Per comprendere gli esordi della Presidenza di Giorgio Napolitano, occorre partire dalla sua investitura: egli infatti viene eletto solamente al quarto scrutinio con una maggioranza di 543 voti, appena 38 al di sopra della maggioranza assoluta necessaria, grazie ai soli voti del centro-sinistra che qualche settimana prima aveva vinto le elezioni politiche con un risicatissimo margine di 25 mila voti.
La compagine di centro destra dimostra invece tutto il suo disappunto non mancando di criticare con innumerevoli dichiarazioni pubbliche84 il profilo
eccessivamente di parte di Napolitano a cui viene rimproverato il passato comunista. Già nel prestare giuramento davanti alle Camere si nota il tentativo del Presidente neoeletto di rimediare a questa incerta legittimazione di investitura:
“Non sarò in alcun momento il Presidente solo della maggioranza che mi ha eletto; avrò attenzione e rispetto per tutti voi, per tutte le posizioni ideali e politiche che esprimete; dedicherò senza risparmio le mie energie all’interesse generale per poter contrare sulla fiducia dei rappresentanti del popolo e dei cittadini senza distinzione di parte”85.
84 Una su tutte, dichiarazione pubblica di Silvio Berlusconi, leader del Polo delle Libertà, ai microfoni di
Skytg24 il 16 aprile “La proposta di un politico di un partito di sinistra è una proposta al limite dell’emergenza democratica”.
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Napolitano vuole fin da subito tratteggiare la sua carica ponendosi come un Presidente di tutti gli italiani, impegnato a favorire il confronto costruttivo tra le forze politiche e ad esercitare il suo ruolo di garanzia dei valori e degli equilibri costituzionali attraverso il senso ed il dovere dell’imparzialità.
L’esigenza di legittimarsi agli occhi della parte politica che non ha contribuito alla sua elezione diviene ancora più pressante quando, a meno di due anni dall’inizio del suo mandato, la maggioranza di centrosinistra implode e Berlusconi, in seguito alla vittoria delle elezioni del 2008, va alla guida del governo con la più grande maggioranza parlamentare fino ad allora.
Mentre comincia a tessere la tela della rassicurazione con il governo, il Presidente si propone all’interno del sistema politico e all’opinione pubblica come garante della pacificazione nazionale. Fa propria la pedagogia del confronto tesa a sradicare l’imperante logica del nemico, carattere di un bipolarismo immaturo e spesso feroce.
Il sistema, anche garantendo a tratti momenti di stabilità, ha perso di vista troppo spesso l’efficacia dell’azione di governo. Senza mediazione e in maniera rapida lo scenario politico è passato dalla regola del “divieto dell’alternanza” proprio della Prima Repubblica alla “alternanza sistematica” della Seconda e il Presidente in questo repentino passaggio sente su di sé il ruolo di protettore del sistema democratico.
Tant’è vero che in un quadro politico non ancora consolidato, in quanto incapace di produrre convenzioni adeguate a trovare un equilibrio tra l’effettiva centralità governativa e il controllo parlamentare, Napolitano avverte il dovere di inserirsi in quegli spazi di agibilità politica per porsi come garante del rapporto tra maggioranza e opposizione.
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L’obiettivo è nobile: far entrare il sistema politico italiano nel solco delle grandi democrazie europee dell’alternanza, fondate sul riconoscimento reciproco delle contrapposte parti politiche, sull’elevata lealtà istituzionale e sull’unità tra maggioranza e
opposizione nelle scelte strategiche di interesse nazionale.
Il mandato di garante della stabilizzazione del bipolarismo muta negli ultimi due anni del suo primo settennato (2011-2013), quando diventa evidente l’avvio di processi di disgregazione del quadro politico e di destrutturazione totale del modello bipolare.
In particolar modo dopo le elezioni amministrative della primavera del 2012 l’entrata in scena di un nuovo movimento politico dalle notevoli potenzialità è il primo sintomo di una trasformazione che in realtà non viene avvertita come particolarmente influente dal Colle86.
I risultati delle elezioni del 2008 avevano fatto emergere un voto canalizzato sulle due coalizioni intorno ai due grandi partiti, Partito democratico e Popolo delle Libertà. Ciò sembrava portare il sistema italiano a un maturo e apparentemente definitivo bipolarismo, se non proprio bipartitismo87. Ma all’interno della grande
velocità e rapidità di cambiamenti osservati dagli anni ’90 in poi è giunta inesorabile la smentita alle elezioni successive del 2013 quando per la prima volta si è registrato un inaspettato tripolarismo competitivo.
In uno scenario frammentato e privo di un centro regolatore e moderatore il capo dello Stato, che nella prima parte del suo mandato aveva operato per la
86 “Napolitano e il successo dei grillini «Boom? Io ricordo solo quello degli anni 60»” Corriere della Sera,
8 maggio 2012.
87 “Per la quarta volta in cinque elezioni cambia lo schieramento al governo, e questo è un sintomo che
rafforza il meccanismo dell'alternanza. Di più: con un'evoluzione più consona alle moderne democrazie europee, anche la nostra si avvicina a un modello di bipartitismo tendenziale. Dalla Francia alla Germania, dalla Gran Bretagna alla Spagna, due partiti maggiori si ripartiscono un bacino di consensi che oscilla tra il 70 e il 90%. Pdl e Pd insieme, due partiti maggioritari e quasi "presidenziali", raccolgono intorno al 73% dei voti. Il prezzo di questa forte polarizzazione dei consensi è la polverizzazione delle "terze forze" e la desertificazione dei "cespugli"” Massimo Giannini, “Terza Repubblica: stesso cavaliere” in “Repubblica” del 15 aprile 2008.
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maturazione e il consolidamento dell’assetto bipolare, ha finito così per garantire la liquidazione e la ristrutturazione, esercitando funzioni di supplenza in certi casi del Governo e in altri casi dell’opposizione parlamentare cercando però sempre di dare precedenza e privilegio a un accordo tra centro-destra e centro-sinistra88.
Questo ruolo diventa evidente sia nel 2011 quando il governo di centrodestra, ridotto numericamente dall’uscita della componente riconducibile all’ex alleato Gianfranco Fini ma soprattutto fiaccato dalle inchieste giornalistiche sul premier Berlusconi e dalla speculazione finanziaria, arriva al capolinea sia nel 2013 quando si verifica un’empasse elettorale. In entrambi i casi chiede in maniera decisa, ed ottiene, che i due storici schieramenti trovino un accordo.
Nel primo caso la formazione del Governo Monti segna il punto più alto del potere di direzione politica di Napolitano, per l’abilità con cui egli riesce a imprimere agli eventi il corso desiderato (attraverso anche strategie politiche particolari come la nomina di senatore a vita dello stesso Monti qualche giorno prima della nomina come Presidente del Consiglio).
Nel secondo Napolitano viene chiamato a rimediare con la sua iniziativa alla paralisi decisionale prodotta dal risultato elettorale e dalla disperante debolezza strategica dei partiti che palesemente si arrendono alla volontà politica del rieletto presidente. Con un azzardo interpretativo possiamo dire che da “un governo del presidente” passa a “un presidente di governo” che accentra su di sé un ruolo determinante nella formazione della compagine ministeriale e nella stessa elaborazione del programma89.
88 “Napolitano pretende l’inciucio. No, Grazie!” di Paolo Flore d’Arcais sulla rivista “MicroMega” del 10
Aprile 2013.
89 G. Scaccia, Il re della Repubblica. Cronaca costituzionale della presidenza di Giorgio Napolitano, Mucchi Editore,
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Per certi versi non possiamo nasconderci che in qualche frangente abbia preso in mano la situazione con un buon tasso di realpolitik, quando si schiera senza riserve al fianco dell’Esecutivo rifiutando di prendere atto dell’esaurimento della ragione politica delle larghe intese e della delegittimazione politica (sicuramente non giuridica) delle Camere conseguente all’annullamento della legge elettorale allora in vigore (la n.270/05) da parte della Corte costituzionale.
Ha legato la sua stessa permanenza al Colle alla sopravvivenza dell’esecutivo e all’attuazione dell’ambizioso programma di riforme costituzionali concordato all’atto della rielezione. Potremmo dipingere la figura di Napolitano in quel frangente come premier occulto90 che lega la propria dipendenza a quella del governo che sente
l’obbligo di ricevere una sorta di doppia fiducia una dal parlamento e una dal Capo dello Stato. Tant’è vero che sembra aver posto la questione di fiducia sul suo secondo mandato su un preciso disegno politico e di progettazione istituzionale. Quella stagione però si esaurisce appena Matteo Renzi diventa segretario del Partito Democratico e viene messa fine alla fase dei governi del Presidente.
Il disegno di stabilizzazione, al quale Napolitano aveva lavorato sostenendo Monti e Letta e rifiutando lo scioglimento delle Camere nel timore di far piombare il Paese in una spirale di instabilità e crisi, viene superato e riassorbito nel gioco politico. Renzi avvia un ambizioso programma di riforme istituzionali ed economiche.
La ripresa centralità politica del Premier e il netto calo degli indici di approvazione dell’operato di Napolitano fanno cambiare il segno dell’ultimo scorcio del mandato. Nonostante la diffidenza iniziale, restando dunque in posizione defilata, si preoccupa principalmente di garantire dinanzi ai partner europei e mondiali l’affidabilità di un governo giovane e riformista.
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Solo dopo averne sperimentato l’inattesa forza politica-mediatica si schiera con realismo a fianco del nuovo leader, elogiandone lo spirito innovatore, difendendolo dalle accuse di inconcludenza, esplicitando il suo favore per le riforme proposte dal Governo e in particolare per il superamento del bicameralismo perfetto e la revisione del titolo V della Parte Seconda della Costituzione.91 Nel gennaio 2015 decide di
dimettersi preannunciandolo nel consueto discorso di fine anno testimoniando “le crescenti limitazioni e difficoltà”92 da lui avvertite nell’esercizio dei suoi compiti
istituzionali.