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Capitolo 3 I bipoli e le loro caratteristiche

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Academic year: 2022

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I bipoli e le loro caratteristiche

In questo capitolo ci si occuperà delle caratteristiche dei diversi bipoli che progressivamente introdurremo in maniera che possiate familiarizzarvi, poco a poco, con i più comuni tra essi, riconoscerne i simboli ed abituarvi a ‘maneggiarli’

(per ora ... soltanto con la mente ... per motivi di sicurezza fisica).

Ricollegandoci a quanto detto nel capitolo precedente, le LK ci consentono, per una qualsiasi rete di bipoli costituita da ‘r’ lati, di scrivere ‘r’ equazioni indipendenti, alcune ai nodi, altre alle maglie. Dal momento che risolvere una rete vuol dire conoscere le correnti e le tensioni in ogni lato, che sono ‘2r’, è necessario scrivere altre ‘r’ equazioni indipendenti che, assieme alle LK, ci diano la possibilità di portare a termine questa missione. Inoltre, dato che le LK sono proprietà topologiche, cioè dipendenti dal solo grafo della rete e non dalla natura dei bipoli posti in ciascun ramo, le ulteriori informazioni che bisogna aggiungere sono relative proprio alla natura dei bipoli presenti in ciascun ramo. Il concetto di caratteristica ci darà la possibilità di specificare questa natura e di completare, almeno concettualmente, l’operazione di risoluzione della rete.

3.1 Caratteristica di un bipolo

La caratteristica di un bipolo è il legame funzionale che collega la tensione e la corrente ai suoi capi. Indipendentemente dalla convenzione adottata, essa può, in maniera astratta, essere rappresentata come un certo legame funzionale che collega le variabili che descrivono il comportamento elettrico del bipolo ed alcune loro derivate. Formalmente si può scrivere come una legame tra tensione, corrente e le loro derivate

F t , v , i , dv dt , di

dt , = 0 .

Nello scrivere la funzione ‘F’, abbiamo indicato le diverse grandezze senza riportare esplicitamente la dipendenza dal tempo, allo scopo di semplificare la notazione adoperata. Detto in questi termini, la caratteristica di un bipolo rappresenta un legame, che può essere di tipo algebrico e/o differenziale, tra la tensione e la corrente che, scritto nella forma implicita riportata, risulta piuttosto

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difficile da utilizzare: evidentemente, nella pratica, esso si ridurrà a delle forme più o meno trattabili e/o esplicitabili. Ad esempio, se il legame non dipende esplicitamente dal tempo, il bipolo si dirà tempo - invariante e la precedente relazione diventa:

F v , i , dv dt , di

dt , = 0 .

Se poi si elimina pure la dipendenza dalle derivate di qualsiasi ordine, la relazione viene detta caratteristicastatica e si riduce alla più semplice

F v , i = 0 .

Quando è possibile scrivere la caratteristica statica in forma esplicita, in funzione della tensione oppure della corrente, nel qual caso il bipolo è detto ‘diniano’, si possono presentare due casi:

a) la caratteristica assume la forma v = r(i) ,

ed in tal caso il bipolo si dice controllato in corrente, poiché ad ogni corrente corrisponde certamente un’unica tensione, ma non è detto che sia vero il viceversa;

b) la caratteristica assume la forma i = g(v) ,

ed in tal caso il bipolo si dice controllato in tensione, poiché ad ogni tensione corrisponde certamente un’unica corrente, ma non è detto che sia vero il viceversa.

Da quanto detto in precedenza si deduce che un bipolo può essere classificato come lineare oppure non lineare se tale è il legame caratteristico che collega tra loro tensione e corrente (ed eventualmente le loro derivate). A titolo di esempio, si riporta, in Figura 3.1, la caratteristica statica di un bipolo non lineare: questo bipolo, sul quale è stata fatta la convenzione dell’utilizzatore, è conosciuto come diodo a giunzione ed occupa un posto importante nella moderna Elettronica. La non linearità del legame tra la tensione e la corrente è evidente dal grafico della caratteristica, che può essere analiticamente espressa dalla relazione

i = IS exp v η VT

- 1 ,

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in cui IS è un parametro, detto corrente inversa di saturazione, che rappresenta la corrente che attraversa il dispositivo quando esso è sollecitato da una forte tensione negativa

i

v → - ∞lim = - IS ;

η dipende dal tipo di materiale semiconduttore con cui è realizzato il diodo e vale approssimativamente 1 per diodi al germanio, 2 per quelli silicio; VT, infine, è l’equivalente in tensione della temperatura ed è pari a

VT = T 11660 ,

con T temperatura assoluta del dispositivo. A temperatura ambiente (T ≅ 293 K), VT ≅ 25 mV. Notiamo incidentalmente che si tratta della caratteristica statica di un bipolo controllato sia in tensione che in corrente.

i

0 v IS

Figura 3.1: caratteristica statica di un diodo.

Nei prossimi paragrafi forniremo esempi concreti di bipoli e discuteremo in dettaglio le loro caratteristiche. Prima, però, di approfondire con degli esempi il concetto di caratteristica, vale la pena di introdurre il concetto di ‘bipolo equivalente’ che, oltre ad essere un valido aiuto nella risoluzione delle reti, rappresenta anche un potente strumento di pensiero.

• Bipolo equivalente

Immaginiamo di avere a disposizione un certo numero di bipoli, collegati tra di loro in maniera qualsiasi. È bene sottolineare che abbiamo bisogno di elementi di

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connessione tra i morsetti, che negli schemi grafici rappresenteremo con dei tratti di linea, che uniscono i bipoli (in fondo, si tratta di semplici cortocircuiti, come specificheremo meglio nel seguito). Nella pratica, essi saranno realizzati con conduttori ad elevata conducibilità, tipicamente in rame.

+

− A

B

+

− A

B Bipolo equivalente

i(t)

i(t) v(t)

v(t)

Figura 3.2: generica rete elettrica.

Consideriamo una rete di bipoli qualsiasi, come, ad esempio, quella mostrata in Figura 3.2. Nella rete, abbiamo evidenziato due nodi (A e B) in corrispondenza dei quali si può applicare una certa tensione v(t) ed inviare una corrente i(t). Dato che l’intera rete, ‘vista dai morsetti A e B’, può pensarsi come un unico bipolo, è chiaro che tra la tensione v(t) e la corrente i(t) sussiste un legame che dipenderà dalla natura dei singoli bipoli che compongono la rete e dal modo in cui essi sono collegati tra loro. Tale legame costituisce la caratteristica della bipolo visto dai morsetti A e B. Ora, è chiaro che, se al posto della intera rete terminante con i morsetti A e B, mettiamo un unico bipolo, che abbia proprio la stessa caratteristica del bipolo AB, il resto della rete non ha modo di accorgersi della sostituzione, e tutte le correnti e le tensioni negli altri rami della rete restano inalterate. Per questo motivo, diremo che la rete iniziale, vista dai morsetti AB, ed il nuovo bipolo sono fra loro equivalenti.

Riassumendo, diremo che due bipoli, comunque costruiti al loro interno, sono equivalenti quando presentano la stessa caratteristica. Resta inteso che l’equivalenza si limita a ciò che accade al di fuori di questi bipoli, poiché al loro interno essi restano comunque diversi.

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Emerge, allora, con chiarezza che, ogni volta che parliamo di bipolo equivalente a una rete, è indispensabile precisare (a meno che non sia evidente) due cose: da quali morsetti si deve considerare la rete; che il bipolo equivalente può sostituire la rete soltanto per gli effetti esterni (dato che ha la stessa caratteristica), ma non può fornire alcuna indicazione su quanto accade all’interno della rete sostituita.

• Parallelo e serie di bipoli

Nel primo capitolo, si è già visto che, dati due bipoli, ci sono solo due tipi di collegamento realizzabili, e sono mostrati in Figura 3.3. Il primo collegamento prende il nome di collegamento in parallelo, il secondo di collegamento in serie.

(a) (b)

Figura 3.3: (a) parallelo e (b) serie di bipoli.

Per entrambi vogliamo determinare, note le caratteristiche dei due bipoli componenti, la caratteristica del bipolo equivalente. Esaminiamo separatamente i due casi.

Consideriamo il parallelo di due bipoli, come indicato in Figura 3.4. I morsetti del primo bipolo sono A e B; quelli del secondo C e D. Applichiamo la LKT alla maglia ABCD:

- v1 + v2 = 0 → v1 = v2 .

L’elemento caratterizzante un collegamento in parallelo consiste, dunque, nel fatto che i due bipoli sono soggetti alla stessa tensione v1 = v2 = v.

Per comprendere in che modo possa ottenersi la caratteristica del bipolo equivalente, riferiamoci, con le convenzioni di segno indicate, ancora alla Figura 3.4 e consideriamo le caratteristiche dei due bipoli. In base alla LKC applicata a una superficie gaussiana che contenga i due nodi A e C (oppure B e D) ma tenga

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fuori il nodo E (oppure F), la corrente che attraversa il bipolo equivalente è pari alla somma delle correnti che circolano nei bipoli 1 e 2.

E F

i1 i i2

+ v2

v1

+ −

A B

C D

+ −

E F

v i = i1 + i2

Figura 3.4: due bipoli in parallelo.

Dunque, per ottenere la caratteristica del bipolo equivalente basta sommare le correnti dei due bipoli in parallelo che corrispondano alla tensione considerata.

Consideriamo, ora, due bipoli collegati in serie, come mostrato in Figura 3.5, ed applichiamo la LKC al nodo B

- i1 + i2 = 0 → i1 = i2 .

L’elemento caratterizzante il collegamento sta dunque nel fatto che i due resistori sono attraversati dalla stessa corrente.

+

+

−+

− E

F

A

D

B ≡ C v1

v2 v

i1

i2

+

− E

F v

i = i1 = i2

Figura 3.5: due bipoli in serie.

Anche questa volta, considerando un nuovo bipolo i cui morsetti siano E ed F (Figura 3.5), chiediamoci quale sia la caratteristica di questo nuovo bipolo. La LKT alla maglia tratteggiata in Figura 3.5, essendo i la corrente che attraversa entrambi i bipoli 1 e 2, quindi anche il bipolo equivalente, suggerisce che, per ottenere un qualsiasi punto della caratteristica del bipolo equivalente, basta sommare le tensioni sui bipoli 1 e 2 in corrispondenza della corrente considerata.

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• La ‘targa’ di un bipolo

Un fatto pratico che è utile che sappiate subito ( ... e non dimentichiate mai) è che ogni bipolo reale possiede una sua ‘targa’, sulla quale sono riportate le informazioni principali che servono a farlo funzionare nelle condizioni migliori (si dice, in gergo, ‘in condizioni nominali’). Questa targa può essere fatta in diversi modi: a volte, è una vera e propria etichetta applicata al bipolo; altre, è semplicemente scritta direttamente sull’involucro del bipolo; altre ancora, è fatta da una specie di

‘codice a barre’, del tipo di quelli segnati per i prezzi sui prodotti dei supermercati.

Tutto questo, però, è evidentemente poco importante: quel che conta è che, sul bipolo, siano segnati i suoi specifici ‘dati di targa’.

Vediamo quali sono di solito questi dati, e perché sono necessari, cominciando, come al solito, con un esempio semplicissimo: quello di una comunissima lampadina. Bene, se guardate con un po’ di attenzione (di solito in cima al bulbo di vetro), riuscirete a leggere, ad esempio: 220 V e 100 W, oppure 220 V e 60 W.

Cosa ci dicono questi dati? Semplice: che la prima lampada per funzionare al meglio deve essere collegata a una tensione di 220 V. Il secondo dato, quello sulla potenza, ci fornisce anche un’altra informazione: quando alla lampada viene applicata la d.d.p. di 220 V, la potenza elettrica che essa assorbe è di 100 W. Se, infatti, usassimo una tensione minore, diciamo 100 V, la potenza elettrica assorbita dalla lampada sarà sicuramente minore di 100 W. Segue che la lampada praticamente non si accende in queste nuove condizioni (o, comunque, emette una luce fiochissima). Verrebbe fatto allora di dire: applichiamo alla lampada una tensione maggiore di 220 V, in modo che la potenza elettrica assorbita sia maggiore di 100 W e la lampada faccia ‘più luce’. Certamente sì; ma c’è un difetto. Per far più luce, il filamento della lampada dovrà ‘salire’ a una temperatura più alta di quella prevista dal costruttore; dopo poco tempo, il filamento si rompe ... e la lampada è da buttare via.

Ecco, allora, cosa vuol dire far funzionare un bipolo nelle ‘condizioni nominali’, corrispondenti ai suoi dati di targa: farlo funzionare in modo che, nel caso della lampada, la luce sia quella desiderata, né di più, né di meno, e duri il più a lungo possibile.

Quanto finora detto per il caso della lampadina, vale in realtà per qualsiasi bipolo.

Possiamo verificarlo, andando a leggere la targa, per esempio, di una lavabiancheria, una lavastoviglie, un ventilatore. Vedremo che, in tutti i casi, la

‘targa’ del bipolo riporterà i valori nominali di tensione e di potenza elettrica, oltre ad altri ancora, che spiegheremo più avanti. Ma, per ora, quello che vi abbiamo detto sulla targa di un bipolo ... può bastare.

3.2 Resistori

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In questo paragrafo, senza pretendere di dare alcuna completa spiegazione fisica dei cosiddetti fenomeni di conduzione elettrica, è opportuno fare almeno un cenno brevissimo che faciliti nella comprensione del funzionamento di quei particolari bipoli che vanno sotto il nome di resistori.

• La caratteristica

A questo scopo, si ricorda che i corpi materiali si comportano in maniera differente quando sono soggetti a fenomeni elettrici. Tra i costituenti elementari della materia, vi sono particelle cariche elettricamente: elettroni e ioni. Queste cariche, specialmente gli elettroni, sono più o meno legate alla struttura del corpo materiale e, quindi, più o meno libere di muoversi, a seconda della natura dei diversi corpi materiali. Sotto l’azione di una differenza di potenziale oppure di altre forze, le cariche ‘libere’ si muovono, dando luogo ad una corrente elettrica.

Da questo punto di vista e con una classificazione per il momento solo grossolana, si può inserire ogni materiale in una scala che vede ad un estremo l’isolante perfetto, un materiale in cui non ci sono cariche libere, o, se presenti, sono del tutto impedite nel loro moto, ed all’altro estremo il conduttore perfetto in cui le cariche, presenti in gran numero, sono completamente libere di muoversi. Il vuoto, per esempio, fin tanto che rimane tale, è certamente un perfetto isolante, mentre un corpo metallico, il rame, per esempio, portato a bassissima temperatura, può essere considerato una buona esemplificazione di conduttore perfetto.

Nei materiali metallici, o conduttori di prima specie, le cariche responsabili della corrente sono gli elettroni più esterni degli atomi che costituiscono il materiale stesso. Questi elettroni, debolmente legati ai rispettivi atomi, formano in effetti una specie di nube elettronica che, sotto l’azione di una differenza di potenziale, si mette in moto e produce una corrente.

Per un gran numero di conduttori e per un campo di variabilità dei parametri in gioco discretamente ampio, sussiste una relazione di proporzionalità tra la d.d.p.

applicata e la corrente prodotta: a questa relazione di proporzionalità viene dato il nome di legge di Ohm. È questa proprio la famosa ... legge di Ohm, che, per l’epoca in cui fu scoperta, i primi decenni del XIX secolo, ebbe meritatissima fama.

Ora, però, che le cose possono essere riguardate in prospettiva storica, si comprende meglio che essa gioca, in realtà, il ruolo di una importante caratteristica statica, valida per certi tipi di bipoli, ma non certo quello di una legge generale valida per tutti i circuiti, come è invece il caso della LKC e della LKT.

Ciò detto, si torni alla legge di Ohm per illustrarne l’enunciato più chiaramente possibile. Si supponga, allora, di avere un corpo conduttore, schematicamente rappresentato in Figura 3.6, e di individuare sulla superficie che lo racchiude due punti, fra i quali si applica una d.d.p. ‘v(t)’.

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+ − + −

(a) (b)

v(t) = R i(t) i(t) i(t)

v(t) v(t)

v(t) = - R i'(t) i'(t) i'(t)

Figura 3.6: la legge di Ohm (a) secondo la convenzione dell’utilizzatore e (b) del generatore.

Si supponga, inoltre, di essere in grado di far circolare nel corpo una qualsiasi corrente ‘i(t)’. Una volta fissati i punti di accesso della corrente, il moto delle cariche all’interno del corpo si svilupperà in una ben precisa maniera che non è necessario, però, in questa fase, specificare in maggior dettaglio. Se, in queste condizioni, si immagina di applicare agli stessi punti, diverse differenze di potenziale e si misurano le correnti che ne derivano, si avrà modo di verificare che, raddoppiando la tensione, raddoppia la corrente, dimezzando la tensione, dimezza la corrente, e così via; si ha, cioè, utilizzando, come in Figura 3.6a, la convenzione dell’utilizzatore

v(t) = R i(t) ,

con R ≥ 0. Alla costante di proporzionalità R, che nel Sistema Internazionale si misura in ohm (Ω), viene dato il nome di resistenza del corpo in esame, quando alimentato nella maniera indicata. Questa precisazione è necessaria perché a voler essere proprio pignoli, il valore della costante R, in generale, cambia se cambiano i due punti di applicazione della d.d.p., così come cambia ancora, se, invece di due punti ideali pensiamo a due superfici attraverso le quali la corrente viene portata e prelevata; in questo caso R dipende anche dalla forma ed estensione di tali superfici, dette elettrodi. Per questo motivo ci si rende indipendenti dalla forma degli elettrodi supponendoli, in una situazione ideale, addirittura puntiformi. Per il momento, comunque, tutto questo può essere trascurato dicendo che il corpo ha una sua ben precisa resistenza, non negativa. Dalla relazione riportata, deriva subito che un resistore ha una resistenza pari a 1 Ω quando, ‘alimentato’ ai morsetti con una tensione di 1 V, è percorso da una corrente di 1 A.

Naturalmente la stessa legge di proporzionalità può essere espressa nella forma equivalente

i(t) = G v(t) ,

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dove la grandezza G = 1/R prende il nome di conduttanza ed è misurata in siemens (S), anch’essa positiva, tutt’al più nulla. Nella letteratura tecnica anglosassone, l’unità di misura della conduttanza è il ‘mho’, che è nient’altro che la parola ‘ohm’

scritta al contrario.

Vale la pena chiedersi come camba, nella forma, la legge di Ohm, se si adotta, per il resistore, la convenzione del generatore, invece di quella dell’utilizzatore. Un momento di riflessione fatta sulla figura 3.6, osservando che la nuova corrente i'(t) è ora opposta alla ‘vecchia i(t)’, di Figura 3.6a, consente di concludere che

v(t) = R i(t) = R [- i'(t)] = - R i'(t) ,

essendo la resistenza R la stessa di prima, vale a dire in ogni caso positiva!

Sinteticamente si può dire che la caratteristica di un resistore è v(t) = ± R i(t) ,

in cui R è la stessa, ha cioè lo stesso valore, sempre positivo, ed il segno ‘+’ vale se viene adottata la convenzione dell’utilizzatore, mentre il segno ‘-’ vale se viene adottata la convenzione del generatore. Naturalmente, i grafici corrispondenti alle due relazioni caratteristiche sono riportati in Figura 3.7a e 3.7b.

R

+ v −

i

0 i

(a) v

R

+ −

i

v

0 (b) v

i

Figura 3.7: caratteristica statica e simbolo circuitale di un resistore.

È interessante approfondire l’analisi del contenuto della legge di Ohm allo scopo di cercare di distinguere in essa la parte che dipende dalla forma del corpo da quella che invece dipende strettamente dalla natura del materiale.

Per semplicità espositiva assumiamo una forma molto semplice: un cilindro abbastanza lungo rispetto alla sua dimensione trasversale (Figura 3.8).

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S

L

R = ρ L ρ S

Figura 3.8: resistenza di un conduttore cilindrico.

In queste ipotesi, accurate indagini sperimentali condotte da Ohm nei primi decenni del XIX secolo mostrarono che per molti conduttori metallici, in un ampio campo di valori, vale una formula di questo tipo:

R = ρ L S ,

dove ρ prende il nome di resistività del materiale (il suo inverso σ quello di conducibilità) e dipende solo dalla sua natura e dalle condizioni fisiche in cui si trova ad operare (ma non dalla forma del corpo), mentre L è la lunghezza e S l’area della sezione trasversale del cilindro. La resistività si misura in Ωm (ohm - metro), oppure anche in Ωmm2/m, mentre la conducibilità in S/m.

Qui di seguito sono riportati valori indicativi della resistività di alcuni materiali alla temperatura ambiente, misurate in ‘milionesimi di Ωm’ (µΩm). Comprenderete cosa sia il coefficiente di temperatura più avanti.

Resistività

(µΩ/m) Coefficiente di temperatura (°C-1)

Argento 0.0164 0.038

Rame 0.0176 0.0039

Oro 0.023 -

Alluminio 0.028 0.004

Tungsteno 0.055 0.0045

Ferro 0.1 ÷ 0.15 0.006

Costantana 0.5 0.0000031

Carbone 20 ÷ 100 0.0002

Come si vede rame e argento presentano una resistività molto bassa. Il rame costituisce il miglior compromesso, in termini di bassa resistività e basso costo, e

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per questo motivo è di gran lunga il materiale più usato nelle applicazioni elettriche, tanto che nel linguaggio comune rame è diventato sinonimo di conduttore elettrico. Nella Figura 3.9 sono riportati alcuni resistori commerciali.

Figura 3.9: realizzazione pratica di resistori.

Ad esempio, sapendo che l’area della sezione di una rotaia di acciaio (ρacciaio = 0.18 µΩm) è pari a S = 45 cm2, concludiamo immediatamente che un tratto di lunghezza L = 15 km presenta una resistenza pari a

R = ρ L

S = 0.6 Ω .

In Figura 3.10 rappresentiamo, ancora una volta nel piano tensione - corrente, la caratteristica v = R i di un resistore ed il relativo simbolo circuitale: la caratteristica è una retta che passa per l’origine, con inclinazione che dipende dal valore della resistenza. L’inclinazione rispetto all’asse orizzontale è ben misurata dal valore della funzione trigonometrica tangente dell’angolo α, in Figura 3.10. Al variare di R, quindi, la retta sarà più o meno inclinata sull’asse delle I: quanto maggiore è R, tanto più verticale tenderà ad essere la retta; e viceversa.

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0 α

i v

R

+ v = R i −

i

Figura 3.10: inclinazione della caratteristica statica di un resistore.

• Dipendenza della resistività dalla temperatura nei buoni conduttori Quando abbiamo introdotto il bipolo resistore, abbiamo sottolineato come la sua resistenza dipenda, oltre che dalla forma del sistema, anche dalla resistività ρ del materiale di cui il corpo è fatto.

È ragionevole allora presumere che la resistività di un materiale non sia una costante indipendente dalle condizioni fisiche del materiale stesso.

Un fattore importante da cui la resistività dipende è la temperatura del corpo.

0 1 2 3 4 5 6 7

-200 0 200 400 600 800

Resistività del rame

T (°C) T0 Valori calcolati

Valori misurati

ρ(µΩ cm)

Figura 3.11: variazione della resistività del rame con la temperatura.

Limitandoci ai buoni conduttori, la Figura 3.11 mostra che la dipendenza di ρ(T) è approssimabile, in un vasto campo di temperature, con una retta. In altri termini possiamo scrivere che

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ρ(T) = ρ(T0) 1 + α (T - T0) ;

alla costante α viene dato il nome di coefficiente di temperatura del materiale. Data la relazione di proporzionalità tra resistività e resistenze, la stessa dipendenza della temperatura si ritroverà anche nel valore della resistenza, sicché

R(T) = R(T0) 1 + α (T - T0) .

I valori di α si trovano facilmente in opportune tabelle per i diversi materiali:

generalmente per T0 si sceglie la ‘temperatura ambiente’ pari a 20 °C circa. Per il rame, prodotto con procedimento elettrolitico, per esempio, tale coefficiente vale α = 0.038 (°C)-1.

La curva di resistività mostrata in Figura 3.11 non va a zero al tendere a zero della temperatura, come potrebbe sembrare, ma la resistività residua a questa temperatura è circa 0.02⋅10-8 Ωm; per molte sostanze, invece, la resistenza diventa zero a bassa temperatura.

-0.02 0 0.02 0.04 0.06 0.08 0.1 0.12 0.14

0 1 2 3 4 5 6

Resistenza del mercurio

R (Ω)

T (K)

Figura 3.12: la resistenza del mercurio si annulla al di sotto di 4 K.

Nella Figura 3.12 è riportata la resistenza di un campione di mercurio per temperature inferiori ai 6 K. In un intervallo di circa 0.05 K la resistenza scende bruscamente a un valore tanto basso da non essere misurabile. Questo fenomeno, chiamato superconduttività, fu scoperto da Kammerlingh Onnes, in Olanda, nel 1911. Sembra che la resistenza dei metalli nello stato di superconduttività sia

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veramente zero; infatti, le correnti, una volta che abbiano cominciato a circolare in circuiti superconduttivi chiusi, persistono per settimane senza diminuire, anche se non vi è alcuna batteria nel circuito.

Se si aumenta la temperatura appena sopra il valore a cui inizia la superconduttività o se si applica un intenso campo magnetico, queste correnti si riducono rapidamente a zero. Comunque, dall’epoca della scoperta di Onnes sono state individuate molte altre sostanze che presentano un’analoga transizione di fase.

Superconduttore TC (K)

Tecnezio 11.2

Niobio 9.2

Piombo 7.2

Vanadio 5.0

Mercurio 4.2

Indio 3.4

Alluminio 1.2

Cadmio 0.5

Titanio 0.4

Questa transizione avviene ad una temperatura, chiamata temperatura critica TC, che varia da sostanza a sostanza, come riportato nella tabella precedente.

Perché, per questi materiali, si verifica il fenomeno della superconduttività?

La risposta viene da una teoria molto complicata, denominata teoria BCS, dal nome dei tre fisici che l’hanno formulata nel 1957, cioè Bardeen, Cooper e Schrieffer, la quale mostra che, a basse temperature, gli elettroni si muovono a coppie (le coppie di ‘Cooper’), ignorando completamente la presenza del reticolo cristallino: si muovono come se fossero nel vuoto, senza incontrare alcuna resistenza. In tempi recenti, nel 1986, sono state individuate sostanze che diventano superconduttrici a temperature molto più elevate, dell’ordine di 35 K. Alcune sostanze ceramiche, realizzate ultimamente, esibiscono questo fenomeno addirittura a temperature dell’ordine di un centinaio di gradi kelvin. Ebbene, non sembra che a questo ordine di temperature sia possibile la manifestazione della superconduttività secondo le modalità previste dalla teoria BCS. Così la superconduttività ‘ad alte temperature’

aspetta ancora una spiegazione soddisfacente.

In attesa di tale spiegazione, sono comunque in corso ricerche tese ad ‘inventare’

materiali che diventino superconduttori a temperature sempre più elevate. Queste ricerche hanno un valore applicativo rilevante: se si riuscisse a realizzare un superconduttore a temperatura ambiente, sarebbe possibile trasportare la corrente

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elettrica da una centrale di produzione ad una città senza alcuna ‘perdita’ di energia dovuta all’effetto Joule.

• Parallelo di resistori

Limitiamoci, ora, al caso di due resistori in parallelo, aventi resistenza R1 e R2, mostrato in Figura 3.13.

− +

E

F R1

R2 i1(t)

i2(t) v(t)

i(t)

Figura 3.13: parallelo di due resistori.

Si può scrivere, avendo fatto la convenzione dell’utilizzatore, che v(t) = R1 i1(t) = R2 i2(t) .

D’altra parte, per la LKC, la corrente i(t) deve essere la somma della correnti i1(t) e della corrente i2(t)

i(t) = i1(t) + i2(t) = v(t)

R1 + v(t)

R2 = v(t) 1 R1 + 1

R2 , somma che può essere anche scritta nella forma

i(t) = v(t) RE ,

in cui, per brevità, abbiamo introdotto la resistenza (equivalente) RE = 1

1 R1 + 1

R2 .

Il bipolo equivalente è ancora un resistore di resistenza RE, conformemente alle relazioni seguenti:

v(t) = R1 R2

R1 + R2 i(t) = RE i(t) → RE = R1 R2 R1 + R2 .

(17)

Dato che il parallelo di due resistori rappresenta un’operazione che, con molta frequenza, si presenterà nelle nostre applicazioni, si introduce il simbolo

R1 || R2 = R1 R2 R1 + R2 ,

per indicare sinteticamente questa situazione circuitale.

Consideriamo, poi, il parallelo di N resistori, mostrato in Figura 3.14. Vogliamo trovare il resistore equivalente ‘visto’ dai morsetti AB.

A

B +

− i(t)

i1(t) i2(t) i3(t) iN-1(t) iN(t) RN RN-1

R3 R2

R1

Figura 3.14: parallelo di N resistori.

Poiché il parallelo impone la stessa tensione VAB ai capi di ciascun resistore, le correnti si possono scrivere nella forma:

ik(t) = vAB(t)

Rk = Gk vAB(t) , con k = 1, 2, , N .

Inoltre, poiché, per la prima legge, la corrente totale i(t) vale i(t) =

ik(t)

k = 1 N

,

è immediato ricavare che i(t) =

GkvAB(t)

k = 1 N

= vAB(t)

Gk

k = 1 N

.

Pertanto, la conduttanza equivalente di N resistori in parallelo si ottiene sommando le conduttanze di ciascun lato

(18)

GE = G1 + G2 + + GN ,

e, quindi, la resistenza equivalente è data da:

RE = 1

GE = 1

G1 + G2 + + GN = 1 1

R1 + 1

R2 + + 1 RN

.

Nel caso particolare N = 2, ritroviamo immediatamente la formula stabilita in precedenza:

GE = 1

RE = G1 + G2 = 1 R1 + 1

R2 → RE = R1 R2 R1 + R2 .

• Partitore di corrente

Possiamo ora stabilire come si ripartisce la corrente nel parallelo di due resistenze, poiché è questo un caso che si incontrerà molto di frequente. Dato che, come si evince dalla Figura 3.13,

i(t) = i1(t) + i2(t) ,

e le due correnti valgono rispettivamente i1(t) = v(t)

R1 e i2(t) = v(t) R2 , si può scrivere

i(t) = v(t)

R1 + v(t)

R2 = v(t) 1 R1 + 1

R2 → v(t) = i(t) R1 R2 R1 + R2 .

Tornando alle due correnti, in definitiva, risulta (regola del partitore di corrente) i1(t) = i(t) R2

R1 + R2 e i2(t) = i(t) R1 R1 + R2 .

• Serie di resistori

Ragionamenti analoghi portano all’individuazione della caratteristica del bipolo equivalente alla serie di due resistori, mostrato in Figura 3.15. Si avrà, dunque, applicando la LKC al nodo A:

(19)

- i1(t) + i2(t) = 0 → i(t) = i1(t) = i2(t) .

+

+

−+

− R1

R2 A

v2(t) v1(t) v(t)

i1(t)

i2(t)

Figura 3.15: serie di due resistori.

D’altra parte, per la LKT, applicata alla maglia tratteggiata in Figura 3.15, si ottiene

v(t) = v1(t) + v2(t) ,

e quindi, indicando con i(t) e v(t) le grandezze del bipolo equivalente alla serie, otteniamo

v(t) = v1(t) + v2(t) = R1 i(t) + R2 i(t) = (R1 + R2) i(t) = RE i(t) .

Segue che il bipolo equivalente è ancora un resistore con resistenza pari a RE = R1 + R2 .

R1 R2 RN

A B

+

− i(t)

i(t)

Figura 3.16: serie di N resistori.

In generale, se consideriamo la serie di N resistori, è facile scrivere (Figura 3.16) che la resistenza equivalente vale:

RE = R1 + R2 + + RN .

(20)

La lampadine che usiamo per addobbare l’albero di natale possono essere considerate come N resistori in serie. Ora, come spesso accade, qualcuna si rompe (diciamo che ‘si brucia’) e, come è abitudine diffusa, la togliamo dalla ‘serie’ (in pratica sostituiamo la lampadina rotta con un pezzetto di carta stagnola per realizzare un cortocircuito). Ci accorgiamo, però, che, dopo non molto tempo, se ne rompe anche una seconda, poi una terza, fin quando l’intera serie risulta inutilizzabile. Cosa è accaduto? Si è verificato che, dopo la eliminazione della prima, la corrente che circola nelle lampadine è aumentata perché, avendo sostituito una resistenza con un cortocircuito, la RE è diminuita. Ora, dato che la tensione erogata dalla rete elettrica di casa non è cambiata, la corrente deve aumentare (ve ne potete accorgere notando un incremento della luminosità). Ma un aumento della corrente porta con sé una maggiore potenza assorbita dagli elementi rimasti che sono costretti a lavorare in condizioni più difficili, non certamente, entro i limiti di potenza per i quali erano stati progettati. Ciò produce l’effetto di rottura ‘a valanga’

descritto. Sarebbe buona norma, allora, eliminare la lampadina rotta e sostituirla con un’altra identica funzionante.

• Partitore di tensione

Vogliamo ora stabilire come si ripartisce la tensione in una serie di due resistenze.

Dato che

v(t) = v1(t) + v2(t) ,

e le due tensioni valgono rispettivamente v1(t) = R1 i(t) e v2(t) = R2 i(t) , si può scrivere

v(t) = R1 i(t) + R2 i(t) = (R1 + R2) i(t) → i(t) = v(t) R1 + R2 .

Tornando alle due tensioni, in definitiva, risulta (regola del partitore di tensione) v1(t) = v(t) R1

R1 + R2 e v2(t) = v(t) R2 R1 + R2 .

Per prendere dimestichezza con il parallelo e la serie di due (o più resistori), qui di seguito, presentiamo alcuni semplici esempi.

(21)

Esempio 1 - Calcolare la resistenza equivalente vista dai morsetti AB per la rete mostrata in figura. Si assuma R1 = 12, R2 = 21, R3 = 11.

R1 R2

R3

A B

La resistenza equivalente richiesta dall’esercizio può essere facilmente valutata operando prima ‘la serie tra R1 e R2’:

R = R1 + R2 = 33 ,

e poi, calcolando il parallelo tra R e R3, in modo da ottenere:

RAB = R || R3 = R R3

R + R3 = 8.25 .

Si noti che R1 non è in parallelo con R3, né lo è R2; soltanto la serie di R1 e di R2 è effettivamente in parallelo con R3.

Esempio 2 - Per la rete mostrata in figura, calcolare la resistenza equivalente vista dai morsetti AB. Si assuma R = 6.

A

B

R

R

R

R C

D

(22)

Tra i due nodi C e D vi è il parallelo tra un resistore e la serie di due resistori, tutti di valore R. Con riferimento alla figura precedente, possiamo concludere che la resistenza equivalente vista dai morsetti AB vale

RAB = R + 2

3 R = 5

3 R = 10 .

A

B

R

C

D 2 3 R A

B

R

R C

D

2R

Esempio 3 - Verificare che la resistenza equivalente della rete infinita di resistenze mostrata in figura vale RAB = R 3 + 1 .

R R R A

B

R

R

R

R

R R

La chiave per la soluzione di questo esercizio sta nella seguente osservazione: se la rete si ripete identicamente a se stessa, all’infinito, in qualsiasi punto della catena di celle identiche si immagini di valutare la resistenza equivalente, si dovrà trovare sempre lo stesso risultato, proprio perché la catena è infinita. Questa osservazione giustifica lo schema equivalente mostrato nella figura che segue, schema che porta a un’equazione di secondo grado la cui incognita è la resistenza equivalente desiderata RAB.

(23)

A

B

R

R R

RAB RAB

Imponendo che la resistenza vista dai morsetti AB valga proprio RAB, si può scrivere l’equazione (si tratta di un’equazione razionale, in cui l’incognita si presenta anche al denominatore)

RAB = 2R + R || RAB = 2R + R RAB R + RAB .

Eliminando il denominatore comune, si arriva all’equazione algebrica di secondo grado

RAB2 - 2 R RAB - 2 R2 = 0 ,

che, avendo un discriminante positivo, fornisce immediatamente le due soluzioni reali

RAB = R 1 ± 3 .

Inutile dire che, delle due soluzioni possibili del problema matematico, quella negativa va scartata perché fisicamente inconsistente: nei limiti dei bipoli da noi considerati la resistenza non può essere negativa! È compito di corsi più avanzati, come quello di Teoria dei Circuiti, mostrare come si possa realizzare un resistore con resistenza negativa, che, in ultima analisi, è un bipolo attivo (si rammenti che sul bipolo resistore intendiamo sia stata fatta la convenzione dell’utilizzatore).

• Legge di Joule

Cominciamo col determinare, in generale, la potenza elettrica assorbita da un resistore. Sulla base delle definizioni generali date nel primo capitolo, si ha subito, indipendentemente dalla convenzione di segno fatta per il resistore:

(24)

pel-ass(t) = v(t) i(t) = [R i(t)] i = R i2(t) = v2(t)

R (standard) ; pel-ass(t) = - v(t) i(t) = - [- R i(t)] i(t) = R i2(t) = v2(t)

R (non standard) .

In ogni caso, quindi, essendo R ≥ 0, la potenza elettrica assorbita è positiva, come deve essere. C’è da chiedersi ora che ‘fine faccia’ questa potenza elettrica. La risposta è semplice: in un qualsiasi resistore, essa si trasforma completamente in calore. La legge di Joule afferma che un resistore, nel tempo ∆t, trasforma in calore un’energia elettrica pari a

∆u = p(t)

t

dt = R i2(t)

∆t

dt .

Ricordando che 1 kcal = 4186 J ,

possiamo dire che la legge di Joule impone che la quantità di calore ∆Q, sviluppata da una corrente elettrica i(t) che attraversa un conduttore di resistenza R per un tempo ∆t, cioè

∆Q = ∆u

4186 ≅ 0.00024 R i2(t)

∆t

dt .

Assumendo, poi, che la corrente non vari nel tempo, la relazione precedente diventa

∆Q ≅ 0.00024 R i2 ∆t ,

e, pertanto, la quantità di calore sviluppata è direttamente proporzionale alla resistenza del conduttore, al quadrato dell’intensità della corrente ed alla durata del passaggio della corrente stessa. Questo effetto è particolarmente dannoso quando i due poli di un generatore di tensione vengono messi a contatto tra loro senza la intermediazione di un apparecchio di sufficiente resistenza, cioè vengono disposti in cortocircuito: in questo caso, l’intensità della corrente è limitata dalla sola resistenza interna del generatore e può diventare molto elevata, tanto grande da sviluppare una quantità di calore tale da bruciare l’impianto. Tuttavia vi sono applicazioni pratiche di grande utilità dell’effetto Joule, alcune delle quali qui di seguito ricordiamo.

(25)

- Stufe e fornelli elettrici. Si tratta essenzialmente di fili, costruiti con opportune leghe metalliche ad elevata resistenza, ad esempio al nichelcromo, di notevole lunghezza e di sezione molto piccola, avvolti a spirale oppure ad elica su un sostegno di materiale isolante e refrattario, di solito a base di argilla. Il calore sviluppato dalla corrente può essere utilizzato per riscaldare ambienti, far bollire l’acqua oppure cuocere i cibi.

- Valvole fusibili. Sono tratti di filo di piombo (di sezione opportuna), o comunque leghe a basso punto di fusione, che si inseriscono nel circuito, fatto generalmente di rame. Quando, per cause accidentali, l’intensità della corrente dovesse innalzarsi troppo, il calore da essa prodotto fa sciogliere il piombo, che fonde a 327 °C, interrompendo il circuito ed evitando in tal modo il pericolo di incendio.

Rame Rame

Piombo

Figura 3.17: rappresentazione schematica di una valvola fusibile.

- Ferro da stiro. È costituito da un’impugnatura P di materiale isolante entro la quale passano i conduttori che fanno capo ad un interruttore K, da una massa pesante M (il ferro, per poter stirare, deve avere un certo peso), da una resistenza R in nichelcromo e da una lastra cromata L, che è quella che si applica all’oggetto da stirare.

alla rete elettrica R

M

L P

K

Figura 3.18: ferro da stiro elettrico.

I fili del circuito, partendo dalla resistenza e percorrendo l’impugnatura, fanno capo, per mezzo di una spina, alla normale presa di corrente.

- Scaldabagno elettrico. Il recipiente C, contenente l’acqua da riscaldare, è circondato da un involucro isolante I e, da un apposito condotto A, da cui entra

(26)

l’acqua fredda. Nel recipiente si trovano una resistenza R ed un termometro T, tipicamente un’asta metallica che, allungandosi per effetto del calore, interrompe il circuito quando l’acqua ha raggiunto la temperatura massima stabilita, e lo richiude quando la temperatura si abbassa fino al valore minimo, al di sotto del quale non deve scendere. Un secondo condotto B si spinge fino alla parte alta del recipiente.

Facendo passare la corrente, il resistore si riscalda e riscalda l’acqua; l’acqua calda, che ha minor peso specifico dell’acqua fredda, sale nella parte alta del recipiente e si scarica, attraverso il secondo condotto, nella vasca da bagno. La parete esterna del recipiente è in lamiera sottile; quella interna in lamiera robusta di acciaio. Il materiale isolante è ordinariamente lana di vetro, costituita da fibre di vetro ottenute trattando il vetro fuso con getti di vapore acqueo.

R

T

→ alla rete elettrica A (acqua fredda)

B (acqua calda)

I C

Figura 3.19: schema di uno scaldabagno.

- Lampadina elettrica. Le prime lampadine (che erano a filamento di carbone) si devono all’inventore americano T.A. Edison. Una lampadina è costituita da un’ampolla di vetro contenente un filamento metallico, generalmente di tungsteno, un metallo che fonde a 3400 °C. Il filamento è assai sottile e ripiegato parecchie volte per presentare, in un piccolo spazio, una notevole lunghezza e, quindi, una notevole resistenza: il filamento viene così reso incandescente dalla corrente. Se all’interno dell’ampolla si fa il vuoto, la temperatura del filamento raggiunge 2200 °C; se vi si introduce azoto o gas nobili, che non reagiscono chimicamente con il metallo, la temperatura si può elevare fino a 2500 °C, e la luce è più bianca.

(27)

L’intensità delle sorgenti luminose si misura in candele; vi sono lampadine che consumano, per ogni candela irradiata, un watt di potenza e durano in media 1000 ore. Altre consumano mezzo watt per candela, le cosiddette lampadine ‘mezzowatt’, e durano (700 ÷ 800) ore. Sul vetro della lampadina è indicata la tensione in volt che deve avere il circuito e la potenza in watt: per una lampadina che consuma 1 watt per candela, 50 watt significano 50 candele; per una lampadina ‘mezzowatt’

significano 100 candele.

Due o più lampadine si possono collegare in serie oppure in parallelo. Nel primo caso, le lampadine si accendono e si spengono tutte insieme.

L1 C L2

rete elettrica

Figura 3.20: parallelo di lampadine.

Nel secondo caso, ogni lampadina è indipendente dalle altre e ciascuna può essere accesa o spenta manovrando un commutatore.

• Valori di targa

Vediamo, ora, quali sono le caratteristiche tecniche più importanti, alcune delle quali abbiamo descritto già in precedenza, che determinano il comportamento elettrico, meccanico e termico di un resistore.

Valore ohmico nominale e tolleranza. Il valore ohmico effettivo di un resistore generalmente non coincide con il valore nominale, ma se ne discosta per una determinata quantità, detta tolleranza, esprimibile come percentuale del valore nominale. La tolleranza è comunemente indicata in valore assoluto e condiziona la scelta dei valori nominali.

Potenza nominale dissipabile. È tipicamente espressa in watt ed indica la potenza elettrica che può essere assorbita dal componente, ad una determinata temperatura, senza che intervengano alterazioni permanenti nella struttura del resistore.

Coefficiente di temperatura. Indica la variazione della resistenza in funzione della temperatura.

Tensione nominale massima. Per valori ohmici elevati, indica la tensione di superamento della rigidità dielettrica dei materiali isolanti presenti nel resistore.

(28)

Coefficiente di tensione. Indica la variazione del valore della resistenza in funzione della tensione applicata.

Coefficiente di resistenza - frequenza. Indica la variazione della resistenza, relativa al valore della medesima in corrente continua, al variare della frequenza.

• Realizzazione dei resistori

Vi sono due classi: quella dei resistori a resistenza costante, di cui ci occuperemo dopo in qualche dettaglio, e quella dei resistori a resistenza variabile, dipendenti da una grandezza meccanica (potenziometri) oppure dalla temperatura (termistori, varistori).

I resistori a resistenza costante si dividono, per la loro realizzazione, in tre categorie: resistori ad impasto, resistori a filo e resistori a strato.

I resistori ad impasto sono costituiti da una miscela di carbone (grafite), talco ed argilla legati assieme da resine fenoliche in proporzioni varie a seconda del valore di resistenza che si vuole ottenere; il tutto viene pressato a caldo in forma cilindrica, i terminali metallici (reofori) sono affogati nella massa compressa. Il cilindretto viene sottoposto ad un trattamento termico che ha il compito di polimerizzare completamente le resine. Infine lo si riveste con una custodia isolante (bachelite o ceramica), si bloccano gli estremi con un cemento isolante e si protegge la custodia isolante con una verniciatura a lacca isolante. Indipendentemente dal valore ohmico i resistori vengono realizzati in formati e dimensioni diverse a seconda della potenza dissipabile. Valori tipici, per questi resistori ad impasto, sono 0.25, 0.5, 1, 2 watt. Per concludere, riportiamone le caratteristiche fondamentali:

valore di resistenza con tolleranza piuttosto elevata, robustezza sia meccanica che elettrica, piccole dimensioni ed induttanza parassita (si veda anche il seguito) praticamente nulla.

Altra categoria e quella dei resistori a filo. Sono costituiti, come la stessa parola dice, da un filo metallico avvolto su un supporto ceramico cilindrico o su un supporto piatto fatto di bachelite. L’avvolgimento viene protetto mediante laccatura resistente a temperature dell’ordine dei 150 °C, o mediante vetrificazione di uno smalto che resiste a temperature dell’ordine dei 350 °C. I due estremi del filo vengono fissati con fascette che fungono anche da terminali. I fili metallici, che generalmente vengono usati, sono costituiti da leghe di nichel e cromo (per le alte potenze), di nichel, cromo ed alluminio (per alti valori di resistenza), di nichel e rame (per resistenze di alta precisione). Il diametro dei fili, oltre che dipendere dal supporto e dal tipo di lega adoperato, è legato al valore di resistenza da realizzare.

Generalmente, visto le precisioni ottenibili, questi resistori vengono usati per costruire strumenti di misura, apparecchiature professionali e resistenze campione, a meno che il valore di potenza si mantenga al di sotto dei 2 W. A causa dell’avvolgimento con cui vengono realizzate, non possono essere usate alle alte

(29)

frequenze a causa di inevitabili f.e.m. indotte; per ridurre questi effetti reattivi, a volte vengono realizzati avvolgimenti particolari capaci di generare flussi magnetici opposti che si compensano a vicenda (avvolgimento Ayrton - Perry).

L’ultima classe è quella dei resistori a strato, costituiti da una sottile pellicola (dell’ordine di alcuni micron) di materiale resistivo avvolta su un supporto cilindrico isolante. Su questa pellicola viene praticato un solco che attraversa, a spirale, tutto il cilindro; i terminali vengono generalmente fissati a pressione agli estremi del cilindro che viene rivestito con un involucro isolante. Le caratteristiche principali di questo tipo di resistenze sono l’alta precisione, l’elevata stabilità ed il buon comportamento alle alte frequenze. Gli strati vengono realizzati con diversi materiali che imprimono al resistore caratteristiche differenti. I materiali sono, tipicamente, il carbone, gli ossidi metallici, i metalli e le vernici metalliche.

I resistori a strato di carbone non vanno usati alle alte temperature, presentano valori di resistenza che vanno da 10 Ω a 10 MΩ, con tolleranze dell’ordine del 5%, 2%, 1%, e sono in grado di assorbire potenze di qualche watt.

I resistori a strato di ossido di metallo possono essere usati a temperature un po’ più elevate di quelle delle resistenze a strato di carbone; hanno valori di resistenza che vanno da 1 Ω a 2 MΩ, tolleranze e potenza dissipabile dello stesso ordine di grandezza di quelle a carbone.

I resistori a strato metallico non sono soggetti ad apprezzabili variazioni di resistenza, tipicamente compresa nell’intervallo 10 Ω ÷ 10 MΩ, con tolleranze dell’ordine dello 0.1% per resistenze comuni, presentano, invece, valori di tolleranza dell’ordine dello 0.01% per resistori ad alta precisione.

I resistori a strato ceramico (cermet) hanno valori di resistenza che vanno da 10 Ω a 2.5 MΩ, con tolleranze dell’ordine del 5% e valori di potenza dissipabile di qualche watt.

I resistori a strato sottile sono costituiti da una lega di nichel e cromo, o di nichel e cobalto, o di tantalio ed alluminio, hanno valori di resistenza che vanno da 1 Ω a 50 MΩ, con tolleranze dell’ordine del 1%.

Infine, i resistori a strato di vernice metallica hanno valori di resistenza compresi tra 1 Ω e 500 kΩ, con tolleranze dell’ordine dell’1% e valori di potenza dissipabile di qualche watt.

• Cortocircuito e circuito aperto

Due casi speciali si evidenziano immediatamente: quello in cui è α = 0 e quello in cui α = π/2. Discutiamone subito, perché nella pratica, assumono particolare importanza.

Nel caso del cortocircuito, essendo nulla la resistenza, dalla legge di Ohm discende che (Figura 3.21)

(30)

v(t) = 0 , quale che sia la corrente .

Ciò implica che, quale che sia il valore della corrente che circola in questo particolare resistore, detto appunto cortocircuito (ideale), la d.d.p. ai suoi morsetti resta nulla. Esso, nella pratica, può essere realizzato mediante un ‘chiodo’

di rame, abbastanza corto, e di diametro abbastanza robusto. Ad esempio un chiodo di rame lungo 1 cm e di diametro pari pure a 1 cm, è un eccellente cortocircuito, non ‘ideale’, ma ... quasi! La caratteristica statica di un cortocircuito coincide con l’asse orizzontale (delle correnti), come in Figura 3.21.

0 v

i

i

Figura 3.21: caratteristica statica e simbolo di un corto circuito.

Prima di procedere oltre, non possiamo fare finta di ignorare che, nella pratica, quando si parla di ‘cortocircuiti’, si pensa a effetti ‘catastrofici’, o comunque a incidenti più o meno gravi. Vediamo di capire perché, cominciando con un semplice esempio. Consideriamo il circuito rappresentato in Figura 3.22, in cui un generatore di tensione (vedi oltre) è collegato a due resistori. Il generatore di tensione eroga ai suoi capi una tensione costante (E), come fa una normale batteria.

Non è difficile concludere che la corrente che attraversa i tre bipoli, il generatore di tensione ed i due resistori, è la stessa, indicata con i.

+

A B

C E

i

i

R2 R1

Figura 3.22: rete per spiegare il ‘catastrofico’ effetto di un corto circuito.

(31)

Ora, la rete di Figura 3.22 è costituita da una sola maglia e, pertanto, applicando la LKT, si ottiene:

vAB + vBC + vCA = 0 .

Sostituendo in questa relazione le caratteristiche dei due resistori vAB = R1 i e vBC = R2 i ,

si ottiene immediatamente che R1 i + R2 i - E = 0 .

Dall’ultima relazione si può ricavare facilmente la corrente i = E

R1 + R2 .

La potenza elettrica erogata dal generatore è dunque pari a pel-ero = + E i = E E

R1 + R2 = E2 R1 + R2 .

Ad esempio, per E = 1 kV, R1 = 1 e R2 = 100, si ha che i = 1000

101 A ≅ 10 e pel-ero = 10002

101 ≅ 10 kW .

Il nostro utilizzatore, cioè il resistore R2, corrisponde, dunque, grosso modo a ‘una decina di scaldabagni’ funzionanti insieme.

Vediamo ora cosa succede se, per un incidente, la R2 diventa zero, cioè diventa un cortocircuito (perché il nostro dispositivo utilizzatore si rompe). Rifacciamo i conti da capo, in queste nuove condizioni, ottenendo subito:

i' = E

R1 + 0 = 1000

1 = 1 kA e pel-ero = E i' = 10002 = 1 MW !

Si arriva così a una potenza erogata cento volte maggiore della precedente (10 kW), la quale, ancora una volta, per la legge di Joule, non può trasformarsi in queste condizioni, in altra forma di energia diversa del calore! Ecco, allora, che il

(32)

generatore, il resistore R1, nonché i fili di collegamento, per smaltire questo improvviso aumento di calore, debbono riscaldarsi, fino ad arroventarsi, e nei casi più sfortunati fino ad ... incendiarsi. Di qui, i significati catastrofici attribuiti spesso all’innocente bipolo cortocircuito.

Il secondo caso di grande interesse corrisponde a quello in cui per qualsiasi tensione ai morsetti, la corrente che attraversa il bipolo è sempre nulla. Si ha, così:

i(t) = 0 , per ogni tensione applicata .

Un tale bipolo si potrebbe realizzare frapponendo tra i morsetti un perfetto ‘non conduttore’, cioè un materiale isolante. Esso prende il nome di bipolo circuito aperto (oppure a vuoto).

0

i(t) = 0 i

v

Figura 3.23: caratteristica statica e simbolo di un circuito aperto.

Tornando all’analogia con il resistore, questo caso, corrisponde a quello in cui è la conducibilità elettrica del conduttore a essere uguale a zero. In tale evenienza, si ha che per qualsiasi valore di tensione ai morsetti del bipolo la corrente che lo attraversa è sempre nulla, come in Figura 3.23.

Contrariamente al caso precedentemente illustrato, il ‘circuito aperto’ non richiama alla memoria situazioni ... catastrofiche. Eppure, quando studierete gli impianti elettrici, vedrete che anch’esso può essere talvolta pericoloso.

3.3 Generatori indipendenti

Passiamo ora ad esaminare le caratteristiche di quei bipoli che forniscono energia elettrica ai circuiti, cioè i bipoli attivi, e cominciamo da quelli che possono essere considerati ‘ideali’: i cosiddetti generatori indipendenti di tensione e di corrente. I simboli grafici che useremo per indicare questi due bipoli sono mostrati in Figura 3.24.

(33)

+ −

+ −

i(t) e(t)

v(t) i0(t) (b)

(a)

Figura 3.24: simboli per (a) il generatore di tensione e (b) per quello di corrente.

Qualche volta, specialmente se si tratta di un generatore di tensione continua, cioè costante nel tempo, si adotta anche il simbolo di Figura 3.25.

E

+ −

Figura 3.25: simbolo talvolta usato per un generatore di tensione costante.

Cominciamo col chiederci quale sia la caratteristica di un generatore ideale di tensione. In generale, un generatore ideale di tensione può imporre una tensione variabile nel tempo con una forma d’onda nota ed indipendente dalla corrente che in esso circola, cioè

v(t) = e(t), ∀ i(t) .

Il fatto che questo generatore eroghi una forma d’onda assegnata quale che sia la corrente che lo attraversa, implica che, a qualunque rete sia collegato, la tensione ai suoi capi assume sempre l’andamento temporale dettato dalla funzione e(t).

Tentiamo di spiegare perché questo bipolo è attivo e, tanto per fissare le idee, immaginiamo che esso sia collegato ad una rete ed eroghi una tensione sempre positiva. L’energia elettrica assorbita in un certo intervallo è, allora, pari a

Uel-ass(t1 , t2) = e(t)

t1

t2

i(t) dt .

La corrente ‘i(t)’ che attraversa il generatore di tensione dipende dalla rete cui è collegato e può essere definitivamente positiva, negativa, oppure a segni alterni. Se essa è negativa, cosa che può accadere, e sul bipolo si è fatto la convenzione

(34)

dell’utilizzatore, l’energia elettrica assorbita risulta negativa e da ciò discende che il generatore di tensione è un bipolo attivo.

+

+

e(t) v(t)

i(t) R0

v(t) = e(t) - R0 i(t)

Figura 3.26: generatore reale di tensione.

La caratteristica di un generatore ideale di tensione può soltanto approssimare quella di un generatore reale. È infatti implicito nella caratteristica di un generatore ideale di tensione che esso possa erogare una potenza grande quanto si vuole, al limite infinita quando la corrente è infinita. Naturalmente un generatore reale non potrà avere una tale proprietà: se la corrente che circola nel generatore diventa troppo grande la tensione non si mantiene uguale al valore che assume quando la corrente è zero (tensione a vuoto), ma diminuisce fino a tendere a zero e a cambiare segno per un valore di corrente finito che prende il nome di corrente di corto circuito del generatore. Il modo più semplice di rappresentare un generatore reale di tensione (Figura 3.26) è quello di considerare un generatore ideale di tensione con tensione uguale alla tensione a vuoto del generatore reale in serie con un resistore che porta in conto gli effetti dovuti alla

‘resistenza interna’ del generatore reale. Questo modello di generatore reale di tensione tende a quello ideale quando la resistenza interna tende a zero.

In modo del tutto simile, si può introdurre un nuovo bipolo ideale in cui circola una corrente con una forma d’onda assegnata e indipendente dalla tensione tra i terminali,

i(t) = i0(t), ∀ v(t) .

Un tale bipolo, per il quale si possono sviluppare considerazioni analoghe a quelle relative al generatore ideale di tensione, prende il nome di generatore ideale di corrente ed è anch’esso un bipolo attivo, come è facile provare ripetendo le considerazioni presentate per il caso dei generatori di tensione. Invece, un generatore reale di corrente è mostrato in Figura 3.27.

(35)

+

i0(t)

i(t)

v(t)

R0 i(t) = i0(t) - v(t) R0

Figura 3.27: generatore reale di corrente.

Spesso sui bipoli generatori può essere opportuno non utilizzare la convenzione normale, quella dell’utilizzatore, ma l’altra, che, per questo motivo, viene appunto detta convenzione del generatore. Comunque vi è sempre la massima libertà di adoperare la convenzione che si vuole; solo l’uso e l’abitudine ci fanno preferire talvolta l’una all’altra.

• Collegamento di generatori

Proviamo ora a prendere in considerazione i due tipi di collegamento, in serie e parallelo, che abbiamo già esaminato nel caso dei resistori, anche per i bipoli generatori. In Figura 3.28 sono mostrati quattro diversi casi ottenuti combinando generatori ideali di corrente e di tensione.

Per quanto riguarda i casi a) e b), è facile convincersi che i bipoli equivalenti, applicando la LKT in Figura 3.28a alla maglia segnata e la LKC al nodo A in Figura 3.28b, sono ancora un generatore ideale, rispettivamente di tensione pari a e1(t) + e2(t), e di corrente pari a i1(t) + i2(t).

(36)

+

− +

+

− A

B

+

+

− + +

A

B

A

B

A

B

(a) (b)

(c)

(d)

+

− I2 i(t)

i(t)

i(t)

i(t) v(t)

v(t)

v(t)

v(t) e2(t)

e2(t) e1(t)

e1(t) i1(t)

i1(t)

i2(t)

i2(t)

Figura 3.28: possibili collegamenti di generatori.

I casi c) e d) sono leggermente meno evidenti; per comprendere la natura del bipolo equivalente rappresentato nel caso c), per esempio, non basta considerare che, per il modo in cui il collegamento è realizzato, il generatore di tensione impone la sua tensione ai morsetti del bipolo equivalente. Occorre ancora mostrare che tale bipolo, deve essere in grado di erogare qualsiasi corrente mantenendo costante la sua tensione ai morsetti. Ciò è vero perché, essendo la corrente erogata dal generatore di tensione arbitraria, anche la corrente i(t) totale lo è, perché somma di una corrente fissa i1(t) e di una arbitraria i2(t):

i(t) = i1(t) [fissa] + i2(t) [arbitraria] .

Analogamente, nel caso d), avremo un generatore equivalente ideale di corrente.

Di proposito abbiamo lasciato per ultimi i due casi rappresentati in Figura 3.29, dato che tali collegamenti danno luogo a contraddizioni insanabili.

(37)

+

+

+

+

(a) (b)

e1(t) e2(t)

i(t)

v(t) v(t) i(t)

i1(t)

i2(t)

Figura 3.29: collegamenti impossibili di generatori.

Cominciamo ad esaminare il caso a). I due generatori ideali di corrente sono in serie e ‘vorrebbero imporre’ la loro rispettiva corrente ai morsetti del generatore equivalente, la quale d’altra parte non può che essere unica. Se le due correnti sono diverse, ciò crea una situazione assurda, poiché ciò equivarrebbe a scrivere, per esempio, nel caso a) di Figura 3.29:

i(t) = i1(t) e i(t) = i2(t) , con i1(t) ≠ i2(t) !

Il caso b) si analizza in maniera analoga. Infatti, i due generatori ‘vorrebbero imporre’ la loro tensione ai morsetti del generatore equivalente. D’altra parte tale tensione non può che essere unica, laddove deve essere v(t) = e1(t) e, allo stesso tempo v(t) = e2(t), con e1(t) ≠ e2(t). Eccoci ancora una volta incappati in una insanabile contraddizione.

Nelle situazioni reali, le cose si sanano, poiché non ci si trova mai di fronte a generatori ideali. Per motivi che chiariremo in seguito, sono comunque da evitare per problemi pratici le situazioni schematizzate in Figura 3.29, come mostra l’esempio che segue.

Esempio 4 - Due batterie’ sono collegate in parallelo come mostrato in figura.

Determinare le correnti che attraversano le batterie ‘a vuoto’, quando, cioè, sono collegate ad un circuito aperto. I due generatori erogano una tensione costante e sono schematizzati come generatori reali. Si assuma che E1 = 40, E2 = 10, R1 = 0.2, R2 = 0.1.

(38)

R2

1 2

R1 +

+

3 4

E1 E2

A

B i1(t) i2(t)

i(t) = 0

Dato che i due generatori sono collegati ad un circuito aperto, la corrente i(t) deve essere nulla (come suggerito in figura) e, per determinare le due correnti i1(t) e , basta applicare le LK. Anche se i nodi 1 e 2 (3 e 4) sono del tutto equivalenti dal punto di vista elettrico, abbiamo preferito riportarli per chiarezza nello schema.

Dunque, applicando la LKC al nodo 2, otteniamo:

- i1(t) - i2(t) = 0 → i1(t) = - i2(t) .

Invece la LKT, applicata alla maglia formata dai due generatori, ci consente di scrivere:

v31(t) + v24(t) = 0 → - E1 + R1 i1(t) + E2 - R2 i2(t) = 0 .

Riassumendo le due ultime equazioni trovate, otteniamo, allora, il sistema:

i1(t) = - i2(t) ,

R1 i1(t) - R2 i2(t) = E1 - E2 .

Risolvendo queste sistema, determiniamo le due correnti cercate:

i1(t) = E1 - E2

R1 + R2 = 100 , i2(t) = E2 - E1

R1 + R2 = - 100 .

Come potete constatare, le due correnti sono piuttosto elevate e lo diventano tanto più, quanto più le due resistenze interne dei generatori sono piccole. È questo il motivo per cui due batterie non si collegano mai in parallelo: prima o poi, data l’elevata corrente che si instaura tra loro, le ritroveremo completamente scariche.

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