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Capitolo 2. La malattia dei costi di Baumol

2.1 Il modello originale di Baumol

2.1.2 Income Gap

Si arriva ora al punto critico: quello che Baumol definisce income gap, ovvero la differenza tra i costi sostenuti in fase di progettazione e produzione del bene/servizio e i ricavi effettivamente ottenuti. Questo gap sembra inesorabilmente destinato ad espandersi, principalmente a causa dell’aumento costante dei salari, che seguono l’andamento dell’economia, e dell’incapacità di far fronte a esso con un incremento dei ricavi, che sono frenati dal numero massimo di performance realizzabili e dalla quantità di posti a sedere, che sono inevitabilmente limitati, e dalla produttività del lavoro pressoché invariata. In merito alla produttività, l’autore afferma che, approssimativamente, nei settori progressivi ogni 29 anni la produttività, misurata in quantità di output per persona/ora, raddoppia, e i fattori responsabili per questo aumento sono le nuove tecnologie, l’aumento dei capitali, il maggior livello di educazione della forza lavoro e le economie di scala. Le performance live non hanno, evidentemente, potuto beneficiare in maniera completa di questi fattori, nonostante siano nati nuovi mezzi di comunicazione che possono essere sfruttati anche dalle Arti Performative, poiché il cuore del problema sono sempre i salari degli artisti, che crescono seguendo l’andamento dell’economia generale, senza corrispondere a un incremento della produttività. Per le loro caratteristiche

intrinseche, infatti, le performing arts non godono in maniera significativa degli avanzamenti tecnologici, anche se ci sono indubbiamente stati dei miglioramenti, nel corso degli anni, nelle luci, nei meccanismi delle scenografie e di altre attività collegate allo spettacolo. Per quanto riguarda il capitale, è chiaro che non giochi un ruolo fondamentale nella produttività della performance, poiché il fattore più importante per la sua realizzazione rimane sempre il capitale umano, pertanto un accumulo di capitale non sortirebbe effetti significativi nell’aumento di output per lavoratore. Questo non significa, ovviamente, che le Arti Performative non possano godere di alcun incremento di efficienza o di innovazioni tecnologiche, tuttavia non possono di certo aspirare alla crescita della produttività che si registra nei settori progressivi. Per far fronte a questo problema vengono proposte diverse alternative. In una prima istanza Baumol ipotizza di mantenere ad un livello costante gli stipendi dei performer, in modo da mantenere costanti anche i costi. Questo significa che, con l’aumento del livello generale dei prezzi, la capacità di acquisto degli artisti andrà via via diminuendo negli anni, spingendoli ai limiti della povertà e rendendo la professione sempre meno desiderabile, rendendo invece più desiderabili le professioni dei settori progressivi. È evidente, pertanto, che questa ipotesi non possa rappresentare una valida soluzione. Una seconda ipotesi avanzata dall’autore è quella di aumentare gli stipendi degli artisti seguendo il livello generale degli stipendi, aumentando quindi i costi per la realizzazione della performance, che, inevitabilmente, comporterà all’aumento dell’income gap. L’ultima ipotesi, che si ritrova più frequentemente nella realtà, è quella di corrispondere agli artisti uno stipendio che segue il trend dell’economia generale, ma in maniera più contenuta. Questa ipotesi può essere attuata grazie alla volontà degli artisti a lavorare in condizioni economiche che verrebbero considerate, in altri settori, disastrose, e alla loro bassa sensibilità ai trend generali dei salari, specialmente nel breve periodo, grazie al ruolo fondamentale che gioca la soddisfazione personale in questo ambito, che spinge i performer ad accettare un salario più basso rispetto alla media generale, grazie al piacere che prova nel lavorare nell’ambito artistico. Anche questa ipotesi, comunque, seppur in misura minore della seconda, causerà un aumento dei costi e quindi, di conseguenza, dell’income gap.

Per ciò che riguarda, invece, i ricavi, l’autore si sofferma sul livello dei prezzi dei biglietti, che, ragionevolmente, ci si aspetta aumenti di pari passo con quello dei costi e dell’economia generale. Ipotizzando che un aumento dei prezzi non influisca in alcun modo sul numero di biglietti acquistati, facendo corrispondere ad un incremento dei costi

un uguale incremento dei ricavi, il gap rimarrebbe invariato in termini relativi. Tuttavia Baumol afferma che l’evidenza empirica suggerisce che il livello dei prezzi è aumentato in misura minore rispetto ai costi, causando un’espansione del gap. Ci sono tre principali fattori che influenzano questa restrizione nell’aumento dei prezzi: la riluttanza delle organizzazioni artistiche ad aumentare i prezzi, il cui obiettivo va oltre la realizzazione di profitti, ma si identifica con la distribuzione di un prodotto/servizio in maniera ampia ed equa; il posto occupato dalle arti nella scala delle necessità, che, per forza di cose, non rientrano tra le priorità dell’individuo, che potrebbe tranquillamente rinunciarvi qualora i prezzi aumentassero troppo; la competizione coi mezzi di comunicazione di massa, che costituiscono un’alternativa più comoda e low cost alle performance dal vivo.

È evidente, secondo gli autori, come, per continuare a essere operanti, queste imprese necessitino di entrate alternative, oltre a quelle generate dai ricavi derivanti dalla performance, per continuare ad esistere.

Viene quindi introdotto il concetto di contributed income, ovvero quella parte dei ricavi generata dalle contribuzioni di diversa natura.

In ambito privato, è importante menzionare il supporto da parte di imprese operanti in settori estranei al mondo delle arti, che finanziano la realizzazione di eventi artistici come forma di pubblicità, che costituisce indubbiamente una significativa opportunità per le Arti Performative. Anche le Università possono ricoprire un ruolo importante nel sostegno delle organizzazioni artistiche, non in termini monetari, visto che lo stesso settore dell’educazione rientra tra quei settori stagnanti che soffrono della malattia di Baumol, ma perché contribuiscono a educare all’arte gli studenti, offrendo eventi culturali a prezzi accessibili agli studenti all’interno dei locali dell’università e patrocinando le organizzazioni artistiche universitarie. È importante menzionare anche il ruolo ricoperto dalle fondazioni filantropiche, che devolvono denaro sotto forma di donazioni, che possono essere ricorrenti o una tantum e sono fondamentali per un certo tipo di

performing arts: lo stesso gruppo di danzatori di Martha Graham, considerata da molti la

madre della danza moderna, ha beneficiato per molti anni del supporto delle fondazioni, senza il quale non avrebbe potuto sopravvivere.

Per ciò che riguarda, invece, l’ambito pubblico, Baumol evidenzia la necessità di una qualche forma di aiuto economico da parte del governo per la sussistenza di determinate organizzazioni, aiuto giustificabile, almeno in parte, dal fatto che, in quanto beni culturali, ricoprano un ruolo di grande importanza per gli effetti che hanno sull’intera società.

Anche in questo caso si possono trovare una serie di modalità di agevolazioni: donazioni dirette, concessione a titolo gratuito di infrastrutture pubbliche, finanziamento di un evento realizzato in spazi pubblici, agevolazioni fiscali, ecc.

2.1.2.1 Successivi sviluppi dell’income gap

Come evidenzia Heilbrun in “Handbook of cultural economics”26, la visione degli autori

era, all’epoca, piuttosto pessimista: stimarono che, dalla metà degli anni ’60, nel decennio successivo i costi per le imprese di performing arts sarebbero aumentati tra il 5% e il 7% annuo, a fronte di un aumento annuo dei ricavi tra il 3,5% e il 5,5%, risultando in una continua espansione del gap. Fortunatamente queste previsioni non hanno trovato riscontro nella realtà: i costi hanno continuato ad aumentare in maniera piuttosto rapida, ma a fronte del loro aumento c’è stato un incremento altrettanto rapido in alcune forme d’arte (in alcune addirittura il tasso di crescita dei ricavi ha superato quello dei costi), generando una relativa diminuzione del gap. I dati dalla Fondazione Ford, alla quale Baumol forniva consulenza, evidenziano come dal ’65 al ’71 il divario percentuale si è acuito per ciò che riguarda le orchestre sinfoniche e i teatri non profit, ma è diminuito per l’opera, i balletti e le compagnie di danza moderna27. Da un seguente studio realizzato da

Schwarz e Peters nel 1983 emerge che, nel corso degli anni ’70, l’ammontare del gap è diminuito nelle compagnie di balletto, danza moderna e teatro, si è leggermente contratto per le orchestre sinfoniche, ed è rimasto pressoché stabile per l’opera.

I dati più recenti, invece, rappresentati nella Figura 5 che segue, sono stati raccolti e analizzati da Marianne Felton (1994) e delineano un trend in declino fino ai primi anni ’90, con l’eccezione della danza moderna. In questo caso l’ammontare del gap è misurato in termini di percentuale di donazioni e sussidi pubblici sul totale dei ricavi.

26 Baumol’s Cost Disease In: A Handbook of Cultural Economics, Ruth Towse. Edward Elgar: Cheltenham,

Figura 5 Fonte: Baumol’s Cost Disease In: A Handbook of Cultural Economics

È degno di nota come, in Gran Bretagna, uno studio condotto da Peacock, Shoesmith e Millner sulle Arti Performative negli anni Settanta abbia reso noto che non ci siano dati empirici che supportino l’evidenza della malattia dei costi in quel decennio, per ciò che riguarda la realtà anglosassone. Sembra, infatti, che il tasso di inflazione estremamente alto abbia costretto le compagnie ad adottare strategie di riduzione dei costi che hanno temporaneamente congelato gli effetti della malattia dei costi. Si può evincere quindi, che parlare di un aumento incessante dei costi, a fronte di una stagnazione della produttività per questo tipo di attività produttive, può essere fuorviante: la realtà è che ci sono tutta una serie di fattori che influenzano la produttività. In questo caso, infatti, i costi sono aumentati all’incirca come previsto da Baumol, ma i ricavi sono aumentati con un tasso uguale o di poco maggiore, risultando in una leggera contrazione del differenziale tra di essi. Sembra, infatti, che il prezzo dei biglietti sia aumentato più velocemente del livello generale dei prezzi, senza risultare in un calo della domanda: ne risulta un aumento reale (al netto dell’inflazione) dei ricavi dai biglietti. Questo fenomeno può trovare spiegazione proprio nell’aumento di produttività derivante dal progresso tecnologico: la continua innovazione genera un crescente aumento del salario orario nell’economia generale in termini reali, che risulta in un aumento della domanda dei beni artistici. Non trattandosi, infatti, di beni di prima necessità, la domanda è sicuramente sensibile alle oscillazioni dei prezzi, ma anche alle variazioni di reddito disponibile: è evidente che nei periodi in cui le persone hanno una maggiore disponibilità economica le loro abitudini di consumo

cambino, aumentano la quota di reddito destinato ai beni/servizi non indispensabili, come, appunto, i beni artistici. Ciononostante anche il prezzo dei biglietti sarà inevitabilmente soggetto a un aumento, per assorbire, almeno in parte, l’aumento del costo del lavoro (Baumol ipotizza che il livello degli stipendi aumenti di pari passo, sia nei settori tecnologicamente avanzati sia in quelli stagnanti), che farà diminuire sensibilmente il numero di biglietti venduti; tuttavia sembra che nel corso degli anni l’aumento del reddito disponibile sia riuscito ad assorbire l’aumento dei costi di ingresso senza incidere negativamente sul gap. Questo ovviamente non significa che non sussiste la malattia dei costi e che il basso tasso di crescita della produttività nei settori ad alta intensità di lavoro non rappresenti un problema, ma solo che l’aumentare degli standard di benessere mitiga gli effetti che questi fenomeni hanno sui settori stagnanti.