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Esempio 7 - Determinare la capacità del condensatore mostrato in figura

3.5 Induttori

Immaginiamo di avvicinare due spire metalliche, fino a portarle ad una prefissata distanza; la prima, che supponiamo percorsa da una corrente, genererà un flusso del campo di induzione magnetica nell’altra. Dalla legge di Faraday - Neumann sappiamo che, se questo flusso varia, ad esempio cambiando la corrente della spira inducente, nella seconda spira si produrrà una f.e.m. indotta legata alla variazione nel tempo del flusso concatenato.

• La caratteristica

In effetti, non è necessario che vi siano due spire per avere un fenomeno di induzione; affinché in una spira appaia una f.e.m. indotta, o meglio autoindotta, è necessario far variare la corrente nella spira stessa. Se invece di una spira consideriamo una bobina con le spire molto vicine tra loro, realizzando, ad esempio, un lungo solenoide come quello di Figura 3.35, il flusso ΦB associato ad ogni singola spira è lo stesso, se siamo nel caso quasi - stazionario magnetico, e quindi la legge di Faraday - Neumann si può scrivere come

v(t) = d

dt NΦB(t) = - N d

dt ΦB(t) ,

dove con N abbiamo indicato il numero di spire totali e con v(t) la tensione del solenoide, ai capi del quale immaginiamo sia stata fatta la convenzione

dell’utilizzatore. È chiaro allora che la grandezza fondamentale è il flusso concatenato.

Per una data bobina si può dimostrare che il flusso concatenato è proporzionale alla corrente che circola nell’avvolgimento, per mezzo di una costante di proporzionalità L nota come induttanza del sistema, che come nel caso della capacità dipende solo dalla geometria del sistema.

i(t) i(t)

B

B

Figura 3.35: induttore solenoidale.

Quanto appena detto viene così formalizzato N ΦB(t) = L i(t) ,

ed è vera solo nel caso in cui consideriamo mezzi a comportamento lineare, non devono, cioè, essere presenti materiali magnetici. Sostituendo nella relazione che fornisce la tensione, otteniamo la relazione che lega questa alla corrente circolante nel solenoide:

v(t) = d

dt N ΦB(t) = L d dt i(t) .

L’unità di misura dell’induttanza, come avevamo già anticipato nel secondo capitolo, è l’henry, in onore a Joseph Henry, fisico americano contemporaneo di Faraday. In particolare si nota che

L = v didt

= 1 V 1 A 1 s

= 1 V s

A = 1 H .

Notiamo che la caratteristica più importante di questi componenti, che da ora in poi chiameremo induttori, è la presenza di un campo magnetico al loro interno, così

come la presenza di un campo elettrico caratterizzava un condensatore: comincia così ad intravvedersi una certa la dualità tra questi due componenti.

Come abbiamo fatto per i condensatori, calcoleremo il coefficiente di auto induzione L per alcuni tipi di induttori di uso frequente. Partiamo dal caso di un induttore solenoidale molto compatto, cioè con le spire molto vicine le une alle altre, supposto in aria, schematicamente rappresentato in Figura 3.36. In questo caso la definizione data di induttanza stabilisce che

L = N ΦB

i .

× × × × × ×

A B

C

D Γ

h B

Figura 3.36: rappresentazione schematica della sezione di un lungo solenoide.

Usiamo questa espressione con l’intento di calcolare l’induttanza del tratto centrale di un lungo solenoide di lunghezza h. Come anticipato in precedenza, e come è messo in evidenza dalla relazione precedente, per fare questo occorre stabilire quale sia il flusso del campo magnetico concatenato con l’induttore. Se supponiamo che la sezione trasversale abbia una superficie pari ad S, avremo, assumendo uniforme l’induzione magnetica sulla sezione,

ΦB = B S ,

che, sostituito nella definizione, fornisce il notevole risultato L = N B S

i .

Se indichiamo con n il numero di spire per unità di lunghezza del solenoide, cioè

n = N h ,

ed assumiamo che il campo magnetico all’interno di un solenoide sia uniforme e pari a (come tra un momento mostreremo)

B = µ n i ,

si verifica agevolmente che L = N µ n i S

i = N µ N

h S = µ N2 S

h = µ n2 S h ,

cioè l’induttanza di un tratto di solenoide di lunghezza h è proporzionale al suo volume S h ed al quadrato del numero di spire per unità di lunghezza, attraverso la costante µ, che, come sappiamo, è la permeabilità magnetica del mezzo di cui è riempito il solenoide. Che vi fosse una dipendenza dal quadrato del numero di spire era da aspettarselo, visto che, se raddoppia il numero di spire per unità di lunghezza, raddoppia anche il flusso dell’induzione magnetica. Quindi la quantità N ΦB diventa quattro volte più grande e, di conseguenza, anche l’induttanza.

Passiamo, ora, al calcolo del campo magnetico generato da un solenoide. Un solenoide è nient’altro che un filo avvolto a forma di elica a passo corto, nel quale circola una corrente i, ed il cui sviluppo longitudinale è predominante rispetto a quello trasversale. In queste ipotesi possiamo supporre, senza commettere un grosso errore, che il campo magnetico all’interno del solenoide sia uniforme e diretto lungo la direzione del cilindro, mentre all’esterno sia zero. In effetti, come vedremo dopo, affinché le equazioni di Maxwell siano verificate, è essenziale che vi sia un campo all’esterno, ma nella nostra trattazione non lo considereremo (proprio come abbiamo detto per il condensatore). Siamo giunti finalmente al calcolo del campo del campo di induzione magnetica all’interno del solenoide e, per questo scopo, utilizzeremo la legge di Ampère - Maxwell alla curva Γ rappresentata in Figura 3.36. La suddetta legge, nel limite quasi - stazionario magnetico in cui ci troviamo, si riduce a

B

Γ

⋅ t dl = µ0 i ,

dove la circuitazione a primo membro può essere scomposta in quattro integrali, uno per ciascuno dei segmenti che compongono la curva Γ:

B

Γ

⋅ t dl = B

A B

⋅ t dl + B

B C

⋅ t dl + B

C D

⋅ t dl + B

D A

⋅ t dl .

Il primo integrale, nelle ipotesi di campo uniforme e di tratto di solenoide di lunghezza h, vale B h. Gli altri tre integrali sono tutti nulli; il secondo ed il quarto sono eseguiti su cammini ortogonali alla direzione del campo, e per le note proprietà del prodotto scalare sono zero, il terzo è invece nullo, essendo l’integrale eseguito su di un cammino che si sviluppa all’esterno del solenoide, dove, per le ipotesi fatte, il campo B è nullo. In conclusione la circuizione di B alla curva Γ si riduce al solo termine B h.

Passiamo al secondo membro dell’equazione di Ampère - Maxwell: esso, a parte la costante µ, non rappresenta la corrente che circola nell’avvolgimento, ma la corrente che circola nell’avvolgimento moltiplicata per il numero di spire che si concatenano con la curva Γ nel tratto h. Indicato con n il numero di spire per unità di lunghezza, non è difficile convincersi che questa corrente vale i n h, dove n h è esattamente il numero di spire incontrate in un tratto h. La legge di Ampère -Maxwell si ridurrà, dunque, a

B h = µ n h i ,

da cui segue l’espressione finale del campo magnetico (uniforme) all’interno di un solenoide

B = µ n i .

Questa relazione mostra che il campo di induzione magnetica non dipende né dal diametro, né dalla lunghezza del solenoide, ma solo dalla corrente che in esso circola e da quanto è fitto l’avvolgimento. Per quel che riguarda l’effetto del campo esterno si potrebbero fare considerazioni del tutto analoghe a quelle fatte nei condensatori e concludere che, affinché siano verificate le equazioni di Maxwell, il campo esterno ad un induttore non può essere rigorosamente zero.

Esempio 8 - Un solenoide in aria di 10000 spire è lungo 10 cm ed ha una sezione media di 10 cm2. Calcolare l’induttanza.

Posto

N = 104 , µ0 = 4π ⋅ 10-7 H/m , S = 10-3 m2 , h = 0.1 m ,

si ha:

L = µ0 N2 S h = 2

5 π H .

Prima di passare oltre, riportiamo il valore dell’induttanza di un cavo coassiale, presente in moltissime applicazioni tecnologiche, di raggio interno (anima) a, raggio esterno (calza) b e lunghezza h:

L = µ h 2 π ln b

a .

In definitiva la caratteristica di un induttore è v(t) = ± L d

dt i(t) , con L ≥ 0 .

L’ambiguità nel segno dipende, come al solito, dalla convenzione fatta ai capi del bipolo. In ogni istante di tempo, per un fissato valore di corrente, la tensione può assumere qualsiasi valore nello stesso istante. Il punto centrale da capire è che, nell’induttore, un brusco aumento della tensione applicata non provoca un aumento altrettanto brusco della corrente (come avviene, invece, nel resistore), ma soltanto una accelerazione nella crescita della corrente. Da questo punto di vista, l’induttore è come un’auto dotata di scarsa ‘ripresa’ (e la ripresa è tanto peggiore quanto maggiore è l’induttanza L). Quando ‘schiacciamo l’acceleratore’ della tensione applicata, la corrente aumenta, sì, ma con gradualità, non istantaneamente: è proprio come se l’induttore conservasse una certa memoria della condizione in cui funzionava prima. Per questo, lo consideriamo dotato di memoria.

t 0

i2(t) i1(t)

I0

t0

Figura 3.37: intersezione tra due correnti.

Per rendere il fenomeno ancora più evidente, osserviamo esplicitamente che diverse correnti possono avere, nello stesso istante, lo stesso valore, ma diversi valori della derivata rispetto al tempo, come suggerisce la Figura 3.37. All’istante t0, le due correnti assumono lo stesso valore, ma la derivata di i1(t) è positiva (la curva è inclinata verso l’alto), mentre la derivata di i2(t) è negativa (la curva è inclinata verso il basso).

Il segno della tensione non dipende da quello della corrente, perché dipende dal segno della derivata temporale della corrente. Ne deriva che le cariche positive, in un induttore, possono sia ‘cadere’ dai punti a potenziale più alto, sia fare il contrario, cioè ‘risalire’ dai punti a potenziale più basso a quelli a potenziale più alto.

• Energia immagazzinata

La potenza elettrica assorbita da esso è, in ogni istante, immagazzinata e neppure una piccola parte viene trasformata in calore. L’induttore è come un serbatoio di energia privo completamente di buchi. L’energia, detta magnetica in questo caso, accumulata in un induttore è data, in ogni istante da

UL(t) = 1

2 L i(t) 2 .

Questa relazione si ottiene, come mostrato per il condensatore, integrando la potenza istantanea. L’energia dipende, quindi, soltanto dal valore della corrente che circola nell’induttore in quell’istante (e non dalla tensione applicata ai suoi morsetti).

In regime stazionario, l’induttore si riduce a un semplice corto circuito, poiché, se la corrente è costante nel tempo, la sua derivata è nulla:

v(t) = L d

dt i(t) = L ⋅ 0 = 0 .

Ecco perché, quando studieremo il regime stazionario, gli induttori non compariranno.

Esempio 9 - Un induttore, supposto scarico all’istante t = 0 e di induttanza L = 1, viene alimentato dalla corrente (il cui grafico è riportato nella figura che segue):

i(t) =

2 t , per 0 ≤ t ≤ 2 ; 8 - 2 t , per 2 ≤ t ≤ 4 ;

0 altrove .

Determinare l’andamento della potenza e dell’energia istantanea assorbita.

-3 -2 -1 0 1 2 3 4 5

0 0.5 1 1.5 2 2.5 3 3.5 4

t i(t)

+ − v(t)

i(t)

v(t) L = 1

L’esempio richiede la determinazione della potenza e dell’energia assorbite dall’induttore. Fatta la convenzione dell’utilizzatore, cominciamo a calcolare la tensione sostenuta dalla corrente di alimentazione:

v(t) = L d dt i(t) .

Adoperando questa relazione e ricordando le principali regole di derivazione, non è difficile concludere che

v(t) =

2 , per 0 ≤ t ≤ 2 ; - 2 , per 2 ≤ t ≤ 4 ; 0 altrove .

Nella figura precedente sono rappresentate le due funzioni, corrente e tensione, nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 4; al di fuori di questo intervallo, esse sono nulle.

Per determinate le potenza, basta eseguire il prodotto

p(t) = v(t) i(t) =

4 t , per 0 ≤ t ≤ 2 , 4 t - 16 , per 2 ≤ t ≤ 4 , 0 , altrove ,

mentre l’energia magnetica immagazzinata è data dalla formula

UL(t) = 1

2 L i(t) 2 =

2 t2 , per 0 ≤ t ≤ 2 , 32 + 2 t2 - 16 t , per 2 ≤ t ≤ 4 ,

0 , altrove .

La potenza e l’energia sono rappresentate, sempre nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 4, nella figura che segue.

-20 -15 -10 -5 0 5 10 15 20

0 0.5 1 1.5 2 2.5 3 3.5 4

t p(t)

UL(t)

• Induttori in serie e parallelo

Spesso è utile usare, anziché un solo induttore, più induttori opportunamente collegati tra loro. Molti problemi tecnici vengono risolti tramite questo accorgimento e, se il nostro obiettivo è innalzare l’induttanza complessiva, allora dobbiamo collegare due (o più) induttori in serie, mentre se li collegheremo in parallelo, vuol dire cha abbiamo intenzione di ridurre l’induttanza complessiva, il contrario di quanto accadeva per i condensatori.

Cominciamo dagli induttori in parallelo. La Figura 3.38 mostra tre induttori, il cui simbolo avete gia avuto modo di incontrare durante lo studio delle reti elettriche, di induttanza L1, L2 e L3, collegati in parallelo.

Quanto vale l’induttanza del bipolo equivalente al collegamento in parallelo?

i(t)

i1(t) i2(t) i3(t) L3

L2 L1

+

− v(t)

A

B

Figura 3.38: induttori in parallelo.

Se applichiamo ad ogni induttore la relazione caratteristica, otteniamo v(t) = L1 d

dt i1(t) = L2 d

dt i2(t) = L3 d

dt i3(t) .

La corrente totale del sistema costituito dai tre induttori è data dalla somma delle singole correnti e, quindi,

v(t) L = d

dt i(t) = d

dt i1(t) + i2(t) + i3(t) = v(t)

L1 + v(t)

L2 + v(t) L3 , essendo L l’induttanza totale, definita dalla relazione

1 L = 1

L1 + 1 L2 + 1

L3 .

Questa formula, dedotta nel caso di tre induttori, può essere facilmente estesa al caso di N induttori in parallelo, mostrando che l’induttanza equivalente al parallelo di N induttori è pari all’inverso della somma degli inversi delle singole induttanze

L = 1

1 L1 + 1

L2 + 1

L3 + ... + 1 LN

.

Dalla questa formula si evince chiaramente che il collegamento in parallelo viene usato per abbassare la capacità di una struttura. Immaginiamo, allo scopo, di

collegare in parallelo due induttori di stessa induttanza L0; l’induttanza equivalente, allora, risulta

L = L0 L0

L0 + L0 = L0 2 ,

cioè la metà del valore dell’induttanza di ciascuno dei due induttori. In generale, l’induttanza equivalente di un collegamento in parallelo è sempre minore della più piccola induttanza della catena.

Passiamo ora al caso degli induttori in serie. La Figura 3.39 mostra tre induttori di induttanza L1, L2 e L3, collegati in serie.

i(t) L1 L2 L3

+ −

A v(t) B

i(t)

+ − + − + −

v1(t) v2(t) v3(t)

Figura 3.39: induttori in serie.

Anche per questa configurazione siamo interessati a stabilire quale sia l’induttanza complessiva equivalente. A tal fine notiamo che, per gli induttori collegati in serie, la corrente che attraversa ciascun induttore è la stessa. Ora, applicando ad ogni induttore la definizione di induttanza, abbiamo che

v1(t) = L1 d

dt i(t) , v2(t) = L2 d

dt i(t) , v3(t) = L3 d dt i(t) ,

essendo v1(t), v2(t) e v3(t) le tensioni ai capi dei tre induttori. La tensione del bipolo equivalente è data dalla somma di questi tre contributi e, pertanto,

v(t) = v1(t) + v2(t) + v3(t) = (L1 + L2 + L3) d

dt i(t) = L d dt i(t) , dove con L abbiamo indicato l’induttanza totale del sistema

L = L1 + L2 + L3 .

Questa formula può essere facilmente estesa al caso di N induttori in serie, affermando che l’induttanza equivalente di una serie di induttori è pari alla somma delle singole induttanze componenti

L = L1 + L2 + L3 + ... + LN .

Da quest’ultima relazione è facile convincersi che questo tipo di collegamento viene usato per aumentare l’induttanza di una struttura.

• Realizzazione degli induttori

Veniamo alle caratteristiche costruttive degli induttori. Cominciamo dagli induttori senza nucleo ferromagnetico. Esistono varie formule per il calcolo degli induttori, tutte empiricamente ricavate, quindi approssimate. Con riferimento agli induttori senza nucleo, la formula approssimata di uso più generale per il calcolo delle dimensioni di un induttore, ad un solo strato, è

L = 987 ⋅ 10-6 K D2 N2 H ,

dove, come mostrato in Figura 3.40, con L abbiamo indicato l’induttanza in microherny, D il diametro dell’induttore in centimetri, H la lunghezza in centimetri, N il numero di spire, K il fattore di correzione, detto costante di Nagaoka, il cui andamento al variare del rapporto di aspetto è riportato in Figura 3.40.

D H

K

2 4 6 8 10

0.1 1 10

D H Figura 3.40: realizzazione di un induttore in aria.

La relazione riportata viene risolta generalmente imponendo tutti i parametri tranne uno. Determinati tutti i valori dei parametri, si realizza l’induttanza e si verifica il progetto mediante ponti di misura, per mostrare che l’induttanza realizzata corrisponde a quella progettata.

Generalmente la bontà di un induttore dipende dal tipo di supporto impiegato, dal tipo di avvolgimento e dal tipo di filo. Per ridurre la capacità propria dell’induttore, al fine di migliorarne le prestazioni, si eseguono avvolgimenti particolari che riducono questo effetto indesiderato. Gli avvolgimenti tipici sono due: quello ad induttori cilindrici e quello a nido d’ape. Per i primi, la formula utilizzata per il calcolo dell’induttanza è la stessa che abbiamo mostrato in precedenza. Per quelli a nido d’ape la formula empirica è

L = 10-3 K N2 r ,

dove r è il raggio medio dell’induttore in centimetri.

Passiamo, ora, agli induttori con nuclei ferromagnetici, che vengono realizzati al fine di ottenere elevati valori di induttanza con ingombro modesto. Con questi induttori è possibile variare, entro un certo intervallo, mediante spostamento del nucleo rispetto agli avvolgimenti, la permeabilità magnetica e, quindi, l’induttanza. Se l’induttore con nucleo è attraversato da una corrente costituita dalla somma di una continua più una alternata, occorre dotare il nucleo di un traferro, per evitare che la componente continua della corrente determini una magnetizzazione troppo elevata del nucleo. Nel caso in cui ci siamo messi, cioè di corrente somma di due contributi, continua ed alternata, se da un lato la presenza del nucleo aumenta il valore dell’induttanza, dall’altro introduce delle perdite di energia dovute all’isteresi ed alle correnti parassite, che si vanno ad aggiungere a quelle, già presenti, di tipo ohmico. Infine, per concludere, riportiamo la formula che ci consente di calcolare, in via approssimata, l’induttanza di un induttore con nucleo magnetico

L = 1.256 N2 LF

µr SF + LA SA

10-6 ,

dove abbiamo indicato con N numero delle spire, LF la lunghezza del circuito magnetico del nucleo, LA la lunghezza del circuito magnetico del traferro, µr la permeabilità magnetica relativa del nucleo, SF la sezione trasversale effettiva del nucleo; SA la sezione equivalente del traferro (SA > SF).

Al fine di eliminare gli effetti di eventuali campi elettromagnetici esterni, o per limitare, almeno in una data zona, il campo magnetico prodotto da un induttore, si è soliti racchiudere l’induttore stesso in un involucro, chiamato schermo. La tecnica che consente di realizzare ciò viene detta schermatura e si differenzia a seconda della frequenza dei campi sostenuti dall’induttore. Infatti, per campi magnetici continui o a bassa frequenza, si realizzano schermature con materiali magnetici ad elevata permeabilità iniziale, mentre si usano materiali metallici ad elevata conducibilità, per campi magnetici ad elevata frequenza. In conclusione, facciamo notare esplicitamente che la schermatura introduce una diminuzione della induttanza stessa.

Appendice: altri fenomeni di conduzione

La conduzione nei metalli è essenzialmente affidata agli elettroni che, abbandonando l’atomo o la molecola di appartenenza, migrano più o meno liberamente attraverso il reticolo cristallino, costituendo quello che viene detto mare di Fermi. Gli elettroni sono particelle molto leggere e, pertanto, dotate di grande mobilità.

In questa appendice vogliamo esaminare altri fenomeni di conduzione elettrica, legati alle soluzioni ed ai gas. La principale differenza con la conduzione nei metalli è dovuta alla diversa mobilità delle particelle cariche che costituiscono la corrente, dato che, sia nei liquidi che nei gas, partecipa al processo conduttivo non solo il piccolo ed agile elettrone, ma anche il più pesante ione, ottenuto per estrazione di elettroni dagli atomi e dalle molecole. Si intuisce, allora, come la mobilità dei diversi portatori di carica determini le dinamiche dei processi conduttivi e, di conseguenza, le caratteristiche del conduttore in esame.

• Definizione di mobilità

Le considerazioni fatte sulla mobilità dei vari tipi di ioni possono, in qualche misura, essere rese più quantitative introducendo il concetto di mobilità.

Immaginiamo di avere una particella carica (che può essere anche un elettrone), di massa M e carica q, che si muova con velocità (media) v sotto l’azione di un campo elettrico E. Definiamo mobilità della particella, indicata simbolicamente con µ, la costante dimensionale che lega la velocità al campo elettrico, cioè

v = µ E .

Le dimensioni della mobilità sono µ = v

E = ms mV

= m2 V s .

Se, nello stesso campo elettrico accelerante, consideriamo due tipi di particelle, una pesante (indicata con una P ad apice) ed una leggera (indicata con una L ad apice), risulta che

vP = µP E , vL = µL E .

Dividendo membro a membro le due ultime relazioni, possiamo facilmente concludere che

vP vL = µP

µL < 1 ,

cioè che la mobilità della particella più pesante è più piccola, come è ovvio, di quella della particella più leggera µP < µL. Ciò comporta che un elettrone possiede una mobilità molto più grande di quella di qualsiasi altro ione.

• Conduzione nei liquidi

Nei conduttori elettrolitici la corrente elettrica è costituita dal movimento ordinato di ioni: gli ioni positivi migrano verso il catodo, mentre quelli negativi si muovono verso l’anodo, come mostrato in Figura A.1.

Studiando il passaggio della corrente elettrica nei liquidi, M. Faraday, nel 1833, osservò che l’acqua pura è praticamente isolante, mentre diventa conduttrice se si scioglie in essa una piccola quantità di un sale, o di un acido, o di una base.

Soluzioni in acqua, invece, della maggior parte dei composti organici, come ad esempio lo zucchero, non sono conduttrici. Chiameremo elettrolita qualsiasi sostanza che, disciolta nell’acqua, la rende conduttrice ed elettrolisi il passaggio della corrente elettrica nelle soluzioni elettrolitiche.

E

Anodo Catodo

Figura A.1: conduzione in un elettrolita.

La proprietà di un elettrolita, di lasciarsi attraversare dalla corrente, proviene dal fatto che una parte delle sue molecole è dissociata. Ad esempio, in una soluzione di cloruro di sodio Na Cl, una parte delle molecole è dissociata in ioni sodio, portanti una carica elementare positiva, un’altra parte in ioni cloro, portanti una carica uguale negativa. La carica di questi ioni monovalenti è ancora, in valore assoluto, quella dell’elettrone.

L’esperienza mostra che per soluzioni elettrolitiche vale la legge di Ohm, cioè l’intensità della corrente che passa è proporzionale alla differenza di potenziale. Ciò vale finché la temperatura della soluzione non diventa troppo alta, a causa dell’effetto Joule, che ha luogo nei liquidi attraverso un meccanismo simile a quello

che si manifesta nei solidi; se la temperatura è così elevata che il liquido bolle, avvengono in esso fenomeni complicati e la legge di Ohm non è più rispettata.

Comunque, la conduzione nei liquidi è particolarmente interessante per tutti gli aspetti legati allo studio di batterie ed accumulatori.

• Conduzione nei gas

Cominciamo a notare che gli ioni gassosi si formano per cessione oppure acquisto di uno o più elettroni, e non per scissione delle molecole costituenti la soluzione, come invece accade per le soluzioni. Quello che accade è che un elettrone, o più di uno, posto nella parte più esterna della molecola di gas acquista una energia tale da distaccarsi dalla molecola che, inizialmente neutra, diventerà ora uno ione positivo;

l’elettrone liberatosi si legherà ad un’altra molecola, facendola diventare uno ione negativo, oppure rimarrà da solo comportandosi, ovviamente, come uno ione negativo. Ciò che rimane da chiarire è cosa renda possibile questa ionizzazione. A tal proposito si definisce agente ionizzante un qualunque fattore esterno, capace di fornire ad uno o più elettroni l’energia di ionizzazione, cioè l’energia che consente la fuoriuscita dell’elettrone dalla molecola. I più comuni agenti ionizzanti sono: la temperatura, la radiazione elettromagnetica e quella nucleare, i raggi cosmici.

L’entità del fenomeno della ionizzazione è, per un certo campo di valori, direttamente proporzionale all’agente ionizzante. C’è da dire, però, che si riscontra una situazione di saturazione in cui l’effetto non aumenta più, anche aumentando l’agente ionizzante, in quanto ad un certo punto il numero di ioni che si formano in un certo intervallo di tempo risulta pari al numero di molecole che, nello stesso intervallo di tempo, ritornano allo stato neutro. La ionizzazione non è l’unico fenomeno al quale sono soggetti i gas: quando un gas, in cui siano presenti alcuni ioni, è immerso in un campo elettrico esso subisce quella che comunemente viene chiamata ionizzazione secondaria che consiste nel fatto che gli ioni presenti, positivi e negativi, vengono attratti o respinti dagli elettrodi che generano il campo.

In questo modo acquistano una energia cinetica tale che urtando contro le altre molecole provocano un’ulteriore ionizzazione (da cui l’attributo secondaria).

I gas non ionizzati si comportano dal punto di vista elettrico come dei perfetti isolanti, ma, dato che non si riesce mai ad eliminare tutti gli agenti ionizzanti, una certa qual conducibilità si riscontra sempre. Ad esempio, la sola radiazione cosmica è talmente penetrante da attraversare qualunque schermo posto a protezione del gas ed è capace di produrre una, sia pur piccola, ionizzazione. Si conclude, allora, che i gas presentano sempre una certa conducibilità.

Illustriamo, ora, un esperimento che ci consente di comprendere in che modo si manifesti il fenomeno della conduzione nei gas. Soffermiamoci, per il momento, al caso di un gas mantenuto a pressione costante e supponiamo di eseguire

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