernissage dei più grandi fotografi come dei più modesti, Hervé scopre anche i libri sulla fotografia, quei testi che ancora oggi consideriamo centrali. Il primo è Sulla fotografia, On Photography, di Susan Sontag – in francese chiamato semplicemente La photographie – pubblicato in Francia nel 1979. Ho scelto questa recensione perché credo ci aiuti a individuare lo stile di Guibert, chiaro e conciso, in grado di illuminare la grandezza o la miseria di un libro. Attraverso le parole della Sontag - in più di un caso si ha l’impressione che a parlare sia lo stesso Hervé, la fotografia «se double entièrement comme pour parer à une éventualité d’anéantissement, et notre perception finit par passer par ce code de la mise en images, d’une mise à plat glacée, fragmentée, distanciée, qui remplace l’expérience elle-même»761.

La messa a distanza della realtà, la sua parcellizzazione, la realtà organizzata per immagini sono temi che tornano ossessivamente in Guibert, così come è ossessivo il riferimento alle immagini della malattia come esorcismo della stessa o alle immagini della famiglia, verso cui resterà ambiguo. La recensione del testo della Sontag è un occasione per riflettere sul rapporto testo/immagine, «car si les images proliférent, le discours sur l’image semble rare, comme si la photo, par la brutalité, la globalité presque arrogante de son information, coupait la parole»762. Anche queste parole possono essere considerate nucleo di un discorso che Guibert porterà avanti e che si può

760

H. Guibert, La photo inéluctablement, Paris, Gallimard, 1999, p.25.

761 Ivi, p. 123. 762 Ivi, p. 124.

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riconoscere ne L’image fantôme. Il saggio della Sontag offre una mole impressionante di spunti di riflessioni, diversi punti di vista talvolta frammentari talvolta onnicomprensivi sulla fotografia: è impossibile rendere conto di tutto. Eppure, vi sono pagine che meritano di essere riprese per l’influenza non dichiarata, e sulle immagini e sui testi sulle immagini di Guibert. Anzi tutto il rapporto immagine/realtà: «il fotografare è insieme una tecnica illimitata per appropriarsi del mondo oggettivo e un’espressione inevitabilmente solipsistica del singolo io»763

, o ancora: «le collezioni fotografiche possono servire alla creazione di un surrogato di mondo, basato su immagini esaltanti, consolanti o allettanti. Una fotografia può essere il punto di partenza di una storia d’amore, ma è più frequente che il rapporto erotico non solo sia creato dalla fotografia, ma in essa volutamente si esaurisca»764. Come non pensare alla foto di Thierry del 1976, anno in cui inizia la loro storia d’amore e momento fotografico in cui la realtà corporale di T. viene per la prima volta fantasmata – lo sarà costantemente per tutta la durata della loro vita. Lo stesso rapporto con Thierry fotografato è la dimostrazione delle parole della Sontag: «le fotografie sono un modo per imprigionare la realtà, intesa come recalcitrante e inaccessibile, o per immobilizzarla»765. Infine la riflessione conclusiva della Sontag apre per noi una prospettiva diversa.

La fotografia ha di fatto deplatonizzato la nostra concezione della realtà, rendendo sempre meno plausibile riflettere sulla nostra esperienza sulla base di una distinzione tra immagini e cose, tra copie e originali. Corrispondeva all’atteggiamento sprezzante di Platone verso le immagini paragonarle a ombre, presenze transitorie, minimamente informative, copie impotenti delle cose reali che le emettono. Ma la forza delle immagini fotografiche deriva dal fatto che esse sono realtà materiali, depositi riccamente informativi lasciati sulla scia di ciò che le ha emesse, potenti mezzi per capovolgere la realtà, per trasformare questa in ombra. Le immagini sono insomma più

reali di quanto chiunque avesse supposto.766

763

S. Sontag, Sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1978, p. 105.

764

Ivi, p. 139.

765 Ivi, pp. 140-141. 766 Ivi, pp.155-156.

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2. G/B. Assenze e Fantasmi

G come Guibert e B come Barthes, due vite diverse per due scritture simili e un identico amore: la fotografia ; amore impudico quello di Hervé, pudico e quasi religioso quello di Barthes. L’incontro avviene all’uscita de La Chambre claire, frammenti di scrittura dedicati alla fotografia. Il testo appare nel febbraio del 1980, un mese prima della morte del semiologo. Guibert come è già accaduto per la Sontag lo recensisce su «Le Monde», forse con dispiacere di Barthes che si aspettava un giornalista di fama e non un giovane di ventiquattro anni.

Torniamo un attimo indietro. Guibert e Barthes non sono due sconosciuti; tre anni prima, nel 1977, Hervé aveva trovato il modo di contattare il professore per ottenere una prefazione al suo La Mort propagande : non gli interessa il suo ruolo, vuole parlare, soprattutto scrivere del rapporto tra scrittura e fantasma ; si scriveranno diverse lettere. La risposta è comunque negativa o meglio il professore chiede qualcosa in cambio: il suo corpo; Guibert rifiuta. Tra i due nasce un rapporto epistolare burrascoso, risentito, pieno di fantasmi e di desideri; Hervé Guibert lo racconterà a più riprese e di Barthes ci rimane la testimonianza espressa in alcuni frammenti, Fragments

pour H: «la deuxième lettre est méchante, elle veut faire du mal; elle dit à l’autre que

son corps est indésirable…»767. L’incidente sul desiderio non interrompe però il

rapporto epistolare, il desiderio di scriversi, di incontrare i propri corpi diversi nelle parole. Qualche mese dopo Hervé rilancia una proposta al famoso critico: fotografarlo con la madre.

La lettera non avrà risposta che qualche mese dopo, una risposta negativa: la madre di Barthes infatti è morta. La foto che doveva farli incontrare non avrà mai luogo, non sarà mai stata. Hervé dirà, «ce que je voulai photographier, ce désir qui se declanchait très rarament chez moi, c’était toujours près de la morte et donc près de l’indécence»768

. Ritorniamo adesso alla recensione da cui naturalmente nulla traspare di questa vicenda.

Guibert chiama la sua recensione, “la sincérité du sujet”; è lì che mette dunque l’accento, che si concentra la sua attenzione, lì è forse il punctum del testo.

767

R. Barthes, Fragments pour H., in Id. Œuvres completes V 1977-1980, Paris, Seuil, 2002, pp. 1005- 1006.

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C’est une voix menue, douce, prudente, obligée, un peu nonchalante, qui ne piétine pas, non, mais qui avance par petits bonds, par petits scintillements, par petit chipotages d’écriture. S’il y a une vérité ici, c’est celle de la sincérité du sujet. Ici Barthes dit “je”: pas

de meilleur guide, pas de meilleur médiateur que son plaisir, que son désir…769

Per Hervé la sostanza del libro, la sua novità, la sua bellezza è costituita da questo fatto, dalla presenza del soggetto che si mette in scena, che ama o non ama questa o quella foto ma non per ragioni tecniche o culturali, ma «pour des raisons intimes, détournées, perverses, romanesques»770 o per «ce qui se rattache a sa propre biographie ou à son corps»771 . é soprattutto la seconda parte del testo che colpisce il giovane Hervé, quella dedicata alla madre, secondo lui la parte più limpida, autentica e dunque più bella. Riportare per intero le frasi ci aiuta a comprendere come il fine cesellatore lavori sulle parole, le scelga, le metta in fila per pungere il suo lettore.

À la mort de sa mère, il fouille dans ses photos de famille, à sa recherche, dans l’espoir de retrouver son essence, son “air”, son âme, plus que ses traits, l’émanation de sa bonté. Et il

la trouve dans une photo de sa mère petite fille, prise au jardin d’Hiver. Il la scrute, il s’y

perd, il y revient sans cesse dans cette deuxième partie qui étire le rapport inhérent de la photo à la mort, de cette évidence du “ça a été”, du moment trouble qui fait coïncider le devant-mourir et le déjà mort, dans une sorte de vertige, d’irréalité772.

Guibert mette l’accento sul “ritrovamento”, in una citazione volontaria di quel Proust cosi caro a Barthes e a Guibert stesso. Trovare l’essenza perduta in mezzo a tutte quelle cose che affiorano incessantemente dopo la scomparsa di una persona, e infine trovata in modo fortuito, par hasard, in una fotografia: questa forse la potenza stessa del mezzo fotografico, la sua forza evocativa, fantasmatica, l’evidenza che qualcosa “è stato” su cui Barthes ritorna incessantemente. Non è un caso che Guibert metta l’accento proprio su questa seconda parte de La Chambre claire, credo. In parallelo infatti possiamo provare a leggere una scena simile ; uno stesso tentativo di ritrovamento, forse senza epifania.

769

H. Guibert, La photo, cit. p. 192.

770

Ivi, p. 193.

771 Ibid.

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L’image fantôme, testo che Guibert dedica alla fotografia nel 1981, si apre con il racconto di una seduta fotografica: racconto dettagliato, descrizione minuziosa; Guibert stesso è protagonista insieme alla madre. Decide, infatti di fotografarla, lui che non l’aveva mai amata per quell’aspetto composto, in ordine, lei che tanto amava il padre e forse proprio per questo non poteva amare lui. Per fotografarla, per “ritrovarla” deve vedere oltre quell’aspetto, spogliarla letteralmente di quegli attributi borghesi che gli danno fastidio e la rendono lontana: le fa lavare i capelli. La madre deve offrire un immagine vergine all’obiettivo e tramite questo, sorta di inconscio tecnologico secondo Vaccari, al figlio. Guibert, come dicevo, spiega minuziosamente questi passaggi o movimenti, «la première chose que je fis fut d’évacuer mon père du théâtre ou la photo allait se produire, de le chasser pour que son regard à elle ne passe plus par le sien, et par cette demande d’apparence, donc en fait de la liberer de toute cette pression accumulée pendent plus de vingt ans»773,«délivrer son visage de ce fatras de coiffure»774, la porta poi nel salone che illumina di una luce calda e dolce, appena invadente, liberando la “scena” da ogni cosa che potesse dare fastidio alla rappresentazione della rinascita, che potesse ricordare una vita familiare stanca, la presenza ossessiva del Padre e Marito.

Infine,

je la pris en photo: elle était a ce moment-là au summum de sa beauté, le visage totalement détendu et lisse, elle ne parlait pas, je tournais autour d’elle, elle avait sur les lèvres un sourire imperceptible, indéfinissable, de paix, de bonheur, comme si la lumière la baignait, comme si ce tourbillon lent autour d’elle, à distance, était la plus douce des caresses775.

Guibert descrive minuziosamente quel momento, il kairós, come se fosse già una fotografia; ferma con le parole che si fanno immagini, letteralmente, il momento esatto in cui scatta le fotografie, cercando di fermare, di bloccare e quindi comunicare ciò che l’obiettivo “vede”. Hervé «pense qu’à ce moment elle jouissait de cette image d’elle même que moi son fils je lui permettais d’obtenir, et que je capturais a l’insu de mon père»776. Il padre, che Hervé ha forzato all’assenza, ritorna come fantasma nella scena.

773

H. Guibert, L’Image fantôme, Paris, Minuit, 1981, p. 12.

774

Ibid.

775 Ivi, p. 14. 776 Ivi, p. 14.

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Il godimento della madre e del figlio, la bellezza ritrovata, è come una scintilla causata dalla momentanea assenza del padre: la perversità di quell’assenza crea quella bellezza che Guibert ricercava in lei, riaccende il desiderio. Infatti quell’immagine «elle ne pouvait jamais l’avoir, censurée par son mari, une image interdite, et le plaisir d’elle à moi etait d’autant plus fort que l’interdit volait en eclats. Ce fut un instant suspendu, un

instant sans inquiétude, rasserénant»777. Come ogni magia, ogni momento d’estasi o di

godimento non dura che qualche istante a cui segue la “realtà”, al ritorno del padre, dell’ordine del Padre, «elle redevint la femme de son mari, […] je ne la reconnus plus, je voulus l’oublier, ne plus la voir, me fixer à jamais sur cette image qu’on allait extraire du bain révélateur»778.

Ora quello che accade è abbastanza singolare. Guibert che aveva scacciato il padre dalla scena lo richiama per stampare le foto, letteralmente per rivelarle; come può permettere che quegli occhi rivali vedano insieme a lui quell’immagine nuova che aveva creato? Come può non essere geloso di quello sguardo che si posa sulla scelta del suo? Resta un mistero: con naturalezza pacificata, quasi come se non fosse mai accaduto nulla, quasi come se non avesse mai desiderato l’assenza del padre ma al contrario la sua presenza-guida, il suo totem, lo chiama accanto a se. Forse per farsi perdonare, riammettere l’economia familiare, la paterna proprietà? Guibert non si chiede tutto ciò perché si trova davanti a una triste verità: «elle n’existait pas»779, nessuna immagine, nessun momento era stato impresso nella foto ; tutto è cancellato da quell’assenza, da quel bianco della carta su cui adesso si fissava il vuoto.

L’instant essentiel perdu, sacrifiée. Le mouvement inverse a celui du réveil par rapport au cauchemar: la révélation du fil était comme le réveil après la seance-rêve, qui à l’inverse ne s’effaçait pas tout a coup, mais devenait dans la réalité de l’absence d’impression seance- cauchemar au lieu de seance-rêve780.

L’istante sospeso, di godimento, è adesso per lui e la madre un momento di delusione, di tristezza incomunicabile. Il momento di godimento fra lui e la madre resta letteralmente senza parole. L’incesto non si può comunicare, laddove la comunicazione

777 Ivi, pp. 14-15. 778 Ibid. 779 Ibid. 780 Ivi, p. 16.

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è un passaggio, un movimento che va e ritorna tra due persone. Quel momento «avait impose entre nous le silence. Nous n’en parlâmes jamais. Je ne la réphotographiai plus. Et elle vieillit, comme je l’avais pressenti. En un ans, de dix ans»781

. Le frasi si fanno brevissime, il dolore percettibile nella decisione di non fotografarla più, nel constatare il suo improvviso invecchiamento, nell’imporre il silenzio, nel non parlarne mai più. La magia aveva lasciato il posto all’incubo della delusione. Perché non riproverà a fotografarla, riprodurre la scena, ricreare le condizioni. Lapidario, senza ripensamenti: «elle était impossible (de la photographier)»782; «j’avais du mal à l’embrasser. Il me

semblait que j’attendais sa défiguration. Vieille seulement, je pourrai la regarder de

nouveau, l’aimer de nouveau»783

.

Guibert conclude che naturalmente questo testo non può avere immagini, se non una pellicola vergine e poco importa se a un certo punto ha il dubbio che quella pellicola sia mai esistita, sia stata montata male, o all’inverso (la pellicola invertita non può rendersi complice dell’inversione di ruoli che il figlio chiede alla madre) ; d’altra parte si può immaginare che il testo non ci sarebbe stato se la foto fosse esistita.

Il testo allora si situa come appendice di un’assenza, attestazione di quel godimento disatteso, come prova della fotografia assente, dell’Image fantôme, da cui prende anche il titolo oltre che il luogo. Il testo come macchina per fermare il tempo.

Car ce texte est le désespoir de l’image, et pire qu’une image flou ou voile: une image fantôme…784.

Su questo punto Guibert tornerà ne Le Seul visage. Nella presentazione alle fotografie che ha esposto alla Galerie Agathe Gaillard nel 1984 torna a parlare della madre, del desiderio di fotografarla, pur tacendo quest’episodio. Hervé Guibert racconta della malattia della madre, un cancro e poi dell’operazione. La ritrova improvvisamente invecchiata, debole, il viso trasfigurato e inevitabilmente lontano da quello che desiderava fotografare qualche anno prima, capendo che ormai tutto era perduto per la fotografia, almeno. Decide perciò di disegnarla: un modo per passare il tempo, per tornare ad amarla, per conversare con lei silenziosamente. Poi accade qualcosa; la madre deve fare delle radiografie e Hervé l’accompagna: nella stanza vasta e luminosa

781

Ibid.

782

Ibid.

783 Ivi, p. 17. il corsivo è mio. 784 Ivi, p. 18.

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un fascio di luce proveniente da una vetrata attraversa il volto della madre, quella luce lo riconcilia con lei, meglio con la sua immagine, con la speranza che lei possa restare in vita, «j’ai eu envie de la prendre en photo. Je lui ai dit qu’elle était belle et je le pensais. Pour la première fois j’ai pense qu’elle allait vivre: la lumière sur son visage, le

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