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L’ingegnere e i poeti: un difficile confronto con la tradizione

Per provare a risolvere l’incongruenza sollevata in chiusura della lunga peripezia speculativa che si è seguita, occorre abbandonare – almeno temporaneamente – il livello astratto del discorso, per tornare su alcune questioni storico-biografiche.

A parte i primissimi abbozzi in versi, la scrittura – poetica e non – di Gadda nasce davvero, come si è visto, nel corso della prima guerra mondiale, o meglio dai “fatti fisici, urti e strappi, lacerazioni del sentire, violenze e pressioni [...], ingiurie e sturbi del caso”159

che da essa derivarono: non sarà inutile, pertanto, indugiare in un breve profilo del giovane Carlo Emilio, a un passo dalla partenza per il fronte. Borghese di nascita – non senza qualche ascendenza gentilizia, se è vero che la nonna paterna apparteneva alla nobile famiglia dei Ripamonti – Gadda era, allo scoppiare del conflitto, uno studente di ingegneria presso l’Istituto Tecnico Superiore di Milano, ove si era iscritto nel 1912 per compiacere la madre. “Spirito fugitivo e aleatorio, chiamato dall’improbabile altrettanto e forse più che dal probabile”,160

cresciuto “nel duro carcere d’un educatoio borromeiano-tridentino”161 ove aveva patito le mortificanti privazioni economiche e affettive denunciate un po’ ovunque nella sua opera,162 egli vede nella guerra una straordinaria possibilità di affermazione individuale, di riscatto dalle sofferenze subite; un’occasione insomma per provare, oltre alla grandezza italiana, la forza del proprio carattere, per diventare quell’uomo volitivo e determinato che il bambino timido e impacciato aveva sognato di essere. Appassionato lettore di Livio, Cesare, Tacito, visti quali emblemi del nazionalismo e del militarismo di “una vivente patria”;163 e quindi interventista convinto – tano da consegnare, insieme agli amici Emilio Fornasini e Luigi Semenza, un esaltato appello epistolare a D’Annunzio, allo scopo di ottenere una più pronta partecipazione alla guerra164 – egli parte dunque volontario per

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Il titolo del paragrafo riprende evidentemente quello del gustoso dialogo L’ingegnere e i poeti.

Colloqui con Carlo Emilio Gadda a cura di Alberto Arbasino, «Il Verri», n. 13, 1963, pp. 43-53; poi

ripubblicato in A. Arbasino, Sessanta posizioni, cit., pp. 202-210.

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C.E. Gadda, Come lavoro, SGF I, p. 429.

160 Ivi, p. 427 161 Ivi, p. 438

162 Bastino, tra tutti, il ricordo delle continue rimostranze di Gonzalo nella Cognizione e il celebre passo

conclusivo, questo dichiaratamente autobiografico, di Dalle specchiere dei laghi (in Gli anni, SGF I, pp. 228- 229): “Ero solo: con miserevesti. E al ristare d’ogni folata gli aspetti della mia terra. Avrebbe dovuto riescir madre anche a me, se non era vano il comandamento di Dio, come riescì a tutti, al più povero, al più sprovveduto, e financo al deforme, o a chi resultò inetto a discernere. Ma il dolce declino di quei colli non arrivò a mitigare la straordinaria severità, il diniego oltraggioso, con cui ogni parvenza del mondo soleva rimirarmi. […] Se altri avesse lasciato dondolar la gamba, bimbo irrequieto, o avesse tentato di stropicciarsi le mani diacce da poter sostenere la sua penna, di certo non sarebbe incorso nelle punizioni feroci, non lo avrebbero minacciato di morte”.

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C.E. Gadda, Impossibilità di un diario di guerra, RR I, p. 152

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combattere (come sottotenente e poi tenente capitano) prima nella Brigata Cuneo e quindi nel 3° e nel 5° Reggimento Alpini. Il resto della sua vicenda militare è noto165 e vi si è già fatto menzione in vari momenti di questo capitolo. Quel che conta invece sottolineare è come il sogno prodotto dalle ragioni etiche della guerra – di dovere, di adempimento ed esplicazione delle proprie potenzialità di singolo e di soldato – come dalla grandiosa retorica di una borghesia in crisi, si scontri presto con la dura realtà, trasferendosi, con tutto il suo carico di disillusione e tragica analisi, in scrittura: in una traccia mnemonica a uso personale, ma dalla valenza altresì fortemente artistica e filosofica. Attraverso il Giornale di guerra e di prigionia, Retica, La passeggiata autunnale e le poesie scritte agli estremi di quegli anni (tra il 1915 e il 1919), comincia infatti a delinearsi l’ampio affresco di disordine, discordia, corruzione, imbecillità, frivolezza, egoismo e pigrizia intellettuale che caratterizza un popolo di vili “troppo acquiescenti al male”166

per tentarne un sia pur parziale risarcimento razionale; come pure si profilano i principali aspetti del pensiero di Gadda; e si cominciano a strutturare le future sue forme d’espressione.

In altre parole, come ha giustamente notato Giuseppe Stellardi,167 è negli anni bellici – cui va aggiunto di diritto tutto il ’19 – che prendono davvero forma i tre fondamentali indirizzi della scrittura gaddiana: filosofia, poesia, narrazione (comprendente, quest’ultima, romanzo, racconto, diario, invettiva), ciascuna delle quali ha una valenza e un ruolo ben preciso e dovrebbe essere amalgamata con le altre, come l’Autore auspica nei vari luoghi di autocommento che si sono fin qui attraversati, sempre contemporanei o successivi ai momenti del conflitto. Alla stessa ansia di compenetrazione tra generi andrebbe imputato, sempre secondo Stellardi – che fa eco alla consolidata tradizione critica di cui si è già esaminato qualche campione – il sostanziale fallimento del narrativo nel dopoguerra:

A voler semplificare all’estremo, diciamo che, abbandonata o mai veramente abbracciata la poesia, Gadda spontaneamente muove verso il romanzo, incontra il fallimento della poetica cui lo spinge ogni fibra del suo essere, si sposta verso la filosofia con gli studi e la Meditazione milanese (e di nuovo fallisce), torna al romanzo: questa volta però, abbandonate le coordinate e l’utopia iniziali, accettato – ma per meglio dire subìto – nella sua qualità più peculiare di non finito, e dunque di non-genere, o di genere ectopico, più ancora che atipico. Ma, dietro questo itinerario storico, resta sempre una configurazione della scrittura in cui il lirico, il filosofico e il narrativo tentano vanamente di convivere.168

165 Per ulteriori dettagli biografici ad essa relativi si rimanda in ogni caso a G.C. Roscioni, Il duca di

Sant’Aquila, cit., pp. 120-168.

166 C.E. Gadda, Gionale di guerra e di prigionia, SGF II, p. 467.

167 In un interessante intervento intitolato Gadda, Ungaretti, Wittgenstein: tre scrittori, la guerra, tre

destini della scrittura, «Esperienze Letterarie», n. 2, 2003, pp. 71-86.

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Dell’intrinseca improduttività di una simile prospettiva, volta a rintracciare i limiti dello scrivere gaddiano nella sua irriducibilità all’univoco, si è già detto; e l’equivoco è aggravato dal consueto appiattimento – operante anche in Stellardi – dell’ispirazione poetica sulla lirica, intesa come “trasfigurazione e distillazione dell’esperienza in immagini, momenti e sentimenti, una sorta di cristallizzazione del vissuto che fa appello all’emozione”.169 Nulla, si è visto, è più lontano dall’idea di Gadda, che punta a un sostanziale e continuo attraversamento di generi – senza subirne passivamente gli effetti – che consenta di manifestare le posizioni dello scrivente rispetto alla totalità dell’esistere. Egli non muove cioè mai verso un’unica modalità di scrittura poi compromessa dal premere delle altre; anzi, al di là della scelta fisica in cui essa prende avvio, vi salda poi in maniera consapevole – e con risultati sorprendenti – i caratteri peculiari delle tre forme suddette: moventi etici-filosofici; spasmo dialettico; fiction e intreccio narrativo regolato da principi logico-temporali. Tali elementi – riassumibili in: universale astratto, simbolismo e mimesi – sono tutti ugualmente necessari per dar voce alla realtà, per raggiungerla. Conseguenza diretta di tale approccio è, a mio parere, non solo la riformulazione dei generi (per cui si avrà un trattato filosofico diegetico e dialogato, quale la Meditazione; una narrativa infarcita di contrazioni linguistico- analogiche; una poesia raziocinante e narrativa), ma anche quella del concetto di “compiutezza” del singolo testo: che non conta in sé, ma in relazione alla macro-dimensione dell’opera dell’Autore. Le tre modalità letterarie proseguono altresì parallele – e ugualmente inedite – fino all’esordio effettivo di Gadda come scrittore su «Solaria», avvenuto nei tardi anni Venti.

Pure, sembra sia proprio la guerra a determinare il propendere delle scelte gaddiane verso il medium prevalentemente narrativo, ossia verso l’opzione di amalgamare i tre generi principali attraverso la prosa, almeno per la maggioranza dei casi e dei casi effettivamente pubblicati (dato che sia quasi tutte le poesie che la Meditazione sono state date alle stampe postume). Il che ci riporta alla domanda posta a chiusura del paragrafo precedente: perché porre ai margini la poesia? O meglio: perché relegare la poesia come sede privilegiata della mescolanza in una zona segreta? Conviene, a tal proposito, ascoltare una volta di più la voce del Gadda maturo degli anni Cinquanta:

La narrazione è certamente uno dei miei obiettivi. Esso non è l’unico, non è stato l’unico, durante il corso degli anni e il tirocinio della mia fatica e, se volete latinamente chiamarla, del mio ozio. I primi impulsi verso la scrittura, in me, ebbero un movente lirico e descrittivo, e insieme narrativo: poi venne anche il saggio, la sognata memoria filosofica [...]. La descrizione, il desiderio di conoscere e di approfondire si estese per

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gradi, specie con la guerra (1915-1918), all’indole e ai tipi e al destino degli umani, ai rapporti fra le creature: la vita militare e il servizio in guerra sono una trama continua di rapporti, sull’ordito combinatorio del destino [...]. Così la mia scrittura, dapprima nei diari e nelle lettere [...], veniva a investire la vicenda umana, la storia delle anime. Poi ci fu l’immersione dentro il lavoro: fra le tensioni spirituali che gli interessi del lavoro e dell’industria necessariamente vengono a determinare in chi ne è investito. Il forte senso della mia personalità [...] mi traeva a riuscire un lirico, piuttosto, o un satirico: la volontà di comprendere i miei simili e me stesso mi sospingeva all’indagine e a quella «registrazione di eventi» che forma, in definitiva, il racconto. Capii che dovevo stringere entro più severi limiti la descrizione e l’invettiva, e far posto nelle mie note alla immatricolazione dei «tipi» umani, dei «personaggi», umani o mitici o bestiali, e delle loro impagabili vicende. [...]

Nella mia vita di «umiliato e offeso» la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la «mia» verità, il «mio» modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. [...]

La mia scrittura si è dunque volta a narrare, al puro narrare: come la mia anima si avvicina alla serenità e alla obiettività giudiziosa della morte.

[Intervista al microfono, SGF I, pp. 502-504]

Queste parole del 1951 – dunque molto vicine nel tempo alla prima dichiarazione gaddiana relativa alle poesie – oltre a ricordare la sostanziale compresenza di impulsi nell’originaria vocazione alla scrittura (lirico-descrittivo, narrativo e filosofico – dove lirico, si badi, sta nell’accezione più volte spiegata di punto di vista, di sguardo sul mondo), suggeriscono le cause dell’imporsi della narrazione come schema esteriore dominante. Se la poesia si è vista emergere come spazio per eccellenza del pensiero e della traduzione della più stratificata realtà attraverso la potenza spastica della parola, niente come la narrazione si volge invece all’indagine sui tipi e sulle vicende umane: ed è l’esperienza della guerra a far sì che verso queste ultime si estenda progressivamente ogni altra tendenza dell’Autore incentrata sulla sua forte personalità rielaborante. Quando Gadda parla di “stringere entro limiti più severi la descrizione e l’invettiva”, allude appunto alla possibilità di imbrigliare l’espressione della molteplicità negli schemi del racconto, ovvero di perseguire il pastiche dei generi a partire da quest’ultimo. E non è tutto: la narrazione appare pure quale risarcimento del male subito, degli oltraggi del destino – sperimentati soprattutto durante il conflitto – proponendosi quale “strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta”. Né è questo il solo luogo (qui per la verità affidato alla dimensione implicita) in cui Gadda avanza l’idea che il distanziamento da forme esplicite di poesia sia dipeso da traumi personali (storici, affettivi, sentimentali); in una nota del 1925 disseminata in un manoscritto di 16 fogli protocollo sciolti, dal titolo «Abbozzi

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di temi per tesi di laurea» – portato alla nostra attenzione da Roscioni nel 1974170 – egli scrive infatti, in modo se possibile più diretto:

...fino al 26°-27° anno la mia vita interna è stata dominata dal fattore estetico. Alcuni «incidenti» dolorosi e le preoccupazioni materiali hanno spezzato questa simpatica tirannide e il despota è diventato un cittadino qualunque.

La possibilità della poesia – che l’evidenza di un altro stralcio coevo, riportato nelle prime pagine di questo capitolo, consente di associare qui col “fattore estetico”171 – è logorata da eventi dolorosi, oltre che dagli influssi di una adolescenza non sana. Fermo restando il valore euristico ad essa normalmente associato, il riferimento a una dismessa questione estetica – di cui l’Autore si sente partecipe negli anni pre-bellici – rimanda per inciso al mutare della disposizione gaddiana rispetto alla poesia della tradizione italiana del suo tempo, i cui valori, nazionalistici o meno, erano espressi mediante scelte fortemente legate alla retorica e a un certo tipo di gusto romantico. Dando forma, dopo la guerra in particolare – come prova il netto cambiamento di stile nelle Poesie dal 1915 al 1919 – a quell’aspirazione alla poesia come compendio etico di cui si è riscontrata traccia negli scritti teorici, Gadda si trova cioè ad andare contro le celebrazioni storiche e l’aulica versificazione di stampo neoclassico che aveva letto, amato e imitato nella prima gioventù, per scoprirle inutili e false al momento del confronto con le istanze della realtà.

Occorre allora intraprendere un’ulteriore deviazione, per tracciare rapidamente ma più in dettaglio il quadro della poesia italiana allorché Gadda muove i suoi primi passi nel mondo (artistico e non) e chiarire la sua disposizione rispetto alla stessa. Uno spunto interessante da cui partire è offerto, ancora una volta, da Roscioni:

La cultura della famiglia e della scuola egli [il giovane Gadda] la viveva, naturalmente, a modo suo; né ignorava i mutamenti, anche vistosi, che si erano prodotti negli ultimi decenni sulla scena letteraria italiana. Non so quanto i giudizi del Gadda maturo o anziano sui membri della «triade» Carducci-Pascoli-D’Annunzio rispecchino atteggiamenti, e rifiuti, del Gadda giovinetto. Di quest’ultimo documentata è solo l’ammirazione per D’Annunzio: «La meravigliosa musicalità di questi versi - scriveva nel 1911 de La pioggia nel pineto -, la freschezza, la vivacità, l’ispirata “melodia” dei concetti e la chiusa lievemente patetica ne fanno una delicatissima sinfonia bucolica». Se teniamo presente quanto dirà, tanti anni dopo, di Carducci (... «è stato la mia lettura per molti anni dell’adolescenza, dopo il Manzoni e prima del D’Annunzio»), il passaggio dall’uno all’altro poeta ci appare anche ricco di implicazioni extra-letterarie: Carducci

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Anche questo passo, tratto da un incartamento inedito che lo studioso indica come (ATLL, f. Ir), si legge infatti nella sua Introduzione alla Meditazione milanese, p. XXXV.

171 Cfr. supra, p. 26: “L’impeto «poetico», veramente «poetico», della mia adolescenza, che, se fosse

stata sana avrebbe prodotto «ogni virtù», si è attenuato. Il mondo logico-critico e filosofico sta sovrapponendosi al mondo estetico”.

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era uno degli autori prediletti di Adele, incarnava quello spirito etico-civile e «democratico» che da un certo momento in poi Carlo avrebbe visto con soddisfazione battuto in breccia dal «D’Annunzio acre e marchionale del “Piacere”». Quella conversione non era, dunque, solo un fatto generazionale o di influssi successivi, ma testimoniava un cambiamento – di punti di riferimento, di principî, di inclinazioni – dai non trascurabili aspetti privati, personali.172

A parte la figura sempre amata – benché come modello solo prosastico – di Manzoni, è noto al lettore di Gadda che le iniziali frequentazioni e gli apprezzamenti di Carducci e D’Annunzio si sarebbero poi trasformati negli ironici attacchi ai due poeti, diretti o depositati nelle trame delle sue opere. Come scrive Roscioni, se il giovane Carlo Emilio restava legato agli autori scolastici e (più o meno) materni, è pur certo vero che, a un passo dalla prima guerra mondiale, una prima reazione a questo tipo di poesia ottocentesca – calata in forme metriche tradizionali e intrisa di quella “retorica dei buoni sentimenti”173

deprecata da Gadda in certi scritti tardi – c’era già stata; il critico parla genericamente di mutamenti, ma si potrebbe rimandare con più specificità al crepuscolarismo: Corazzini e Gozzano avevano infatti già tentato di sollevare le nuove esigenze del secolo, denunciando la saturazione semantica della letteratura aulica e additando la fine dei grandi maestri con toni stanchi e disillusi. Né d’altra parte i crepuscolari sarebbero stati i soli a indicare la crisi artistica che si accompagnava a quella politica e sociale: negli anni della guerra si impone infatti in Italia anche la cosiddetta “poesia pura” – libera da intralci oratori o intellettualistici, nonché distaccata dalla filosofia o da intenti narrativi – di chiara ispirazione crociana, ma pure legata ai più interessanti esiti del simbolismo francese, il cui principale organo di diffusione tra il 1908 e il 1916 fu la rivista fiorentina «La Voce». Fondata e diretta da Papini e Prezzolini (e dal 1914 da Giuseppe de Robertis), quest’ultima proponeva una poesia del frammento – che ebbe il suo principale interprete in Ungaretti – lontana da ogni afflato decadente, purificata da scopi didascalici o politici, e ricondotta all’essenzialità di una parola vergine, all’evocazione spirituale e allo scavo interiore nel dolore umano.

Dunque, all’indomani del conflitto, Gadda si trovava di fronte a due possibilità di fare poesia, entrambe (benché diverse) sostanzialmente aderenti a una dimensione lirica di tipo romantico: una, quella magniloquente da poeta vate ormai indebolita e impraticabile alla luce di ragioni storiche e personali, come vedremo tra poco; l’altra, pure nata in reazione alla prima, non compromessa con la realtà, tutta compresa nell’astrazione e nel ripiegamento

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G.C. Roscioni, Il duca di Sant’Aquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, cit., pp. 92-93. Le citazioni gaddiane presenti nel passo sono rimandate dallo studioso, rispettivamente, ai fogli sciolti di un quaderno di «Passi ricopiati» dalle Laudi (datato settembre 1911), conservato al Bucardo; e alle Annotazioni per il secondo

libro della Poetica (II Chaier d’etudes).

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interiore, insomma resa incomunicante rispetto a qualsiasi genere altro. Il modello vociano in primis, va da sé, è inaccettabile per Gadda, fermamente convinto dell’eteronomia dell’arte, oltre che della connaturata impurità della lingua. Seppure egli era stato influenzato dall’idealismo crociano fino ancora ai primi anni Venti, almeno a partire dal 1929 la sua attitudine è del resto sensibilmente cambiata, come dimostrano queste parole tratte dalla conclusione del già citato saggio Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche:

Tutta la questione d’altronde [...] si riconnette e subordina ad altre e diverse e prima forse ad una, ch’è grama quant’altre: se l’attività estetica sia realmente prescissa, come da taluni nobilmente è stato affermato, dai momenti che sogliamo chiamare prammatici dell’esser nostro o se nel fondo cupo d’ogni rappresentazione sia ritrovabile quello stesso germine euristico che è la sintesi operatrice del reale.

[SGF I, p. 488]

Dietro i “taluni” nominati con discrezione nel passo si cela ovviamente Croce, responsabile di aver bloccato l’arte nel circolo vizioso dell’autosufficienza, in una metafisica intesa come oltrepassamento della realtà e non invece, come Gadda suggerirà quasi un decennio più avanti in Meditazione breve circa il dire e il fare (1936), quale riattivazione attraverso gli strumenti letterari di soluzioni ormai abusate, inabili a tradurre il reale adeguatamente. Gadda difende insomma la “trepidazione morale” contro ogni “dissociante mania estetica”,174

nel nome di un rigore insieme etico e linguistico che, ancora nello scritto del ’29, è tradotto come segue:

La tecnica d’uno scrittore tallisce in certa misura da uno sfondo preindividuale che è la comune adozione del linguaggio vale a dire il consuntivo semantico (signiferatore) d’una storia-esperienza che sia stata raggiunta e consolidata: e se ne forma e si congegna per accettazione o per antitesi, per arricchimento o per denegazione di determinati modi espressivi. L’adozione del linguaggio è riferibile a un lavoro collettivo, storicamente capitalizzato in una massa idiomatica, storicamente consequenziato in uno sviluppo, o, più generalmente, in una deformazione; questa esperienza insomma travalica i confini della personalità e ci dà modo di pensare a una storia della poesia in senso collettivo. [SGF I, p. 475]

“...una storia della poesia in senso collettivo”: sostenere che il modo d’esprimersi dell’artista debba porsi in funzione di dati storici esterni, superando l’assolutismo di certe concezioni individualistiche, per accordarsi alle istanze di deformazione consone ad abbracciare e descrivere il flusso del reale, equivale a un ripudio netto di ogni tipo di “poesia pura”, ovvero di qualsiasi realtà (fintamente) statica, edulcorata nell’idillio, nella rarefazione o nell’ampollosità verbale. Come scrive Angelo Dicuonzo, Gadda compie cioè