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TRA IMMAGINI E PAROLE

cioè a un’immagine dell’epoca del romanzo, un’immagine seicentesca, e ha poi illustrato nella scrittura questa stessa immagine invece di pensare al “dato visivo immediato”. Per questo l’eff etto del gesto è enfatico ed eccessivo, e Levi lo paragona addirittura ai gesti degli attori del cinema muto che dovevano sopperire con le posizioni manierate alla mancanza di parola.

Levi sembra non essere generoso nei confronti di questi momenti in cui il racconto giunge a culmini di tensione drammatica, o in cui le passioni sono sul punto di scate- narsi e si concentrano su un gesto. Così padre Cristoforo che alza il dito indice minaccioso nello scontro con don Rodrigo diventa una statua barocca, addirittura un medio- cre attore di teatro. Lo stesso avviene quando Renzo pun- ta il dito su Lucia, esprimendo la volontà di uccidere don Rodrigo per vendicare la sua promessa sposa. Per Levi si tratta di un meccanismo in cui cade Manzoni quando si rende conto che i suoi personaggi sono in preda a passioni eccessive, quelle passioni che la sua morale cristiana vorreb- be censurare e che invece provocano l’errore espressivo. Nel gesto si coagula così l’intensità della passione ma anche, all’opposto, la censura verso la passione. La passione viene fi ssata, si scarica e modella la postura del corpo, costringen- dolo in una forma assoluta, capace di parlare a tutti al di là del mezzo usato.

Il problema individuato da Levi è di sicuro importante, for- se è il problema di gran parte della letteratura dell’Ottocen- to e dell’intero sistema espressivo del secolo. L’Ottocento ri- scopre la componente emotiva dell’uomo, la mette al centro dei propri interessi artistici, fa del rapporto tra interiorità e esteriorità l’oggetto di tutti i discorsi, legge la storia passata e quella presente come un insieme di grandi momenti di pathos che segnano la vita degli individui e della collettività. Nei romanzi dell’Ottocento, dai Promessi sposi alle Confes-

sioni di un italiano, ai Malavoglia, gli esseri umani sono nu-

clei dinamici che scrivono, letteralmente, attraverso se stessi, il proprio corpo, le proprie azioni, il racconto intero dell’e- poca. E quello stesso racconto lo troviamo nella pittura e nel mondo musicale, con il melodramma di Giuseppe Verdi. Ma forse quello che Levi non vuol vedere è proprio il fon- damentale ruolo che un gesto fi ssato in un acme espressivo, un gesto forzato in incisività, quasi esasperato, ha nell’atti- rare lo sguardo di chi legge, nell’attivare una intensa scarica emotiva e di imprimersi nella memoria come una traccia indelebile capace di riattivarsi con nuovi valori tutte le volte che quell’episodio torna alla mente del lettore e gli dona una capacità di spiegare la realtà stessa. In altre parole, i gesti con cui Manzoni ha colto i suoi personaggi al culmine di scene che cambiano irreversibilmente il loro destino sono l’equi- valente delle grandi arie musicali che a molti livelli della so- cietà vengono ascoltate, memorizzate, spesso storpiate, ma si riattivano comunque in fasi acute della vita psicologica di ogni individuo. È stato un grande critico letterario, Giaco- mo Debenedetti, a dire: “In una canzone off erta al passante della strada, Giuseppe Verdi formulava defi nitivamente il proverbio dell’anima italiana”4. La frase ha notevole spesso- re: l’anima italiana, cioè lo spirito di un paese che si stava ri- conoscendo unito, trova formulazione attraverso un’aria che si sente per strada, magari in forma dilettantesca, fuori dal circuito uffi ciale dei teatri e delle scene. Ma l’anima italiana non era quella che Manzoni voleva anche costruire con il suo complesso “proverbio” romanzesco (e romantico)? Cer- to, la lettura dei Promessi sposi richiede strumenti più raffi - nati dell’ascolto di una canzone orecchiata per strada, ma l’intensità di alcune scelte visive, come quelle non condivise da Primo Levi, potrebbe funzionare allo stesso modo. In questo caso, l’accusa di “artifi ciosità” formulata da Levi, va addirittura a collimare con l’accusa simile formulata da Gramsci su Verdi, là dove nota acutamente che non solo nella borghesia si trovano segnali di un senso libresco e non nativo della vita ma anche nelle classi popolari, pur se analfabete, si ritrova lo stesso problema dal momento 1. Francesco Gonin, Don Abbondio e i bravi, illustrazione per l’edizione

che la “degenerazione libresca” della vita può essere indotta non solo dai libri ma anche da altri “strumenti di diff usione della cultura e delle idee”. Gramsci accusa proprio i libretti verdiani di aver prodotto uno stile di pensiero popolaresco e una serie di atteggiamenti artifi ciosi, ma poi si corregge: “Artifi cioso non è forse la parola propria, perché negli ele- menti popolari questa artifi ciosità assume forme ingenue e commoventi”. E con grande acutezza formula l’ipotesi che il melodrammatico, con il barocchismo connesso, venga- no sentiti dal popolo come un modo estremamente aff a- scinante di operare, “un modo di evadere da ciò che essi ritengono basso, meschino, spregevole nella loro vita e nella loro educazione per entrare in una sfera più eletta, di alti sentimenti e di nobili passioni”.

Se lo poniamo così, il problema non è l’eccesso espressivo che manda in crisi il realismo. Ma dobbiamo considerare che l’effi cacia di diff usione di opere come i Promessi sposi o come il Trovatore passi proprio dalla loro capacità di inci- dere sull’immaginazione di classi sociali diverse, da quella borghese (capofi la della rivoluzione romantica, almeno in area settentrionale) a quella popolare. L’identità della na- zione (come vedremo con altri esempi) passa da qui, da un insieme di opere che attraverso la scrittura, o le immagini, o il canto e la musica, forniscono i mezzi di una rivoluzione della sensibilità e dei comportamenti che nell’insieme, al- meno per la prima parte del secolo, poi abbiamo chiamato “rivoluzione romantica”.

L’ITALIA E ALTRE DONNE

Come può un giovane ventenne, gracile, nato e vissuto in provincia, rivolgersi a una donna prostrata a terra, in catene, e proclamarle la sua determinazione a riscattarla di fronte a chi le ha infl itto quel torto? Ci troviamo di fronte a un altro caso di espressività esagerata, abnorme, “barocca”? Non sia- mo in un romanzo ma in una più conforme canzone lirica:

All’Italia, del conte Giacomo Leopardi, canzone del 1818,

nata apparentemente nel partito dei classicisti.

“O patria mia, vedo le mura e gli archi / E le colonne e i simulacri e l’erme / Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo, / Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / I nostri padri antichi. Or fatta inerme, / Nuda la fronte e nudo il petto mostri”: l’Italia è una donna che ha perso dignità, ha subito violenza. L’ostentazione della fronte scoperta (cioè senza velo) e del seno nudo sono i segni di una off esa fi sica prima ancora che morale. Ma il corpo dell’Italia è ancor

più off eso: “Oimè quante ferite, / Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, / Formosissima donna! Io chiedo al cielo / E al mondo: dite dite; / Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, / Che di catene ha carche ambo le braccia; / Sì che sparte le chiome e senza velo / Siede in terra negletta e sconsolata. / Nascondendo la faccia / Tra le ginocchia, e piange. / Piangi, che ben hai donde, Italia mia, / Le genti a vincer nata / E nella fausta sorte e nella ria”. Buttata a terra, incatenata, sporca di sangue, la testa nascosta tra le gambe: Leopardi crea un emblema fortemente icastico della condi- zione di bassezza in cui l’Italia si trova, mentre i suoi soldati (fi gli) vengono uccisi nella campagna napoleonica di qual- che anno prima.

Questa immagine dell’Italia rappresentata come corpo femminile ha illustri precedenti artistici, individuabili at- traverso il percorso ricostruito da Fernando Mazzocca. Innanzitutto il Monumento funerario a Vittorio Alfi eri cre- ato da Antonio Canova tra il 1806 e il 1810 e collocato nel pantheon dei grandi italiani, la chiesa di Santa Croce a Firenze, dove lo troverà Ugo Foscolo, inserendolo nella galleria dei grandi italiani che sorregge la visione storica dei Sepolcri. Qui vediamo un’Italia dall’aspetto maestoso, con il capo turrito e la cornucopia simbolo di ricchezza, “rappresentata non più come identità politica (Repubblica o Regno) ma come la madre comune che piange uno dei suoi fi gli più cari e illustri”5. Lo storico Sismondi la defi nirà 2. Francesco Gonin, Arrivo del Gran Cancelliere Ferrer, illustrazione per

“una regina in lutto”. Una “nobilissima vedova dolorosa” la chiamerà Pietro Giordani. E Leopoldo Cicognara, l’autore della Storia della scultura, notava che i “fi gli” dell’Italia “ven- ner sospinti nell’estrema Iberia e nel gelato settentrione a militare per estranei interessi”. Lo stesso tema che aff ronta Leopardi, nel momento in cui la sua Italia ferita rappresen- ta una madre a cui i fi gli sono stati strappati e sacrifi cati per interessi altrui.

Nella ricostruzione di Mazzocca, il motivo della patria violata e soff erente trova un’esecuzione pittorica defi nitiva in alcune opere di Francesco Hayez, a cominciare da Gli

abitanti di Parga che abbandonano i loro cari, dove compare

una fanciulla piangente che rappresenta allegoricamente la Grecia, per arrivare poi ai due ritratti di donne dal titolo

Meditazione sopra l’antico e nuovo Testamento (1850) e La Meditazione (1851). Sono due donne giovani, con i capelli

scomposti, lo sguardo torvo che guarda in tralice, con una camicia abbassata che lascia intravedere il seno, mentre le loro mani stringono un libro e una croce, “su cui spicca, tracciata con il rosso del sangue versato per la patria, la data delle gloriose Cinque Giornate di Milano”6.

Nella canzone il giovane Leopardi si rivolge direttamente alla sua interlocutrice, la compiange, si dichiara pronto a prendere le armi e a morire per lei. Un picco di intensità emotiva, un canto intonato per sommuovere, per sottoli- neare la diff erenza degli eroici tempi antichi (nella seconda parte prenderà corpo la fi gura di Simonide, il poeta che canta il sacrifi cio dei Greci alle Termopili) dalla viltà del presente. Lo stesso apice che abbiamo notato nei gesti dei personaggi manzoniani, ma qui declinato secondo il codice lirico come un dialogo in diretta, un rapporto immediato con cui il poeta decide di rivolgere la parola a una fi gura immaginaria ma portatrice di valori emozionali specifi ci, concentrati nella dimensione femminile dove la passiona- lità si rende più intensa, e la bellezza può convivere con la fragilità, l’amore con il desiderio di vendetta. Alberto Mario Banti ha notato che nello stereotipo di genere che si crea nell’Ottocento a sostenere i miti della nazione le donne assumono un ruolo di assistenza e di sostegno psico- logico agli uomini che combattono: “Sono donne che, nel loro essere madri, sanno sacrifi care quanto di più sacro e prezioso struttura i loro aff etti: sanno off rire con coraggio alla patria i loro mariti, i loro fi gli”.

Ma al di là del messaggio politico, è importante notare che tutto l’Ottocento, dalle opere romantiche a quelle realiste, è un secolo esplicitamente caratterizzato da presenze fem- minili che diventano spesso portatrici di valori senza i quali

l’opera letteraria non avrebbe ragione di esistere. Il primo quadro di Hayez che ottiene successo, Pietro Rossi, signore

di Parma, spogliato dei suoi domini dagli Scaligeri, signori di Verona, è strutturato su due livelli espliciti: in piedi gli uo-

mini, tra cui il protagonista già armato, e in basso, piegate o inginocchiate, le donne che fanno appello alla mozione degli aff etti contro la violenza della guerra. Quest’opera, esplicitamente romantica, preannuncia un dualismo che percorre il secolo fi no alla sua metà, per poi modifi carsi nella stagione simbolista. Nella prima parte del secolo, il mondo femminile è tale in opposizione a quello maschile, un’opposizione che implica un legame fortissimo, mentre nella seconda parte del secolo il femminile assume un rilie- vo preponderante, tale da inglobare in sé anche la mascoli- nità. D’Annunzio e Pascoli da una parte e Segantini dall’al- tra rappresentano la conclusione a cui perviene l’indagine intorno alla complessità del femminile, la cui forza simbo- lica sembra essere l’unico codice con cui spiegare la realtà. 3. Francesco Hayez, La Meditazione, 1851. Verona, Galleria d’Arte Moderna

Pensiamo ancora una volta a Lucia dei Promessi sposi, un personaggio che sembra non conoscere sviluppo dal mo- mento che agisce sugli altri senza però che gli altri agiscano realmente su di lei. La forza di Lucia sta proprio nella sua assoluta capacità di resistere inalterata di fronte a tutte le incarnazioni del male: il male banale di don Rodrigo, il male abissale della Monaca, il male esasperato dell’Innominato. Mentre Renzo si evolve e muta camminando, di avventura in avventura, Lucia è fi n dall’inizio chiusa in una specie di bolla perfetta che la rende intoccabile. Forse in nessun ro- manzo europeo dell’Ottocento troviamo un’eroina così mo- nocorde e nello stesso tempo così complessa. Lucia è sempre presente nei grandi snodi narrativi, ma nello stesso tempo è sempre assente. È vicina e lontana. In lei sembra realizzarsi, calato nell’umiltà del quotidiano, il principio romantico per eccellenza, che è il sentimento della distanza incolmabile, la ragione che muove le passioni amorose degli esseri umani e le spinge lontano, quasi a renderle irrealizzabili. La capa- cità simbolica di una fi gura come Lucia è tale che in tutti i romanzi italiani dell’Ottocento troveremo fi gure femminili a lei opposte per sbilanciare quello che Manzoni aveva co- struito con tanta perfezione, cioè un romanzo dedicato al matrimonio in cui di amore non si parla quasi mai. E quan- do il matrimonio si realizza sorgono altri intoppi a creare confusione e disagio agli sposi, costretti addirittura a lasciare volontariamente quei luoghi a fatica riconquistati e dai quali erano fuggiti per evitare gli eff etti del male. Possiamo vedere il romanzo manzoniano come una grande costruzione dove il male si addensa da ogni angolo, allargandosi intorno a una piccola fi ammella di bene rappresentata da Lucia che però riesce a mantenersi accesa fi no all’esito vincente della sua azione su coloro che la attorniano.

Pochi anni dopo Manzoni, tra il 1857 e il 1858, Ippoli- to Nievo crea il personaggio più eversivo della letteratura ottocentesca, la Pisana, che rappresenta l’antitesi rispetto alla femminilità di Lucia, soprattutto per il fatto che in lei si incarna il movimento continuo e instabile delle passioni e delle azioni. Nella Pisana e nelle avventure amorose che la legano a Carlo Altoviti, il protagonista delle Confessioni

d’un Italiano, viene alla luce la polarità di passioni che Man-

zoni aveva isolato nei due personaggi opposti della Monaca (frutto di un’educazione perversa) e di Lucia. Lo sviluppo del personaggio della Pisana congiunge i due poli che in Manzoni erano inconciliabili. L’educazione senza regole della Pisana bambina produce gli eff etti di un desiderio che non può essere tenuto sotto controllo e che genera grandi passioni senza formare realmente caratteri forti: “Saff o ed

Aspasia appartengono alla storia non alla mitologia greca; e sono due tipi di quelle anime capaci di grandi passioni non di grandi aff etti, quali se ne formano tante al nostro tempo per la sensuale licenza che toglie ai fanciulli di essere innocenti prima ancora che possano diventar colpevoli. Si dirà che l’educazione cristiana distrugge poi i perniciosi ef- fetti di quelle prime abitudini. – Ma lasciando che è tempo sprecato quello nel quale si distrugge, e invece si avrebbe potuto edifi care, io credo che una tal educazione religiosa serva meglio a velare che ad estirpare il male”7. Le conside- razioni di Nievo pongono il problema della corretta educa- zione che riguarda non solo i singoli individui ma un’intera società come quella che si sta formando all’indomani delle guerre napoleoniche. Gli esempi che vengono citati (Saff o ed Aspasia da una parte, la morale cristiana dall’altra) mo- strano bene che Nievo sta cercando di rappresentare l’arco della vita di un uomo che si aff accia su una nuova epoca senza avere ancora gli strumenti necessari per capirla. La sua eroina femminile appare nei momenti più drammati- ci o per portare disordine o – all’opposto – per off rire il proprio sacrifi cio a Carlo. Come ha spiegato bene Stefano Jossa, tra i due personaggi si verifi ca una osmosi che cor- risponde a una nuova consapevolezza intorno alla funzio- ne dell’eroismo nella prospettiva nazionale: “L’incontro tra l’antieroismo umoristico di Carlino e l’eroismo antiroman- tico della Pisana avviene proprio all’insegna del primato della vita sugli orpelli retorici e le esaltazioni simboliche alla Foscolo o alla Byron: in questa prospettiva, attraverso la luce della Pisana, Carlino riconquista la sua potenzialità eroica, soprattutto in chiave esemplare e nazionale”8. Ma la grandezza di Pisana sta nella capacità di trasforma- re le proprie forze istintuali in elementi salvifi ci. Durante una fase drammatica della Rivoluzione napoletana, Carlo si trova a Velletri a dover salvare alcune donne chiuse in un convento che viene incendiato. Il racconto crea un’at- mosfera quasi infernale, il fuoco minaccia e le donne sono prigioniere. Una di queste si butta dalla fi nestra per sfug- gire alle fi amme e Carlo riesce appena ad aff errarla mentre le fi amme le lambiscono la testa: “Le vampe che uscivano dal piano sottoposto le incenerirono i capelli, due o tre ar- chibugiate salutarono la nostra apparizione alla fi nestra; io la sollevai per ritrarla da quella posizione così pericolosa dicendole che era amico, accorso per salvarla, che non te- messe o eravamo perduti… Il suo volto, bello d’una sublime disperazione, si volse reciprocamente… Io fui per cadere come colto da una palla nel petto… Era la Pisana! – La Pi- sana!… Mio Dio! Chi potrebbe esprimere la tempesta che

mi si sollevò allora nel cuore?”9. Il ritrovamento inaspettato della Pisana avviene secondo le modalità del romanzo goti- co e del melodramma. Il fuoco, il crollo dell’edifi cio, l’attac- co delle truppe nemiche rendono l’azione esageratamente convulsa ma adatta a favorire l’eccezionalità dell’evento. I due personaggi vivono una situazione di sconvolgimento estremo: Carlo ritrova la Pisana che ha cercato di dimenti- care e che sa essere legata a un altro uomo, la Pisana crede che Carlo la abbia tradita nel rapporto con un’altra donna e per vendicarsi ha istaurato a sua volta un legame con Ettore Carafa, uno degli eroi della Rivoluzione. Nievo la rappre- senta ora nel suo aspetto terrifi co di donna vampiro, strega e dea degli inferi, dalla gestualità ambigua ed esasperata: “Ella tacque allora per lunga pezza, e al dubbio chiarore della luna che entrava dalla loggia vicina, vidi che molti e varii pensieri le traversavano la fronte. Ora fosca, ora rag- giante, ora tempestosa come un cielo carico di nuvole, ora calma e serena come il mare d’estate; si componeva talvolta all’attitudine della preghiera, poco dopo stringeva il pugno come avesse in mano uno stilo e ne ferisse a più riprese un petto abborrito. Colle vesti discinte, brutte di sangue e di polvere, coi capelli semiarsi e scarmigliati, colle sembianze scomposte dalle vicende terribili di quella mezza giornata, ella poggiava il gomito sulla tavola, e la fronte sulla mano aff umicata e sanguinosa pur essa. Sembrava qualche negra pitonessa uscita dall’Erebo allora e meditante gli spavente- voli misteri della visione infernale”10.

Come abbiamo visto per i comportamenti di Renzo, nei romanzi dell’Ottocento i gesti hanno un valore fondamen- tale, non solo perché creano una precisa interazione tra i