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Dopo Cina e Stati Uniti l’India è il terzo maggior emittente di gas serra, ma non è questa l’unica ragione a rendere il Paese un attore chiave al tavolo dei negoziati. Ciò che meglio delinea l’importanza del ruolo indiano è il suo cambiamento di attitudine domestica e internazionale verso la questione climatica. Da “istrice” a “tigre” scrive Mohan (Mohan citato in Michaelowa 2012, 5) in una metafora che riflette il passaggio dell’India da una strategia difensiva – quella tradizionale, prestabilita e immutabile – ad una più flessibile e dinamica, attenta alle esigenze ambientali e disposta a scendere a compromessi. L’aver trovato una voce attiva deriva principalmente dalla comprensione che qualsiasi accordo non è mai solo climatico, ma anche economico: perciò l’India, da economia emergente, avrebbe dovuto salvaguardare i propri interessi. Oltre a classificarsi sesta globalmente in termini di prodotto interno lordo, la sua popolazione è in continua crescita – 1.3 miliardi – e ci si aspetta che diventi la più numerosa entro il 2025 (Timperley 2019). Ciononostante, il Paese soffre di povertà energetica perché solo 300 milioni di persone hanno accesso all’elettricità stabile, generando in India un bisogno duale: quello di un accordo capace di proteggere la popolazione dagli impatti legati al cambiamento climatico – impianti a carbone, risaie e allevamenti di bestiame sono le principali fonti di

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emissioni i cui danni sono già visibili nello scioglimento dei ghiacciai Himalayani e nella stagionalità dei monsoni – e allo stesso tempo di garantire alla stessa un’energia a basso costo sufficiente per la sua crescita ed il suo sviluppo (Chitre 2016, 1; Timperley 2019). Per questi motivi, l’India ha da sempre insistito nel misurare le sue emissioni su base per capita, che risultano essere minime in relazione al suo elevato peso demografico.

Uno dei primi passi a favore della cooperazione internazionale fu nel 2007, quando l’allora primo ministro Manmohan Singh partecipò al G8+5 (composto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Francia, Germania, Italia, Russia e Giappone, alle quali si aggiungevano India, Brasile, Cina, Messico e Sudafrica) in Germania, dicendo:

[…] we recognize wholeheartedly our responsibilities as a developing country. We wish to engage constructively and productively with the international community and to add our weight to global efforts to preserve and protect the environment. We are determined that India’s per capita GHG emissions are not going to exceed those of developed countries even while pursuing policies of development and economic growth (India Review 2007, 2).

Sebbene questa dichiarazione non contenesse alcun obbligo pratico da parte dell’India, rappresentava una forma di impegno futuro, riconoscendo le sue responsabilità di Paese in via di sviluppo (Dubash et al. 2018, 409). L’anno successivo, infatti, dimostrava di mantenere la sua promessa con il nuovo National Action Plan on Climate Change (NAPCC), rilasciato dal primo ministro Manmohan Singh e composto da otto missioni, anche se allo scopo di reagire ad una crescente pressione internazionale più che auspicare ad un’autentica miglioria climatica (Dubash et al. 2018, 411; Talanoa 2008). Il piano era il riconoscimento ufficiale da parte del governo della minaccia rappresentata dal cambiamento climatico e il bisogno di contrastarla con la mitigazione e l’adattamento. Le otto missioni si occupavano della crescita nell’uso dell’energia solare, di una pianificazione urbana più ottimale per sensibilizzare la popolazione sulla tematica del riciclaggio e del trasporto pubblico, incoraggiando l’acquisto di veicoli più efficienti, dell’imboschimento di sei milioni di ettari e della conservazione della biodiversità, specialmente nella zona Himalayana (Talanoa 2008). L’NAPCC richiedeva ai ministeri di presentare i loro piani d’implementazione al Primo Ministro del Consiglio sul Cambiamento Climatico entro la fine del 2008 ed enfatizzava che la riuscita delle misure nazionali era subordinata all’assistenza proveniente dai Paesi sviluppati (Ibid.). L’approccio utilizzato era quello dei benefici reciproci, collegare cioè lo sviluppo del Paese alla sostenibilità ambientale in modo da non compromettere i propri obiettivi di crescita economica e allo stesso tempo di

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non deludere le aspettative in termini di mitigazione (Dubash et al. 2018, 404-05 e 411). Ad ogni modo, il governo non ignorava più il problema climatico e il messaggio che l’India inviava al suo interno e all’estero era positivo: il suo percorso verso la sostenibilità era iniziato.

All’Aquila nel 2009 si era tenuto un incontro delle Major Economies Forum, a cui anche l’India aveva partecipato; le discussioni vertevano, oltre che su temi economici, anche sul cambiamento climatico. Il primo ministro Singh aveva firmato una dichiarazione – politica, e non legalmente vincolante – congiunta impegnandosi a rispettare il limite dei 2°C massimi di riscaldamento globale, e a lavorare insieme per raggiungere un obiettivo comune, quello di ridurre le emissioni entro il 2050, culminando nella promessa a Copenaghen di diminuire del 20% o 25% entro il 2020 le proprie emissioni rispetto al 2005 (Dubash et al 2018, 409-10). Per quanto riguarda le energie rinnovabili, queste erano in alto nell’agenda delle priorità indiane. A supplementare il NAPCC vi erano l’Energy Conservation Act, per l’uso efficiente dell’energia, il National Electricity Policy, per l’accesso universale all’elettricità e per la diffusione delle energie rinnovabili, obiettivi ripresi anche dall’Integrated Energy Policy (INDC India 2015, 7). Il governo Modi aveva spronato numerose compagnie a costruire impianti solari per più di 900MW in tutto lo Stato (Carrington 2014). Modi infatti, era stato per tre volte Primo Ministro del Gujarat, stato indiano precursore dello sfruttamento dell’energia solare, un’energia low-cost e facile da distribuire. Nel 2012, 28 stati indiani e 700 milioni di persone avevano sperimentato uno dei peggiori blackout degli ultimi anni a causa di alcuni guasti alle reti elettriche, mettendo in dubbio le infrastrutture indiane (Pidd 2012). Una rivoluzione energetica sembrava perciò necessaria: i pannelli fotovoltaici, in quanto forma di energia stabile, erano accessibili a tutti a differenza delle centrali di gas, carbone e petrolio che richiedevano manutenzione anche quando quella non era possibile.

Il costo dell’energia solare diminuiva e raggiungeva per gli acquirenti industriali e commerciali la parità – grid parity33 – con il carbone (Carrington 2014), il quale, allo stesso tempo, stava aumentando i suoi prezzi: nonostante le abbondanti riserve indiane, la sua qualità era bassa e spingeva le compagnie ad acquistarlo all’estero, diventando una soluzione insostenibile a lungo andare (Smith 2012). In più, l’abbassamento dei costi delle energie rinnovabili aveva reso l’India una meta per gli investimenti, rimanendo coerente con l’idea dei benefici reciproci: promuovendo una misura così favorevole alla mitigazione climatica aveva, ad esempio, attratto

33 La grid parity è il punto in cui il prezzo dell’energia prodotta da fonti fossili equivale quello dell’energia elettrica

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20 miliardi di dollari dalla Japan’s Softbank Corp insieme alla Bharti Enterprises e Taiwan’s Foxconn, con la riduzione repentina del costo dell’energia solare (Reuters 2015; Janoušková 2018, 62).

Ciononostante, non tutti mostravano di essere favorevoli al cambiamento. Quando, ad esempio, il ministro dell’ambiente Jairam Ramesh aveva discusso a Cancun la possibilità di tagli alle emissioni legalmente vincolanti per il futuro aveva trovato l’opposizione del Partito del Popolo Indiano – Bharatiya Janata Party (BJP) – e della Sinistra che lo avevano accusato di oltrepassare l’autorizzazione datagli dal Parlamento e di danneggiare gli interessi del Paese arrendendosi alla pressione degli Stati Uniti e dei Paesi sviluppati (NDTV 2010). Il ministro Ramesh non concordava con questa visione:

[…] India at Cancun has come out looking more proactive […]. It is very important for India not to be isolated in the world. We have a larger stake in the world economy than we had 25 years ago. Negotiations are all about flexibility, it is about seeing what is happening. I have not changed the goal post, I have nuanced our goal post (NDTV 2010).

Le sue parole avvaloravano il nuovo atteggiamento dell’India nelle negoziazioni internazionali: più attivo, meno tradizionale, più disponibile al compromesso. Si potrebbe definire, con le parole di Pruitt (2012, 87), firm-flexibility: l’India cioè rimaneva risoluta nei suoi interessi fondamentali, come lo sviluppo economico e sociale, ma si rivelava più flessibile sul “come” giungere ad una soluzione. Il proposito di questo connubio è di evitare che l’eccessiva rigidità blocchi le negoziazioni e che la smodata flessibilità permetta alle altre Parti di approfittarsi dell’India (Pruitt 2002, 87). Ciò si riflette nel suo INDC e negli impegni presi internazionalmente, evidenziando una sovrapposizione tra il Livello 2 e il Livello 1.

2.3.5.1. Gli interessi e le posizioni

Alla base degli interessi indiani vi è l’equità e la giustizia climatica; questo concetto è contenuto anche nel suo INDC in cui sono riportate le parole del primo ministro Modi:

When we speak only of climate change, there is a perception of our desire to secure the comforts of our lifestyle. When we speak of climate justice, we demonstrate our sensitivity and resolve to secure the future of the poor from the perils of natural disasters (INDC India 2015)

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Domesticamente, l’India auspicava all’eradicazione della povertà, alla modernizzazione e allo sviluppo del Paese. Internazionalmente, da tradizione, risiedeva il desiderio di preservare la sovranità post-coloniale (posta in pericolo dalle pretese degli altri Stati sulla trasparenza e sulla differenziazione: prendere in considerazione la riduzione dei gas serra implicherebbe perdere la capacità di scelta e il controllo degli altri Paesi) e di massimizzare il suo raggio d’azione nelle politiche climatiche (Sengupta 2012, 112).

La sua posizione invece, come già anticipato, è mutata da difensiva – l’India era considerata un “nay-sayer” (Michaelowa 2012, 4), cioè un “bastian contrario”, mai disposta a scendere a compromessi – a flessibile e cooperativa. Infatti, nonostante permangano l’idea di responsabilità storica e di trasferimento di fondi e tecnologie da parte dei Paesi sviluppati, insieme alla difesa dei diritti dei Paesi più poveri e dei loro inferiori obblighi, la sua strategia è diventata più dinamica e disposta ad accettare valide alternative quando la situazione prevede benefici a suo favore (Ibid.). Sengupta (2012, 114) analizza l’atteggiamento indiano e i diversi fattori che lo hanno influenzato: la crescita economica indiana aveva reso il Paese più sicuro e consapevole delle proprie scelte e dei propri obiettivi, oltre che meno vulnerabile a livello globale; il consenso domestico non era più solido come un tempo: voci di dissenso avevano messo in dubbio la strategia tradizionale dell’India e la comunità scientifica aveva potuto consapevolizzare maggiormente i cittadini, grazie anche ai nuovi politici nella scena indiana sensibili sempre più alle problematiche climatiche; da non assumere per scontato è anche il ruolo della “peer pressure”, della pressione dei pari: il timore di rimanere isolata e di essere biasimata internazionalmente spingeva il Paese a comportarsi in modo responsabile e accondiscendente (Ibid.). Più semplicemente, a spiegare il cambiamento indiano potrebbe essere la consapevolezza che la collaborazione comporta benefici mutuali, rendendo più logico per l’India non seguire un approccio uni-dimensionale ma collaborativo (Ibid.).

2.3.5.2. L’INDC

L’INDC dell’India riflette gli interessi domestici in modo coerente, concentrandosi molto sull’energia pulita e in particolare su quella solare, come il primo ministro Modi nel periodo prima della Conferenza di Parigi ha dimostrato essere una priorità. Il piano, che cita la lunga tradizione di relazione armoniosa tra l’uomo e la natura, propone di ridurre l’intensità delle emissioni del suo PIL dal 33% al 35% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030 (Seo 2017, 130- 31; INDC India 2015). Nel rispetto dei suoi interessi, si impegna a promuovere uno stile di vita

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sostenibile e rispettoso del clima, attraverso “additional carbon sink of 2.5 to 3 billion tonnes of CO2 equivalent through additional forest and tree cover by 2030”(INDC India 2015) e un

incremento della produzione di energia elettrica proveniente da combustibili non fossili del 40% sempre entro il 2030, condizione però assoggettata al trasferimento di finanze e tecnologie provenienti da vari fondi, tra cui anche il Green Climate Fund, dando priorità all’adattamento grazie al supporto nazionale e internazionale (Seo 2017, 131). Non fa riferimento invece al momento in cui le emissioni dovrebbero raggiungere il picco (INDC India 2015).

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CAPITOLO3

In questo capitolo si tenterà di rispondere alle due domande che questa tesi si pone: in che modo gli attori hanno esercitato la loro leadership? Al termine della Conferenza, quali attori hanno raggiunto i loro obiettivi dalle negoziazioni e quali invece hanno dovuto rinunciarvi? Per farlo, verranno osservate ed esaminate le negoziazioni durante la Conferenza di Parigi e analizzati i risultati ottenuti dalle Parti, anche in base al metodo negoziale utilizzato. La prima parte procede con una spiegazione di “bargaining” e “problem solving”; la seconda riguarda invece la Conferenza, illustrandone le caratteristiche principali; la terza, fornisce le considerazioni finali.