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L’Individuo tra modernità solida e post-modernità Secondo Karl Polanyi il punto di partenza della grande trasformazione che

sancì l’atto di nascita del nuovo ordine industriale fu la separazione dei lavoratori dai loro mezzi di sussistenza37.

I contadini perdevano il loro legame con la natura per iniziare a muoversi nei corridoi delle grandi fabbriche dove, da quel momento in poi, si sarebbe svolta la loro vita. Una volta che i lavoratori compresero che il lavoro era produttore di ricchezza divenne subito chiaro che il loro compito era di sfruttare tale risorsa il più possibile. L’individuo sembrava inebriato dalla sua stessa capacità di cambiare le cose, niente sembrava irraggiungibile e nulla doveva essere lasciato com’era se poteva essere più bello, utile ed efficace.

In questi anni, nell’industria fordistail destino dei capitali e del lavoro era il medesimo poiché tra i due vi era una mutua dipendenza e s’incontravano tutti i giorni nello stesso ambiente. Non era da escludere che chi iniziava a lavorare in fabbrica come apprendista avrebbe potuto terminare la carriera lavorativa nella stessa fabbrica. Questi rapporti a lungo termine, ovviamente consolidavano i rapporti legando il futuro del lavoratore a quello del possessore di capitali, entrambi erano perciò interessati a raggiungere una forma di collaborazione quanto più tollerante possibile.

Bauman definisce questo momento della storia come l’era della modernità solida in cui regnano sovrani bellezza, ordine e pulizia. Cose alle quali non si poteva più rinunciare senza che ciò producesse dolore e dispiacere.

Anche Freud nel suo libro Disagio della civiltà, parla dell’ordine come fattore importante della modernità, anzi come punto di partenza per la realizzazione della modernità stessa..

                                                                                                               

Scegliere l’ordine comportava anche fare delle rinunce e gli individui preferirono sacrificare un po’ della loro libertà a vantaggio della sicurezza che scaturiva dall’ordine.

Bauman sostiene che la parola chiave della modernità fosse la parola «creare», infatti l’individuo moderno fu il primo a porsi il problema dell’identità come qualcosa che andava costruita e che doveva rimanere solida e stabile. Il problema principale della costruzione dell’identità era la sua durabilità nel tempo e per questo doveva essere costruita «in acciaio e cemento».

Bauman in La società dell’incertezza ricorre alla figura del pellegrino per spiegare la vita moderna. Per i pellegrini l’unico mondo possibile è quello che si trova sempre a una certa distanza da loro. Nella terra che abitano, chiamata società moderna, vivono di pellegrinaggio per necessità, per non rischiare di perdersi in un deserto, per evitare di vagabondare senza una meta. In concreto, per l’uomo moderno o per il pellegrino, questo significa essere sempre lui a scegliere dove andare e quando fermarsi, in altre parole è lui il costruttore della sua identità.

Nel lungo pellegrinaggio alla ricerca della sua identità l’uomo moderno non ha risolto il problema di come conservarla, il deserto sembrava un luogo dove si potesse disegnare con facilità un percorso, data la mancanza di configurazione che lo caratterizza, ma non avevano considerato che nel deserto ogni cosa poteva essere spazzata via con molta facilità dal vento che improvvisamente può alzarsi.

Nel tentativo di rendere le cose solide e durature l’uomo ha compiuto degli errori che hanno reso queste cose leggere e flessibili al solo scopo di riuscire a plasmarle in base alla sua volontà.

Inseguendo l’obiettivo di una società ordinata la modernità ha condotto una battaglia ai danni dello straniero, visto come chi, non essendo in grado di procurarsi una propria identità e rispettare i canoni di ordine, seminava incertezza dove doveva crescere certezza e trasparenza.Lo straniero era visto come un difetto da correggere, come un momento della storia che non sarebbe esistito nell’ordine futuro.

Secondo Lèvi-Strauss furono impiegate due strategie per annullare gli stranieri, la prima era antropofagica: annullava gli stranieri divorandoli per poi metabolizzarli rendendoli una copia perfetta di se stessi.

Questa era la strategia dell’assimilazione: rendere simile il dissimile; soffocare le distinzioni culturali o linguistiche; proibire tutte le tradizioni e i legami ad eccezione di quelli che favorivano il conformismo verso il nuovo e pervasivo ordine; promuovere e rinforzare il solo e unico criterio della conformità.

La seconda strategia era antropoemica: espellere gli stranieri, esiliarli dai limiti del mondo ordinato e impedire loro ogni comunicazione con chi sta dentro. Questa era la strategia dell’esclusione: confinare gli stranieri all’interno delle mura ben visibili del ghetto o dietro gli invisibili e non meno tangibili, divieti di condivisioni, connubium e commercium; «compiere un rituale di purificazione» attraverso l’espulsione degli stranieri oltre le frontiere del territorio amministrativo; o, quando nessuna delle due misure era applicabile, distruggere gli stranieri fisicamente38.

Ora la situazione sta cambiando a ritmi vertiginosi e la parola chiave non è più «lungo termine» ma «breve termine».

I matrimoni non durano più tutta la vita e un giovane lavoratore con molte probabilità cambierà almeno undici posti di lavoro nell’arco della sua carriera.

La vita lavorativa è colma d’incertezze che conducano all’individualizzazione, ansia e preoccupazioni diventano problemi da affrontare in privato.

In un ambiente di lavoro flessibile è difficile immaginare che possano radicarsi sentimenti di lealtà e impegno reciproco, nella vita privata il matrimonio è sostituito dalla convivenza che fa sentire più liberi di interrompere il rapporto in ogni momento. La convivenza si basa su presupposti «più modesti», non si fanno giuramenti e le dichiarazioni, semmai pronunciate, non sono mai solenni; non si stringono pastoie e non si legano mani. Quasi sempre, non ci sono testimoni né alti

                                                                                                               

plenipotenziari a consacrare l’unione. Chiedi di meno, ti accontenti di meno, e quindi l’ipoteca da pagare è minore e anche la sua durata atterrisce di meno. Sulla «convivenza» non viene gettata nessuna ombra nera di una futura consanguineità, anelata o paventata che sia. La convivenza è a causa di, non al fine di39.

I rapporti di consanguineità, un tempo, erano l’eredità più importante che un individuo potesse lasciare alla sua morte, come se, tramite la sua stirpe, vivesse in eterno. Secondo Bauman i figli oggi sono «oggetti di consumo emotivo» nei quali si ripone la speranza che la soddisfazione che si possa ottenere da essi sia superiore a quella che si può avere da qualunque altro bene di consumo40. Così come ogni altro bene di consumo anche avere un figlio è una scelta da ponderare in base al costo e in base alle rinunce che comporta. Un figlio grava sul reddito della famiglia per cui spesso i futuri genitori cercano di godersi la vita il più possibile prima di dover iniziare a risparmiare in vista del nuovo arrivato; alcuni osservano da fuori la trasformazione che comporta avere un figlio, sia dal punto di vista economico che di gestione del tempo, e non si sentono capaci di rinunciare alle loro abitudini; altri genitori guardano con invidia alle coppie libere di godersi la loro vita e il loro tempo. Per dirlo con le parole di Bauman «centinaia di famiglie sono già condannate a una vita di povertà: altre centinaia di migliaia osservano tutto ciò e ne prendono atto»41.

Il passaggio da una modernità «pesante», «solida » a una «leggera» o «liquida» dà l’idea di come sia cambiata la storia dei lavoratori in questi anni, l’individuo abbandonato a se stesso è convinto di poter contare solo sulle sue forze e capacità.

Bauman nell’Intervista sull’identità afferma: «c’era un travolgente sentimento di urgenza, un’impazienza che solo una teoria in pillole da ingoiare e mandare giù in un sorso poteva, almeno per un po’ placare»42.

                                                                                                               

39Zygmunt Bauman, Amore liquido, Editori laterza,2006, pag. 42.

40Ivi, pag. 58.

41Zygmunt Bauman, Vita liquida, Editori Laterza, 2007, pag. 114.

42Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi, Editori Laterza, 2003, pag.

La teoria che si prestò a questo scopo fu quella marxista, anche se, come Bauman spesso fa notare, era solo una versione «impoverita e volgarizzata» del pensiero di Marx ridotta solo ad un determinismo economico.

Nella lunga intervista rilasciata a Benedetto Vecchi, Bauman spiega come l’immagine del proletariato che doveva erigersi a tutore di una riorganizzazione della società era, di fatto, vista come un qualcosa d’inimmaginabile.

La deregolamentazione, la flessibilità sul lavoro e nelle procedure da attuare, la fine delle fabbriche fordiste avevano allontanato la questione sociale dagli interessi dei lavoratori. «I capannoni delle fabbriche e i corridoi degli uffici sono diventati il palcoscenico di una competizione furiosa, all’ultimo sangue, tra individui in lotta per farsi notare dai capi e ottenere la loro approvazione, invece di essere il brodo di coltura della solidarietà proletaria in lotta per un mondo migliore»43.

Bauman non è l’unico sociologo contemporaneo ad avvertire l’urgenza di parlare e scrivere dei problemi che affliggono la società di oggi, le preoccupazioni che giungono da zone diverse dell’Europa sembrano essere infatti le medesime.

Importante è il saggio di Boltanski e Chiapello Il nuovo spirito del capitalismo, uscito per la prima volta in Francia nel 1999, nel quale gli autori mettono in campo una teoria sociologia innovativa che analizza i mutamenti della società e i conseguenti cambiamenti di norme e valori, si propone anche come denuncia verso le nuove forme di sfruttamento causate dalla flessibilità del lavoro e dalla mobilità.

Il profilo problematico principalmente affrontato dai due autori è quello delle critiche che al capitalismo venivano da due ambienti diversi: la critica sociale, quella dei movimenti operai, che chiedeva una diminuzione delle disuguaglianze e dello sfruttamento e maggiore solidarietà; critica che ottenne subito validi riconoscimenti poi aggirati nel corso degli anni Ottanta provocando ulteriori peggioramenti nelle condizioni lavorative.

                                                                                                                43Ivi, pag. 37.

La seconda critica nasce in piccoli circoli artistici e intellettuali e si esprime con toni molto aspri contro la rigidità delle tradizioni e il potere delle gerarchie, a favore invece dell’autenticità, autonomia individuale e singolarità.

La critica artistica ha avuto un successo più lento seppur più duraturo e i suoi valori furono inglobati dal capitalismo del Sessantotto e contribuì alla nascita di nuove forme di oppressione e mercificazione. Diede il via a una profonda mutazione sociale caratterizzata da un aspetto deterministico molto forte che si poteva interpretare solo in un modo: o dentro o fuori dalla società e dalle sue regole.

Secondo Boltanski e Chiapello bisognerebbe ripresentare una nuova critica artistica che punti alla stabilità, alla fedeltà e al radicamento. «Ridurre le situazioni in cui le persone sono messe alla prova. Un mondo senza situazioni in cui le persone sono messe alla prova, sostengono i due autori, è un mondo ingiusto. Ma un mondo in cui si è continuamente messi alla prova e giudicati, è un mondo invivibile»44.

La critica artistica dovrebbe dunque chiedere di rallentare le prove cui i lavoratori sono sempre sottoposti per rilanciare un’azione collettiva che miri alla realizzazione del progetto di bene comune.

Come scrive Bauman: «tra persone che vivono tra un progetto e l’altro, individui i cui progetti di vita si trovano sminuzzati in una successione di progetti di breve durata, non c’è tempo perché il malcontento diffuso si condensi nella richiesta di un mondo migliore…Sono persone che desidererebbero un presente diverso per ciascuno, piuttosto che pensare seriamente a un futuro migliore per tutti. Nello sforzo quotidiano per restare a galla, non c’è spazio né tempo per la visione di una «buona società »»45.

                                                                                                               

44Tommaso Vitale Insegna al Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale presso l’Università degli

Studi di Milano – Bicocca.

http://www.sociologia.unimib.it/DATA/Insegnamenti/2_1891/materiale/leggeri_flessibili_e_poco_a utoritari.pdf.

Il sociologo tedesco Urlich Beck elabora la sua teoria della modernità riflessiva partendo dal concetto di rischio.

La tesi principale è che la società industriale nella quale viviamo, composta da un altissimo livello di produzione tecnologica, produce rischi legati alla complessità dei processi produttivi tecnologici. Secondo il sociologo dunque ricchezza e rischio si muovono sullo stesso binario. Il rischio non è in sé una nuova esperienza per l’essere umano, è più che altro nuovo nell’interpretazione che Beck gli attribuisce.

Il rischio non è inteso come qualsiasi comportamento che si distacchi dalle normali norme di comportamento, è piuttosto qualcosa prodotto al di fuori dell’individuo e dei suoi comportamenti, è il prodotto dell’industrialismo, creato dall’uomo, ma non dipendete dalla sua volontà. Il rischio così interpretato non è frutto della biografia dell’uomo ma conseguenza della società industriale alla quale l’individuo no può sottrarsi in toto. Si può evitare o tenere lontane le conseguenze non scegliendo, ad esempio, un lavoro pericoloso, usando solo alimenti o indumenti biologici, vivendo in zone lontane dalle industrie.

Non si può a questo punto fare a meno di notare come queste scelte in realtà conducano e producano disuguaglianze sociali dovute alla diversità di risorse economiche e culturali di cui ciascun individuo dispone e può utilizzare come strumento d’identificazione del rischio.

Il criterio d’identificazione di un rischio spesso non è tangibile, non sempre è percepibile tramite i nostri sensi e le nostre conoscenze, serve una conoscenza specifica per poterlo riconoscere e quantificare, diviene dunque necessaria la figura di un esperto poiché non è più sufficiente la sola esperienza diretta.

Ma come una catena di problemi che non si riesce a snodare la figura dell’esperto ci suggerisce subito un'altra questione: quanto può essere affidabile per l’individuo l’opinione dell’esperto? L’opinione di quest’ultimo passa spesso attraverso un filtro economico che lo conduce a rassicurare la popolazione anche in quei casi in cui da scienziato non lo farebbe.

Il mondo di cui parla Ulrich Beck è un mondo che sfugge al controllo e che non si può plasmare, la risposta appare essere l’affermarsi di una sempre maggiore individualizzazione, caratteristica principale della società del rischio.

L’identità dell’individuo in passato era garantita dalle appartenenze di classe, ceto e cultura, ora invece astrae la sua biografia da questi canoni tradizionali. Beck parla di una società che si de-tradizionalizza e produce una pluralizzazione di biografie. Lo stesso Beck per meglio spiegare cosa vuole intendere con quest’affermazione si rifà ad un passo di H.M. Enzensberger molto efficace:

«Grossi borghi della bassa Baviera, paesetti dell’Eifel, cittadine dell’Holstein si popolano di personaggi che ancora trent’anni fa erano assolutamente impensabili: macellai che giocano a golf, mogli importate dalla Thailandia, addetti alle pubbliche relazioni che coltivano l’orticello fuori porta, mullah turchi, farmaciste attive in comitati per il Nicaragua, vagabondi che girano in Mercedes, autonomi con coltivazioni ecologiche, funzionari del fisco che collezionano armi, coltivatori diretti che allevano pavoni, lesbiche militanti, gelatai tamil, filologi classici che speculano coi contratti a termine, mercenari in vacanza, estremisti della protezione animali, spacciatori di eroina con saloni di abbronzatura, «domine» del sadomaso con clienti dell’alta dirigenza, mostri del computer che fanno la spola tra le banche dati californiane e i parchi naturali della Germania centrale, falegnami che esportano in Arabia porte d’oro, falsificatori di opere d’arte, studiosi di Karl May, guardie del corpo, esperti di jazz fautori dell’eutanasia e produttori di film porno. Al posto dei tipi strani e degli scemi del villaggio, delle macchiette e degli originali è subentrato il deviante medio, che tra milioni di omologhi non spicca neanche più (Enzensberger, 1988/1991, p.259)»46.

                                                                                                               

Il cambiamento che tutti hanno avvertito consiste nella scomparsa dei grandi gruppi che da sempre svolgevano il ruolo di mediazione tra individuo e società. Così, i problemi sociali, come la disoccupazione, non sono vissuti come esperienze sociali condivise ma come problematiche ascrivibili al proprio percorso biografico.

In quest’atteggiamento Beck rintraccia un segnale positivo poiché individualizzazione per lui significa dunque esercitare il controllo sulle nostre vite e non deve essere per forza fonte di smarrimento e frammentazione sociale ma è anzi un’esperienza che accomuna tutta la collettività.

Bauman non riesce ad attribuire connotazioni positive al processo d’individualizzazione, poiché sostiene che essa divida gli individui anziché unirli e che in una simile situazione reputa difficile lo sviluppo dell’idea di «interesse comune». In un mondo in cui il lavoratore è defraudato da ogni possibilità di stabilità, in un ambiente in cui bisogna continuamente lottare per ottenere promozioni e scacciare il rischio licenziamento non si può sperare nella diffusione del concetto di lealtà e dell’impegno reciproco.

In quella che il sociologo polacco definisce l’era della modernità liquida tutto è gestito dalla logica a «breve termine». Richard Sennett nel L’uomo flessibile, sostiene che nella società odierna ciò che più conta sono i rapporti occasionali di associazione piuttosto che i rapporti a lungo termine.

Nell’opera La società dell’incertezza Bauman traccia le caratteristiche principali dell’individuo nell’epoca della modernità liquida. Soggetto della sua riflessione non è più un uomo alla ricerca della sua identità, com’era stato il pellegrino, ma un uomo che rifiuta ogni tipo di fissità, pronto a cambiare continuamente di pari passo con la società frammentata in cui si muove.

Bauman descrive un uomo che non si cura di dover fissare la sua immagine nel tempo ma il suo obiettivo è «chiudere le partite in breve tempo» senza dunque prendere impegni a lungo termine.

Di fatti l’uomo della modernità liquida vive fuori dal tempo tradizionalmente inteso, è scomparsa l’immagine del lavoro che dura tutta la vita, così come la parola «per sempre» nelle relazioni d’amore.

L’autore ci regala un’immagine del tempo molto efficace: «il tempo non è più un fiume, ma un insieme di pozzanghere e piscine»47.

Un uomo che vive in quest’epoca può somigliare al «flâneur» di Baudelaire, al vagabondo, al turista e al giocatore. Tutte immagini che esistevano già in passato ma che descrivevano soggetti che vivevano in luoghi marginali ed erano essi stessi personaggi marginali. Questi personaggi oggi rappresentano un vero e proprio stile di vita e sono praticati dalla maggioranza delle persone in luoghi centrali.

Il flâneur viveva la sua vita bighellonando tra le strade della città e immaginando storie di vita delle persone che incontrava . Il bighellonare, nella vita moderna, era un’attività da svolgere ai margini della società, oggi gli Shopping malls (viali dove si cammina mentre si fanno acquisti) sono i promotori della figura postmoderna del flâneur , anzi hanno fatto di più: hanno elevato l’immagine di quest’ultimo, depurandola da tutte quelle caratteristiche che in passato l’avevano recluso ai margini.

La stessa sorte di escluso toccò al vagabondo ai tempi della modernità, fu proprio lui che con la sua vita senza una meta e senza padroni suggeriva l’urgenza di cercare un ordine nuovo.

Bauman mette in evidenza come nell’epoca della regina Elisabetta i legislatori erano ossessionati dal pensiero di allontanare i vagabondi dalle strade. La postmodernità ha del tutto invertito la situazione poiché vagabondo non è chi non si vuole organizzare in spazzi ordinati, il problema oggi è che non esistono spazi ordinati e chi crede di avere trovato una sistemazione permanente l’indomani potrebbe svegliarsi e non ritrovare quei posti ai quali sapeva di appartenere.

                                                                                                               

L’immagine del turista ricorda quella del vagabondo perché entrambi sono personaggi in movimento, ma il primo non viaggia senza una meta, è alla ricerca di nuove esperienze e la sua è una ricerca sistematica e cosciente, inoltre, mentre il vagabondo è nella condizione di senza tetto, il turista possiede una casa dove tornare e alla quale sente di appartenere, dalla quale si allontana quando sente la necessità di fare esperienza di qualcosa di strano, a lui sconosciuto.

L’ultima immagine che presenta Bauman è quella del giocatore: chi vive in un mondo fatto di mosse e di azioni condotte da chi gioca la partita, le cui regole sono