• Non ci sono risultati.

La globalizzazione in Europa tra pessimismo e ottimismo

Il tempo della globalizzazione è un tempo liquefatto in cui tutti i valori e le certezze del passato sono stati frammentati e spazzate via, si vive un momento in cui tutto quello che un tempo andava bene ed era fonte di sicurezza e stabilità ora non funziona più. Crisi finanziaria, disoccupazione, crisi di solidarietà e d’identità sembrano il prodotto della nostra epoca, ci si chiede che fine abbia fatto il welfare, dove siano tutti quei professionisti preposti alla soluzione dei problemi sociali che oggi più che mai si fanno sentire.

La nascita dello Stato sociale era il risultato morale più alto che una società civilizzata potesse raggiungere con la modernità, raggiungere quest’obiettivo fu frutto di una lunga battaglia da parte dei sindacati che esigevano un sistema che tutelasse i cittadini dai prevedibili problemi che la nascita del capitalismo avrebbe causato.

Nella fase embrionale dello sviluppo capitalista era necessario mantenere costante il rapporto tra capitale e forza lavoro per cui la condizione di disoccupato era transitoria e presto risolvibile, oggi il disoccupato non è più colui che aspetta in panchina il proprio momento ma un individuo in esubero che non può neanche portare il suo contributo nella società dei consumi. I poveri oggi sono una «sottoclasse» del sistema sociale e non un problema in attesa di essere risolto ma solo un peso che grava sul sistema, per cui sono spinti ai limiti del sistema stesso.

Urlich Beck nel libro La società del rischio ipotizza che nell’arco di dieci anni solo il 50% della forza lavoro avrà una posizione lavorativa stabile, il restante 50% dovrà rassegnarsi ad una vita fatta di lavori occasionali, scarse garanzie contrattuali,

assenza di diritti pensionistici e con la spada di Damocle del licenziamento sempre sulla testa98.

Alla luce di queste riflessioni si può comprendere la difficoltà delle professioni d’aiuto ad offrire una mano concreta contro i problemi sociali attuali. Bauman ci porta a riflettere su un altro aspetto, nuovo, che vede i poveri oggetto di rabbia e risentimento. Il pensatore della modernità liquida ha sempre reso evidente quanto il mondo in cui viviamo sia pieno di rischi, d’instabilità e d’insicurezza e quanto questi fattori si ripercuotono costantemente sulla vita quotidiana rendendo fragili i rapporti interpersonali, familiari, di vicinato e d’amicizia. Se a questo si aggiunge l’ansia del consumatore, posto sempre dinnanzi ad una scelta, costretto a sperimentare di continuo sensazioni di ansia e di vergogna senza mai riuscire a trovare un’identità che non passi fuori moda velocemente, si comprende chiaramente come in una vita siffatta non possa esistere un individuo che non sia disposto a cambiare un aspetto della propria vita in cambio di un po’ di serenità, ma si sa questo oggi non è possibile. Cosa si può fare per provare un po’ di sollievo? Questo desiderato sollievo arriva proprio dai poveri mostrando alla società qual è l’alternativa se non si riesce a restare nel gioco, ed ecco che ansia, paura, insicurezza divengono un male più sopportabile rispetto a sperimentare la condizione di povertà. Il triste destino dei poveri fa sembrare la vita degli altri meno pesante e più sopportabile. La flessibilità è un male contro il quale noi combattiamo tutti i giorni, ma di questa non si preoccupano i poveri, certi della loro miseria, se paragoniamo la loro situazione alla nostra troviamo più confortante la loro vita basata su certezze esigue ma costanti nel tempo come la consapevolezza della loro situazione e la sua durabilità nel tempo e soprattutto troviamo invidiabile il fatto che essi non sentano la necessità di dimostrare qualcosa a qualcuno a tutti i costi, la loro vita è basata su delle certezze la nostra la costruiamo sull’incertezza e la paura. Un tempo la società si sarebbe fatta carico dei

                                                                                                               

98Zygmunt Bauman, Homo Consumens, lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli

problemi dei più deboli e avrebbe cercato delle soluzioni, invece di escluderli dalla società per non vedere il male che la modernità ha causato alle nostre vite.

Bauman parla quindi di crisi dell’etica e della razionalità strumentale che è venuta a mancare indebolendo l’etica, del resto secondo il sociologo non può esistere nessun’altro metro di giudizio di una buona società se non quello valutabile tramite la qualità di vita dei poveri e non dovrebbe esistere nessun altro tipo di welfare se non quello che ha come unico obiettivo il miglioramento della qualità di vita dei soggetti deboli di una società. Anche se, per dirla tutta, la crisi dell’etica è accompagnata da un’eccessiva burocratizzazione dei servizi che rende ancor più complesso lo svolgimento delle professioni d’aiuto. Greet Van der Laan sottolinea che nel lavoro sociale «la valutazione di ordine morale è stata rimpiazzata dall’esecuzione procedurale delle regole». 99 Questo fa si che il lavoro degli assistenti sociali non segua più le regole dell’etica, ma si stia specializzando in statistica e classificazione dei casi ormai del tutto spersonalizzati. Evitare il fallimento, il grande rischio dell’era liquida, è la parola d’ordine anche in questo settore e per evitarlo la cosa migliore che si possa fare è seguire regole e procedure evitando qualunque coinvolgimento di ordine morale. Quest’ultimo motivo, pare lampante, entra in conflitto con la ragion d’essere del lavoro sociale dato che esso dovrebbe avere come unica finalità la salute e il benessere dell’altro che più di ogni altra cosa dovrebbe starci a cuore. A questo riguardo è necessario suggerire una domanda la cui risposta poco tempo fa sarebbe stata superflua: «Quando Dio domandò a Caino dove si trovasse Abele, Caino adiratosi replicò con un’altra domanda: «Sono forse io il custode di mio fratello?». Emmanuel Lèvinas, il maggiore filosofo della modernità della nostra epoca, osservò che dalla domanda di Caino ebbe inizio l’immoralità100.

                                                                                                               

99Zygmunt Bauman, Homo Consumens, lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli

esclusi, op. cit., pag. 94.   100Ivi,  pp.  85-86.    

Io sono certamente responsabile di mio fratello e il mio essere morale non può prescindere da questa mia responsabilità. Io non posso sentirmi sollevato dalla responsabilità della felicità o infelicità di mio fratello dato che il suo modo di essere è legato obbligatoriamente a ciò che io sono e non sono, faccio o mi astengo dal fare, non solo, la mia moralità dipende dal fatto che io riconosca e mi assuma tale responsabilità non sottraendomi mai ad essa. Come dice Bauman: «la dipendenza del fratello è ciò che fa di me un essere morale. La dipendenza e la morale o si danno insieme, o non si danno.»

Accettare la responsabilità che abbiamo nei confronti dell’altro è l’unica essenza della morale, l’unica ragione di vita del lavoro sociale, se quest’ultimo è stato contaminato dall’incertezze ciò è stato possibile solo perché anche le responsabilità morali vacillano. Secondo Bauman farsi carico dei problemi dei propri fratelli non è la notizia che voleva sentire chi era alla ricerca solo di pace e serenità ma per contro è una notizia grandiosa per l’essere morale. Quello che accadrà al lavoro sociale e allo stato sociale dipende dagli standard morali cui si da valore nella società che abitiamo, ma sono proprio questi, più di ogni altra cosa, a essere in crisi.

Nelle conclusioni del libro Homo Consumens, Bauman ammette che non c’è nulla di «ragionevole» nell’assunzione di responsabilità, nella care, nell’essere morali. L’etica ha solo se stessa a proprio sostegno: è meglio prendersi cura di qualcuno che lavarsene le mani, essere solidali con l’infelicità dell’altro piuttosto che esservi indifferenti e, in ultima istanza, è meglio essere morali, anche se questo non rende più ricchi gli individui, né le imprese. E’ la decisione dalla storia lunga e gloriosa di assumersi le proprie responsabilità, la decisone di misurare la qualità di una società in relazione alla qualità dei suoi standard morali, ciò che oggi è più importante che mai sostenere. 101

                                                                                                                101Ivi,  pag.97.  

La crisi dell’etica e della morale sono argomenti che suscitano molto preoccupazione in Bauman e negli ambienti intellettuali della nostra epoca, tant’è che quando è intervenuto al Festival della Letteratura di Mantova nel 2009 è stato ascoltato proprio su questo tema. «La globalizzazione è, per lui, qualcosa che ci succede e che non possiamo controllare per cui ogni qualvolta che qualcuno si chiede cosa si possa fare per risolvere tutti i nostri problemi, Bauman risponde che la domanda più giusta e più difficile da porre in realtà sia: chi può fare qualcosa? Il problema non è solo quali saranno le agenzie destinate a fare qualcosa ma anche in base a quale autorità e con quali risorse, potranno mettere in pratica una qualunque idea avanzata per risolvere i problemi attuali e il disordine globale che caratterizza la nostra realtà.

La globalizzazione è, pertanto, un processo incontrollabile e imprevedibile ma soprattutto unilaterale dato che a globalizzarsi è stato un solo aspetto della vita umana: la circolazione dei capitali e delle merci, che si spostano liberamente da una parte all’altra del globo, ma la politica e le istituzioni, create per porre dei limiti al movimento incontrollato del capitale e assoggettarlo a principi etici, sono ancora locali e quel contesto extraterritoriale dove si creano le condizioni di vita degli esseri umani si trova al di là di qualsiasi controllo politico.

E’ la prima volta nella storia che si verifica la curiosa coincidenza tra l’interesse della sopravvivenza e i principi etici e della morale, è la prima volta che entrambe queste cose puntano nella stessa direzione. Un tempo le cose non erano così e l’essere morale, l’essere etico sapeva che doveva scendere a compromessi, doveva cedere parte dei propri interessi e dei propri beni. Oggi l’interesse per la sopravvivenza e i principi etici puntano nella stessa direzione, per cui il genere umano non potrà sopravvivere se non accettando la responsabilità morale e se non seguendo alcuni principi etici fondamentali e basilari»102.

                                                                                                               

Bauman è convinto che la realtà che viviamo caratterizzata dalla liquidità e quindi dall’impossibilità di assumere e mantenere nel tempo una qualsiasi forma, non sia il destino dell’umanità. Sembra che alcuni meccanismi si siano solidificati e che sperare in un cambiamento possa essere difficile, ma è solo un aspetto della nostra vita. Richiamando le parole di Gramsci, Bauman parla di quello che stiamo vivendo come un periodo d’interregno in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». L’ordine sociale, com’eravamo abituati a pensarlo, si fondava su una triade Stato-nazione-territorio ora si è dissipata e la sovranità non è più attribuibile a nessuno di questi elementi. La caratteristica della postmodernità è che il potere non è più legato alla politica. Tramite il potere la politica poteva prendere delle decisioni e compiere il proprio lavoro nel rispetto della sovranità dei cittadini, la globalizzazione ha spazzato via questo meccanismo e ora il potere aleggia tutto nello spazio globale. In definitiva per risolvere problemi globali non si può fare invocare i mezzi locali ma servono mezzi globali che restituiscano alle istituzioni la capacità di poter compiere gli interessi dei cittadini. Il punto oggi è che questi mezzi non li abbiamo, ma possiamo crearli 103.

Crearli in quanto società e non individualmente, occorrerebbe far cessare questa crisi di solidarietà che si sta vivendo e riuscire a comprendere che non è pensabile poter risolvere i nostri problemi da soli ma bisognerebbe unirsi e ascoltarsi e la somma delle nostre capacità renderebbe gli uomini più forti di quanto non lo siano individualmente.

L’aspetto più innovativo e importante della società solida era proprio il fatto che riusciva continuamente a fabbricare solidarietà, anche nel mondo del lavoro, la società liquida essendo una società dei consumi è per definizione individualista, tutto è stato privatizzato e anche le azioni che possiamo svolgere in compagnia, come fare

                                                                                                               

103 http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/9/12/26212-­‐locchio-­‐di-­‐bauman-­‐

sullinterregno/        

acquisti, sono in realtà delle azioni solitarie in cui al più il legame che s’instaura è tra uomo e oggetto del consumo.

Si parla spesso, soprattutto Bauman lo fa, di globalizzazione negativa, del resto si crede che non sia possibile parlarne in termini diversi dati gli effetti catastrofici che ha avuto sull’uomo e sulla società. Se si dovesse aprire un dibattito su quest’argomento qualcuno che si erigerebbe in sua difesa c’è, Giddens, Beck, Sassen sono convinti che in qualche modo si possano contenere i disastri della globalizzazione e che non tutto sia andato perduto.

Leggendo il libro Città globali di Saskia Sassen si può facilmente dedurre che l’autrice si oppone all’idea secondo cui la globalizzazione ha rappresentato la fine dello Stato-nazione ma vede piuttosto un cambiamento nel modo di agire di quest’ultimo. La globalizzazione è interpretata come la matrice dalla quale prendono vita le gerarchie e le azioni svolte dallo Sato-nazione contribuiscono all’andamento della globalizzazione e svolgono un ruolo di supporto. Lo stato-nazione contribuisce alla creazione di quella che la Sassen definisce geografica globale composta da reti di città globali, relazioni interstatali, flussi di capitali e informazioni veicolate da internet. Lo stato-nazione agisce localmente e tramite le istituzioni a favore della globalizzazione. Per Saskia Sassen è sbagliato parlare di fine dello Stato-nazione, dovremmo più che altro parlare di metamorfosi in cui il locale e il globale si influenzano vicendevolmente.

Giddens nel suo libro Il mondo che cambia raffigura la globalizzazione come un insieme di fattori economici, politici e sociali che s’intersecano tra di loro creando un nuovo modo di percepire i rapporti con gli altri e le reti di relazioni. Viviamo in una società cosmopolita e potremmo tentare un passo verso la globalizzazione invece di ripudiarla continuamente e si potrebbe tentare di estrarre le istituzioni dalle cornici nelle quali siamo abituati a vederle e renderle più moderne, più adatte al nuovo contesto. Del resto secondo Giddens la globalizzazione ci offre la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di opportunità e niente impedisce la creazione di

nuove istituzioni in grado di accompagnare gli uomini in quest’epoca. Giddens riferendosi all’istituzione della famiglia propone, per esempio, di instaurare solo relazioni pure, che non siano costituite su un ordine gerarchico ma sul rispetto e sulla comunicazione emozionale.

Convinto che il vecchio Stato sociale stia finendo propone di seguire una terza via, che si stacca dal vecchio concetto di welfare e non si ritrova nella modernità, propone una struttura del welfare del tutto nuova. L’obiettivo della terza via è quello di proporre un concetto di Stato-nazione che non sia solo un ente amministrativo ma che sappia essere veramente dinamico per meglio affrontare i problemi di oggi. Lo Stato-nazione e il welfare non devono svolgere il ruolo riparatorio dei problemi causati dal capitalismo e dalla globalizzazione, ma devono essere più attivi e svolgere un ruolo di prevenzione e soprattutto convincersi che le politiche messe in atto non possano puntare alla massima standardizzazione ma all’opposto devono essere più personalizzabili possibili. Del resto in un mondo flessibile che ci offre una gamma infinita di possibilità, lo Stato deve proporre più offerte possibili per i suoi cittadini in modo tale che possano scegliere liberamente quella che più si adatta al loro bisogno. Per Giddens l’unico limite al cambiamento è l’assenza di coraggio.

Si auspica infine la creazione di un potere transazionale come potrebbe essere l’Unione Europea ancora però allo stato larvale.

Beck crede che l’idea di un potere transnazionale non sia solo un’utopia, usa l’espressione realismo cosmopolita per rimarcare la realtà di tale fenomeno. Secondo lui il vero problema in questo momento consiste nell’individuare quale ente possa garantire un agire secondo diritto. Se si torna a guardare allo Stato-nazione si nota che lo Stato di diritto democratico addomesticava tramite le leggi l’agire politico ed economico, oggi con l’apertura dell’economia su scala mondiale il diritto ha perso la sua centralità, per cui è necessario trovare un altro modo per far svolgere al diritto la funzione civilizzatrice che ha sempre rivestito. Per Beck questo è un compito che dovrebbe svolgere un organo rappresentativo come l’Unione Europea. Beck, in

accordo con Giddens, vede nell’Europa cosmopolita la nuova possibile realtà, come una terza via che sia in grado di oltrepassare il concetto di nazionalismo non trascurando l’importanza delle nazioni. Quello che però Beck si augura non è la realizzazione di un gigantesco Stato-nazione composto da tutte le nazioni europee ma un futuro in cui ci sia maggior interdipendenza fra gli Stati-nazione dell’Unione Europea, pur mantenendo ognuno la propria identità.

Secondo Bauman l’Europa un tempo era il continente a cui gli altri guardavano con invidia e cercavano di imitare, oggi però l’Europa ha perso quel ruolo di faro

illuminante e secondo lui non potrà fare molto per recuperare quel ruolo influente che

aveva sempre avuto. L’Europa ha perso la supremazia militare che oggi possiedono gli Stati Uniti e se un domani dovessero perderla di certo non tornerebbe in Europa ma si sposterebbe in Russia, in Cina, in India e in Brasile. Bauman sostiene e crede fermamente che in realtà a oggi l’Europa potrebbe comunque svolgere un ruolo importante, ancora più importante di quello economico e militare di grande importanza anche per gli altri continenti. L’Europa potrebbe rappresentare un laboratorio in cui provare a risolvere o negoziare i problemi che si trovano ad affrontare anche gli altri continenti. Secondo Bauman è qui che si è maggiormente sviluppata l’arte del dialogo, della negoziazione, dell’accettazione dell’altro, della comprensione reciproca e siamo riusciti a lasciarci alle spalle conflitti lunghi e radicati nei secoli. Dobbiamo ancora perfezionarci nell’arte del dialogo ma sicuramente siamo più avanti rispetto agli altri continenti è non è un’arte da poco se, concordando con Bauman, le riconosciamo un’importanza con cui l’umanità si deve confrontare più che con un’altra qualunque arte, altrimenti «l’alternativa sarebbe troppo orribile anche solo al pensiero»104.

Qui, in Europa si vive vicini a molte lingue, tradizioni, religioni diverse e questo ci permette di allenarci nella difficile arte della tolleranza e se rimaniamo

                                                                                                               

fedeli ai nostri valori potremmo davvero portare un cambiamento nel resto del mondo, questa è una delle grandi speranze di Bauman, e la realizzazione di questo obiettivo non dipende da forze esterne, ma da ciò che noi europei vogliamo essere e come ci vogliamo comportare.

L’individuo è al centro delle riflessioni sociologiche moderne, cercando di dare delle risposte alle perplessità scaturite dall’analisi della post-modernità possiamo seguire il consiglio di Sennett di cercare di costruire delle biografia che siano più continue nel tempo e meno frammentarie, seguiti da istituzioni nuove che possano aiutare i lavoratori nella ricerca di continuità, questo ruolo potrebbe essere svolto con una maggiore consapevolezza dai sindacati. L’individuo, per una migliore qualità di vita, potrebbe riscoprire lo spirito lavorativo dell’artigiano e impegnarsi nella realizzazione di un progetto con l’unico scopo della realizzazione, del compimento di un obiettivo, senza aspettare qualcosa in cambio e salvarsi dalla superficialità della cultura moderna.

Oltre ai sindacati, dovremmo restituire alla sociologia quell’importanza che in questi anni ha perso e ricordare come dice Bourdieu«che chi ha la possibilità di dedicare la propria vita allo studio del mondo sociale non può riposare, neutrale e indifferente, di fronte alle lotte la cui posta è il futuro del mondo»105.

Il compito dei sociologi, secondo Bauman, non è quello di fare profezie sul futuro e fornire soluzioni ma cercare di risvegliare quei sentimenti di solidarietà e quella voglia di comunità che oggi si è persa. Compito ancor più importante per poter