L’immobilizzazione degli enzimi sulla superficie del trasduttore è una fase particolarmente delicata e complessa dello sviluppo del biosensore. In letteratura vengono riportate diverse tecniche che permettono l’immobilizzazione dell’elemento di riconoscimento biologico e comprendono il classico adsorbimento, la formazione di legami covalenti, l’intrappolamento, il cross-linking oppure ancora l’affinità. Talvolta questi sistemi di fissaggio vengono combinati tra loro oppure vengono sostituiti da metodi più moderni, che prevedono a tal fine l’impiego di polimeri conduttori, nanotubi di carbonio e nanoparticelle (15). La scelta del tipo d’immobilizzazione influenzerà enormemente le proprietà del biosensore, e quindi i parametri di sensibilità, selettività e stabilità, in quanto ogni meccanismo di fissaggio può influenzare in maniera differente la mobilità, la stabilità, l’orientazione e soprattutto l’attività
enzimatica (16). Il processo d’immobilizzazione, da cui dipendono le performances analitiche del biosensore, dev’essere conservativo nei confronti della struttura, della funzione e dell’attività della componente biologica. Questa deve rimanere bloccata sulla superficie del dispositivo durante il suo impiego senza dare luogo a fenomeni di desorbimento. La scelta del meccanismo d’immobilizzazione dipende fondamentalmente dalla natura dell’enzima, dal tipo di trasduttore e dalle modalità di determinazione dell’analita (17). Il più importante fattore che orienta la scelta è quello inerente la qualità del biosensore che s’intende ottenere: infatti la sensibilità di questi dispositivi decresce notevolmente qualora l’elemento di riconoscimento biologico vada incontro al processo di denaturazione, oppure subisca delle modifiche conformazionali, soprattutto in prossimità del suo sito attivo (17).
Intrappolamento.
Gli enzimi possono essere bloccati in una matrice tridimensionale, come un film elettropolimerizzato, un fotopolimero, una matrice polisaccaridica oppure ancora nanotubi di carbonio. Questo tipo d’immobilizzazione è piuttosto semplice dal punto di vita pratico. L’enzima, il mediatore, ed altri additivi possono essere inglobati contemporaneamente all’interno dello stesso film depositato sulla superficie del trasduttore senza danneggiare l’elemento biologico, preservandone l’attività. I biosensori basati sull’intrappolamento fisico sono spesso caratterizzati da una maggiore stabilità sia nel corso dell’impiego sia durante la fase di conservazione. Tuttavia alcune limitazioni possono essere dovute al rilascio della componente biologica in soluzione oppure ancora ad una restrizione nella diffusione dell’analita attraverso il film (17) (18). L’intrappolamento può essere effettuato tramite elettropolimerizzazione, impiegando dei materiali anfifilici, tramite
fotopolimerizzazione, processi sol-gel, mediante l’impiego di gel di polisaccaridi o di pasta di carbonio.
La polimerizzazione elettrochimica è un approccio semplice e attraente per l'immobilizzazione controllata degli enzimi sulle superfici degli elettrodi. Questo metodo one-step consiste nell'applicare un adeguato potenziale o un opportuno valore di corrente al trasduttore immerso in una soluzione acquosa contenente contemporaneamente le molecole enzimatiche e quelle del monomero che s’intende polimerizzare. In questo modo, nel corso della polimerizzazione, l’enzima presente in prossimità della superficie del trasduttore viene incorporato fisicamente all'interno del network polimerico in accrescimento. La maggior parte dei film elettrosintetizzati sono polimeri conduttori come la polianilina, il polipirrolo o il politiofene. Grazie alla sua conducibilità, lo spessore del film può essere facilmente controllato ed è possibile inoltre generare diversi strati polimerici successivi. Il metodo d’immobilizzazione one-step non comporta alcuna reazione chimica tra il monomero e le biomolecole e permette anche, grazie al controllo dello spessore dello strato del polimero, la modulazione della quantità di biomolecole immobilizzate.
Questi sistemi sono inoltre ben adattabili a processi di miniaturizzazione.
Lo svantaggio di tale approccio risiede nelle alte concentrazioni di monomero (0,05-0,5 M) e di unità enzimatiche (0,2-3,5 mg*ml-1) solitamente richieste (18).
Inoltre, è difficoltoso valutare il quantitativo di biomolecole intrappolate all'interno del reticolo polimerico, in quanto esso non può essere stimato per semplice differenza tra le concentrazioni della componente biologica in soluzione prima e dopo l'elettropolimerizzazione. I polimeri conduttori possono favorire il flusso di elettroni, rappresentando quindi una possibilità interessante per la fabbricazione di biosensori elettrochimici. I polimeri non conduttori (poli
o-fenilendiammina, o-amminofenolo, polipirrolo sovraossidato) rappresentano
invece delle matrici emergenti per il processo d’immobilizzazione (19). In particolare, l’immobilizzazione elettrochimica di biomolecole produce dei film molto sottili, a causa della loro crescita autolimitante, portando quindi alla produzione di biosensori aventi tempi di risposta rapidi (19). In queste condizioni il substrato e i prodotti tendono a diffondere rapidamente da e verso il sito attivo dell’enzima ma, essendo permselettivi, impediscono l’interferenza da parte di altre specie elettroattive eventualmente presenti nel campione. I sensori realizzati in tal modo posseggono inoltre una buona selettività, una elevata sensibilità ed un tempo di risposta piuttosto rapido.
Adsorbimento.
L’adsorbimento enzimatico sulla superficie di supporti solidi rappresenta il metodo più semplice per la loro immobilizzazione fisica (20).
L’enzima viene solubilizzato in opportuno solvente avente un pH idoneo per la conservazione delle proprietà enzimatiche, e quindi posto a contatto con il supporto solido per un determinato periodo di tempo.
L'enzima non adsorbito viene quindi rimosso mediante lavaggio con idoneo tampone. I meccanismi di adsorbimento si basano su legami deboli, quali forze di carattere elettrostatico come le forze di Van der Waals e/o interazioni idrofobiche. Questa tecnica non comporta alcun processo di funzionalizzazione del supporto ed è generalmente rispettosa dell’attività enzimatica(17)(21). Anche se questo metodo d’immobilizzazione in generale non comporta inattivazione enzimatica, presenta tuttavia degli inconvenienti dovuti al fatto che gli enzimi sono labilmente legati al supporto e l’enzima può essere desorbito facilmente in seguito a variazioni termiche, di pH e forza ionica.
Così, questi biosensori sono caratterizzati da una scarsa stabilità operativa e di stoccaggio. Un altro inconveniente è l'adsorbimento non specifico di altre proteine o sostanze.
Cross-linking.
L’immobilizzazione enzimatica con la tecnica del cross-linking utilizzando glutaraldeide o altri agenti bifunzionali come gliossale o esametilendiammina rappresenta un altro approccio noto per lo sviluppo dei biosensori.
In letteratura sono riportati diversi biosensori conduttimetrici in cui l’immobilizzazione enzimatica viene effettuata sfruttando un gel ottenuto dalla co-reticolazione della glutaraldeide e dell’albumina di siero bovino (BSA); tali strumenti sono stati impiegati per la rilevazione di diverse specie chimiche come metalli pesanti e sostanze inquinanti (17).
Immobilizzazione covalente.
L’accoppiamento covalente degli enzimi ai supporti polimerici è un metodo d’immobilizzazione chimica piuttosto comune per lo sviluppo di biosensori enzimatici.
In questo modo, i biocatalizzatori sono vincolati alla superficie attraverso gruppi funzionali non essenziali per la loro attività catalitica ma nondimeno già presenti nella loro struttura. L’accoppiamento tra gli enzimi e il supporto solido è generalmente preceduto da una fase di attivazione dei gruppi funzionali presenti sulla superficie del trasduttore, impiegando reagenti multifunzionali come la glutaraldeide o la carbodimmide.
Il supporto può essere costituito sia da un materiale inorganico (vetro poroso) che da un materiale naturale (come ad esempio la cellulosa) o - ancora - da un polimero sintetico (ad esempio, nylon). L’immobilizzazione covalente può
essere eseguita direttamente sulla superficie del trasduttore o su una membrana (o film sottile) depositato sulla superficie dello stesso.
Sono stati descritti numerosi protocolli per l'attivazione delle superfici solide e le procedure maggiormente impiegate saranno successivamente descritte con maggior dettaglio.
Con questa tecnica di preparazione del biosensore si ottiene un dispositivo maggiormente stabile, ma a prezzo del consumo di elevate quantità di bioreagenti e di una riproducibilità non ottimale (17).
Attivazione dei gruppi carbossilici.
Le carbodiimmidi permettono il legame tra i gruppi carbossilici di un supporto e la funzione amminica di un enzima. La N-idrossisuccinimide (NHS) può essere associata alla carbodiimmide in modo tale da migliorarne l'efficienza d’immobilizzazione. Questa procedura è largamente impiegata per lo sviluppo dei biosensori enzimatici, e il meccanismo di reazione è riportato in Figura 3.
Figura 1.9 Meccanismo di reazione tra i gruppi –COOH e EDC/NHS (17).
Le carbodiimmidi più facilmente disponibili e comunemente usate sono l’EDC rappresentata in figura 4, idrosolubile, per reticolazione in soluzione acquosa e il DCC, in figura 5, insolubile in acqua, per i metodi di cross-linking in solventi organici.
Figura 1.11 Struttura chimica della dicicloesilcarbodimmide (DCC).
L’EDC reagisce con i gruppi carbossilici per formare un intermedio attivo O- acilisourea, che può essere facilmente spostato da un attacco nucleofilo da parte di gruppi amminici primari nella miscela di reazione. L'ammina primaria forma un legame ammidico con il gruppo carbossilico originale, e un sottoprodotto dell’EDC viene rilasciato come derivato solubile dell’urea. L'intermedio di O- acilisourea è instabile in soluzioni acquose; la mancata reazione con i residui amminici porta all’idrolisi dell'intermedio, alla rigenerazione dei gruppi carbossilici e al rilascio di un derivato dell'urea N-sostituito.
La reticolazione con EDC è più efficiente in condizioni acide (pH 4,5) e deve essere eseguito in buffer privo di gruppi carbossilici ed ammine esterne. I tamponi fosfato e pH neutro (fino a 7,2) sono comunque compatibili con la chimica di reazione, anche se mostrano minor efficienza. Questa può esser migliorata aumentando la quantità di EDC nell’ambiente di reazione.
La N-idrossisuccinimmide (NHS) o il suo analogo idrosolubile (Sulfo-NHS) sono spesso inclusi nei protocolli di accoppiamento EDC per migliorarne l'efficienza e creare intermedi stabili (ammino-reattivi). L’EDC lega l’NHS ai gruppi carbossilici, formando un estere-NHS che è notevolmente più stabile della O-acilisourea intermedia, pur consentendo una coniugazione efficiente con le ammine primarie a pH fisiologico(22).
I meccanismi con cui si compie il trasferimento redox dal sito attivo enzimatico alla superficie del trasduttore sono diversi, tra questi annoveriamo:
Il sistema navetta (electronic shuttle), caratteristico per i biosensori di I e II generazione;
Il diretto (tunnelling), specifico per i biosensori di III generazione; Il diretto (wired) mediante polimeri redox o conduttori.
La comunicazione diretta avviene anche quando il sito attivo dell’enzima è collegato (cablato) alla superficie del trasduttore di segnale per mezzo di polimeri conduttori; infatti, la struttura flessibile del polimero avvolge l’intero enzima, creando una rete tridimensionale specifica elettron-conduttrice, attraverso la quale gli elettroni si possono spostare verso o dall’elettrodo. La possibilità di legare il biocatalizzatore direttamente alla superficie del trasduttore apre la strada alla possibile miniaturizzazione di tali dispositivi.