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Il ruolo del Presidente della Repubblica e la sua evoluzione con particolare riferimento alla formazione del governo

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

IL RUOLO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E LA

SUA EVOLUZIONE CON PARTICOLARE RIFERIMENTO

ALLA FORMAZIONE DEL GOVERNO

Relatore:

Chiar.mo Prof. Andrea Pertici

Candidato:

Paolo Masullo

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INDICE

pag.

Introduzione 4

PARTE 1

Il Presidente della Repubblica Italiana Capitolo I

Ruolo del Presidente della Repubblica all’interno della Costituzione italiana

1. Analisi in merito alle forme di Stato e di governo 7

1.1 Cenni generali 7

1.2 Presidente della Repubblica nelle forme di governo 12

1.3 Elementi di comparazione: Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Germania 14 2. Analisi dei lavori dell’Assemblea costituente nella scelta della forma di governo

parlamentare con riferimento al ruolo dato al Presidente della Repubblica 21 2.1 Composizione dell’Assemblea 21 2.2 Forma di governo 24 2.3 Il Presidente della Repubblica nella forma di governo parlamentare

italiana 27 2.3.1 L’elezione del Presidente 27 2.3.2 La durata della carica del Capo dello Stato 31

2.3.3 Il Presidente nella formazione del governo e nello scioglimento

delle Camere 33

3. Analisi dei poteri del Presidente della Repubblica con riferimenti dottrinali 37 4. Testo definitivo degli articoli 92, 93 e 94 Cost. e ruolo del Capo dello Stato nella

formazione del governo in particolare nella nomina dei ministri 50

CAPITOLO II

Evoluzione storica del ruolo del Presidente della Repubblica

1. L’influenza degli scenari politici 59

1.1 Cenni introduttivi 59

1.2 Le tre stagioni politiche e conseguente analisi della condotta dei singoli

Presidenti nella formazione dei governi 61

a) fase conciliativa b) fase contrappositiva c) fase tripolare

2. Effetti delle leggi elettorali sulle azioni del Presidente della Repubblica 79 3. I casi di intervento del Presidente della Repubblica nella scelta dei ministri

durante la fase delle consultazioni 81

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PARTE 2

Le particolari esperienze delle presidenze di Giorgio Napolitano e di Sergio Mattarella nel processo di formazione dei governi

CAPITOLO III

La presidenza di Giorgio Napolitano

1. Inquadramento generale della Presidenza Napolitano 88

2. Gli anni del bipolarismo: i governi Prodi e Berlusconi 93

2.1. I casi delle nomine di Aldo Brancher e Saverio Romano 94

3. Il ruolo centrale nella formazione del governo Monti 98

4. La genesi e lo sviluppo della XVII legislatura 102 4.1 Conduzione dello scenario prodotto dalle elezioni, la richiesta di maggioranza certa e la nomina dei saggi 102 4.2 L’anomala rielezione al Colle e la formazione del governo delle larghe intese 117 4.3 Il governo Renzi e l’intervento sulle nomine durante le consultazioni 124

CAPITOLO IV La presidenza di Sergio Mattarella nella crisi istituzionale della XVIII legislatura 1. Premessa 130

2. Scenario politico scaturito dalla nuova legge elettorale (Legge 3 novembre 2017, n.165, cd “Rosatellum”) 131

3. I fatti che hanno portato alla nascita del governo presieduto dal Prof. Conte: dal 4 marzo 2018 al 6 giugno 2018 134

4. Ruolo del Presidente della Repubblica Mattarella nella formazione del Governo Conte 139

4.1 Il rifiuto della proposta di nomina del Prof. Paolo Savona a Ministro dell’Economia e delle Finanze 139

4.2. Il Presidente della Repubblica quale garante della stabilità economico-finanziaria internazionale 142

5. Atteggiamento della dottrina sul comportamento istituzionale del Presidente Mattarella: pareri contrari e favorevoli 145

6. Previsione dell’utilizzo dell’istituto della messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica e rimedio possibile del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato 154

7. Cenni in merito alla crisi del governo Movimento5Stelle-Lega e la nascita del governo Conte II 157

Conclusioni 159

Bibliografia 164

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Introduzione

Era il 27 maggio 2018 quando il Presidente della Repubblica Mattarella, atteso dalla stampa riunita, dichiarava davanti ai microfoni: “Ho condiviso e ho accettato tutte le proposte dei ministri, tranne quella per il ministro dell’Economia”. Erano passati settanta giorni dalle elezioni e le forze politiche avevano trovato grandi difficoltà a proporre al Presidente una soluzione per formare il nuovo governo. Quando sembrava che l’alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega avesse prodotto un programma e i nomi del Presidente del Consiglio e dei Ministri arrivò la bocciatura del Colle che oppose una chiara resistenza alla nomina del professore Paolo Savona nel ruolo di Ministro dell’Economia. Nei giorni appena successivi, tale rifiuto generò e accese un dibattito interessante all’interno della dottrina costituzionale, del mondo giornalistico e dell’opinione pubblica in merito alla legittimità o, anche semplicemente,

all’opportunità di quel gesto.

L’ispirazione della mia tesi ha come scopo far emergere questa domanda: “In che modo il Presidente della Repubblica può giustificare il rifiuto alla nomina di un ministro?”. Per dare una risposta umile, non ideologica ma tecnica a questo dubbio ho sentito la necessità di partire da lontano nell’analisi del ruolo del Presidente della Repubblica che non verrà trattato in maniera esaustiva e completa ma sarà analizzato con un taglio

particolare sulla formazione del governo.

Nei primissimi paragrafi mi occuperò delle forme di Stato e di governo per poter calare il Presidente nella realtà istituzionale, poi mi fermerò solo per qualche accenno su

alcune esperienze comparatistiche internazionali.

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dell’Assemblea Costituente che dal 1946 al 1948 si assumerà il compito di dare forma

alle nuove Istituzioni.

Il focus riguarderà il dibattito e le proposte dei costituenti in merito al ruolo da dare al Presidente della Repubblica. Avrò un’attenzione particolare per un’analisi tecnica e giuridica degli articoli della Costituzione e per il conseguente dibattito dottrinale. Nel secondo capitolo, che chiude la parte generale, vorrò sottolineare come il contingente storico politico, divisibile in tre fasi (“compromissoria”, “contrappositiva” e “tripolare”), e le personalità dei Presidenti abbiano condizionato l’intervento nella scelta degli esecutivi: una veloce carrellata da Einaudi a Ciampi servirà a dare un’idea

concreta del potere di influenza del Capo dello Stato.

La seconda parte ha la pretesa di approfondire con maggior dettaglio le vicende che

hanno riguardato Napolitano e Mattarella.

Passando in rassegna prima l’uno e poi l’altro risulta evidente come gli anni Duemila siano il prodotto della precedente cesoia tra Prima e Seconda Repubblica e della prospettiva futura di una Terza. La crisi dei partiti novecenteschi viene causata dalla caduta delle ideologie, sul piano internazionale, e dallo scandalo di “Tangentopoli”, sul piano italiano. Assistiamo così a un indebolimento della fiducia generale nelle Istituzioni democratiche e all’insorgere di un’insolita fluidità e volatilità del consenso politico-elettorale. Nuovi movimenti conquistano, grazie a messaggi di anti-politica, forti consensi fino ad arrivare al governo e sono responsabili di un nuovo tripolarismo che

apre nuovi scenari insondabili.

Nello specifico la tesi affronterà l’esame degli anni dal 2011 al 2019 durante le

presidenze Napolitano e Mattarella.

Il primo affronterà la fine del governo Berlusconi, reagirà alla tempesta finanziaria in seguito alla crisi economica con la formazione del governo Monti, assisterà allo stallo

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dei partiti in seguito alle elezioni del 2013, accetterà la propria rielezione al Colle, accompagnerà la realizzazione del governo Letta appoggiato da una maggioranza di grande coalizione e asseconderà la volontà del partito di maggioranza di passare a un nuovo governo guidato da Matteo Renzi, fresco vincitore delle primarie. Mattarella invece, alla prima prova concreta delle elezioni, si troverà costretto a dare un lungo tempo alle forze politiche per formare un governo e si impegnerà ad incidere sulla nomina dei ministri in nome dell’interesse nazionale richiamandosi alla tutela del risparmio (art. 47 Cost.) al fine di evitare di inviare equivoci messaggi ai mercati che avrebbero avuto il potere di porre in pericolo i conti pubblici e, di conseguenza, la tenuta democratica dello Stato.

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PARTE 1

Il Presidente della Repubblica Italiana

CAPITOLO I

Il ruolo del Presidente della Repubblica all’interno della Costituzione italiana

1. Analisi in merito a forme di Stato e forme di governo 1.1 Cenni generali

L’indagine sul ruolo del Presidente della Repubblica all’interno dell’ordinamento italiano prende origine dalla nascita della Repubblica italiana. Con la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e con l’armistizio dell’8 settembre 1943, grazie al quale l’Italia si schierò a fianco delle forze anglo-americane, il nostro Paese si trovò, a guerra conclusa, in una situazione sì disastrosa per le vicende belliche ma particolarmente privilegiata per gli aspetti politici-istituzionali.

Nonostante avesse combattuto per buona parte del conflitto mondiale accanto alle nazioni poi sconfitte, non venne considerata come tale fino in fondo ma le fu concesso, a differenza della Germania, la libertà di scegliere il proprio futuro. Trovò dunque davanti a sé una pagina bianca nella quale poter scrivere per intero e quasi da capo la sua storia istituzionale come premio per aver contribuito alla sconfitta dei totalitarismi dall’interno attraverso la Resistenza.

Le forze democratiche che avevano contrastato il fascismo e che con le truppe alleate avevano liberato l’Italia si ritrovarono insieme nel Comitato di Liberazione Nazionale per mettere le basi di un nuovo Paese e per dare voce al popolo attraverso libere elezioni nella scelta tra Monarchia e Repubblica e nelle preferenze dei componenti dell’Assemblea Costituente.

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Non erano questioni per teorici giuristi ma scelte istituzionali concrete da tradurre in Costituzione. La frase attribuita a D’Azeglio “Purtroppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani”1 andava riscritta perché nel 1945 andava rifatta l’Italia di nuovo

e per fortuna, aggiungerei.

Dalla costruzione delle nuove fondamenta si dovevano scegliere la struttura e l’impianto istituzionale partendo dalla forma di Stato e di governo. I modelli, frutto degli studi di diritto e dell’esperienza concreta, erano molteplici. Non è questa la sede per approfondire in maniera compiuta il dibattito dottrinale ma accennare alle possibilità che i padri costituenti avevano davanti a sé può risultare utile per avere più chiaro il ruolo e i poteri degli organi statali.

Il dibattito sulle forme di Stato e di governo tocca un tema interdisciplinare e molto controverso quindi un modo per intendere le due nozioni è quello di metterne in luce la natura di relazione. Da questa prospettiva la forma di Stato è un’espressione che vale a descrivere i rapporti che nei vari ordinamenti si determinano tra la sovranità, quindi il potere di governo, il territorio e il popolo. Mentre la forma di governo mette in luce la relazione e i conseguenti rapporti che si instaurano tra gli organi supremi o di vertice dello Stato.

Un altro sforzo definitorio è rappresentato dalle espressioni in relazione alle finalità: per le forme di Stato diventano gli obiettivi di convivenza di quel popolo su quel territorio e per le forme di governo si traducono nelle modalità in cui il potere è distribuito tra gli organi dello Stato inteso come apparato2. È evidente il nesso di

strumentalità che solitamente lega la forma di governo alla forma di Stato: con la prima

1 M. D'Azeglio, Origine e scopo dell'opera in I miei ricordi, Firenze, Barbera, 1891, p. 5.

2 G. Amato, Forme di Stato e di Governo, in G. Amato – A. Barbera (a cura di), Manuale di Diritto

pubblico, Il Mulino, Bologna, 1997. Sulla necessità di integrare lo studio sullae gorme di governo con la scienza politica vedi anche O. Chessa, Il Presidente della Repubblica Parlamentare. Un'interpretazione della forma

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che si piega all’obiettivo di raggiungere gli scopi della seconda qualificando

quell’ordinamento e la convivenza dei soggetti in esso presenti.

Le scelte prese dall’Assemblea Costituente, che vedremo in seguito, furono abbastanza lineari su questo piano poiché il retroterra ideologico e culturale del CLN imponeva di superare il passato autoritario di matrice fascista per risolversi nell’accogliere il modello democratico nella forma dello Stato Sociale. Sulla questione delle forme di governo invece le varie anime avevano avanti a sé modelli molteplici per tradurre e per concretizzare i fini della forma di Stato.

I criteri di classificazione risultano numerosi ma sceglierò quelli più utilizzati3. Si

comincia da quello che dà un ruolo di primo piano all’esistenza o meno del rapporto fiduciario tra legislativo ed esecutivo, intesi quali titolari delle funzioni di indirizzo politico, permettendo quindi di distinguere tra forme di governo parlamentari, presidenziali, semipresidenziali e direttoriali.

Nelle prime il governo necessita della fiducia da parte del Parlamento ed è responsabile politicamente nei suoi confronti. Nelle seconde, invece, non esiste un vincolo fiduciario tra il legislativo esecutivo e vi è un capo dello Stato che rappresenta il vertice dell'esecutivo. Nelle forme semipresidenziali si mescolano aspetti dei due modelli precedenti: il capo dello Stato nomina il governo e il governo è politicamente responsabile nei confronti del parlamento quindi sussiste una sorta di duplice vincolo fiduciario dell'esecutivo nei confronti sia del vertice dello Stato sia dell'assemblea parlamentare. Nelle forme direttoriali infine il ruolo centrale del sistema è occupato da un organo collegiale sui generis che cumula le funzioni di capo dello Stato e di governo eletto dall'assemblea parlamentare ma non responsabile nei confronti della medesima non potendo venire sfiduciato nel corso del mandato.

3 Per le principali classificazioni vedi anche M. Volpi, Libertà e autorità, La classificazione delle forme di Stato e

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Interessante è porre maggiormente l’accento sulle forme parlamentari. Secondo una distinzione classica vengono ripartite in due grandi categorie: da una parte quelle di tipo anglosassone, delle quali la forma di governo parlamentare del Regno Unito rappresenta il paradigma; dall’altra le forme di governo parlamentari di tipo continentale diffuse nell’Europa continentale.

I tratti connotativi del tipo anglosassone vengono identificati: nello spiccato rilievo del premier, nel ruolo sostanzialmente rappresentativo del capo dello Stato, nella forte contrapposizione tra maggioranza e opposizione, nella stabilità e efficienza degli esecutivi, nella rotazione periodica e fisiologica delle maggioranze di governo e nel riconoscimento alle opposizioni parlamentari di un vero e proprio statuto. Un sistema bipartitico maturo, prodotto o causa del sistema elettorale, viene indicato come premessa contestuale per l’efficace funzionamento di tale forma di governo4.

I tratti connotativi della forma di governo parlamentare di tipo continentale vengono invece individuati: nella collegialità del governo, nella prevalenza delle assemblee parlamentari sull’esecutivo, nella frammentarietà delle coalizioni di governo, nel rapporto consociativo tra i gruppi parlamentari, nella instabilità dei governi e nel ruolo di arbitro affidato al Capo dello Stato.

Il multipartitismo e la ridotta capacità manipolativa del sistema elettorale sono indicati come elementi tipici del contesto politico-istituzionale nel quale opera solitamente tale forma di governo.

4 F. Pastore, Evoluzione della Forma di Governo parlamentare e Ruolo del capo dello Stato, Giappichelli, 2003. Sul

fondamento storico e dogmatico della distinzione fra forme di governo parlamentari di tipo anglosassone e continentali vedi G. De Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Padova, 1993.

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In considerazione di sviluppi storico-politici la dottrina5 sta preferendo una

diversa e più attuale distinzione tra forme di governo parlamentari contrappositive e forme di governo parlamentari conciliative o consensuali. I principali tratti caratterizzanti le forme di governo parlamentari contrappositive sono: bipolarizzazione delle assemblee parlamentari, alternanza tra le maggioranze di governo, stabilità degli esecutivi, preminenza del primo ministro nell’ambito dell’esecutivo. Al contrario le forme di governo parlamentari conciliative si caratterizzano per la frammentarietà della composizione delle assemblee elettive, maggioranza di coalizione frammentate e poco coese, mancata affermazione del principio dell’alternanza, prevalenza del principio di collegialità nei rapporti infra-governativi.

Chiedersi quale è l’effetto e quale è la conseguenza, cioè se il sistema dell’ordinamento produce il sistema politica oppure, viceversa, il sistema politico genera l’ordinamento istituzionale vale a domandarsi se viene prima l’uovo o prima la gallina. Mi sento sicuro di dire che le abitudini e la storia di ogni popolo danno origine a necessità da contemperare e vizi da correggere. Nessuna imposizione di una struttura ordinamentale statale o di una legge elettorale produrrà gli effetti di trasformare le caratteristiche radicate nella storia e nelle abitudini di un Paese. Non esiste la struttura migliore in assoluto ma solo quella migliore per quel contesto e per la realtà in cui va calata. E questo sicuramento i costituenti lo sapevano. In questo ventaglio di opportunità si inserì il dibattito costituzionale che però poteva partire da un dato consolidato: il 2 giugno 1946 il popolo italiano aveva preferito la Repubblica alla Monarchia. La scelta dei meccanismi di funzionamento dello Stato spettava ai 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletti nello stesso giorno.

5 Questa distinzione viene, utilizzata in F. Pastore, Evoluzione della Forma di Governo parlamentare e Ruolo del

capo dello Stato, che richiama S. Giulj, Le statut de l'opposition en europe, Notes et etudes documentaires, 24

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1.2 Il Presidente della Repubblica nelle forme di governo

Con il referendum tra Monarchia e Repubblica si chiuse definitivamente una questione istituzionale. La preferenza della Repubblica aprì tuttavia un nuovo delicato capitolo relativo al ruolo da attribuire al Capo dello Stato nel futuro ordinamento dovendo tener presente che la configurazione del presidente toccava necessariamente i legami di tutte le altre istituzioni di vertice e di conseguenza l'organizzazione della forma di governo.

Il primo fattore dirimente che venne preso in considerazione riguarda il tipo di legittimazione attribuita al Presidente della Repubblica: affidata al popolo con elezioni diretta della carica oppure riservata in via indiretta a un organo rappresentativo come Parlamento o un collegio speciale appositamente designato. Il tipo di elezione è inevitabilmente connesso ai poteri dello stesso Capo dello Stato che tenderà ad assumere funzioni di indirizzo politico se eletto direttamente dal popolo e funzioni neutre e moderatrici se eletto da un altro organo6.

Il secondo fattore riguarda la direzione dell'apparato esecutivo, vale a dire la composizione del governo. Se questa è monocratica troviamo al vertice un soggetto istituzionale dotato di specifici compiti e responsabilità di governo e allora tale ruolo può essere ricoperto appunto dal Presidente della Repubblica o da un primo ministro. Un esecutivo di carattere collegiale invece si realizza quando tali compiti e

6 La questione relativa al tipo di elezione venne messa, nei vari interventi, in relazione all'estensione dei

poteri e soprattutto in relazione al loro esercizio sul piano della effettività. L'On. Costantino Mortati, premessa la necessità di commisurare i poteri presidenziali alle modalità di elezione, affermò l'opportunità che il Presidente della repubblica perseguisse obiettivi “non di partito, ma neutrali; e quindi debbono adottarsi modalità di elezione che valgano a distaccarlo dai movimenti politici, come tali, e a renderlo, nei limiti del possibile, imparziale”. Sul dibattito svoltosi in Assemblea costituente su ruolo, elezione e poteri del Presidente della Repubblica vedi P. Armaroli, L'elezione del Presidente della Repubblica in Italia, Cedam, 1977, pag. 93 e ss.

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responsabilità sono divisi fra una pluralità di soggetti gerarchicamente equipotenti come succede nel Consiglio dei ministri.

La versione del presidenzialismo, oltre a prevedere una legittimazione diretta, attribuisce al Capo dello Stato la guida del governo con importanti ed esclusivi poteri di indirizzo. Ne risulta una istituzione indipendente dal fluttuare delle maggioranze parlamentari, caratteristica particolarmente convincente per coloro che ponevano al centro del disegno costituzionale l'obiettivo di eliminare l'instabilità di governo del periodo liberale che era stata l’anticamera del fascismo.

Nella versione assembleare del Governo invece il presidenzialismo perde la sua connotazione monocratica - verso la quale si nutrivano timori per una degenerazione autoritaria – associando al Capo dello Stato soggetti istituzionali dotati di analoghi poteri di governo, in grado di attuare un gioco di reciproci controlli e bilanciamenti in seno all’organo esecutivo. Nei sistemi che ne sanciscono la legittimazione indiretta il Presidente della Repubblica è considerato alieno da poteri e responsabilità di indirizzo politico mentre assume neutralità e funzioni di garanzia superpartes nell'interesse supremo dell'intera collettività nazionale.

Proprio in questa veste di garante istituzionale dei rapporti tra maggioranza e opposizione può divenire organo di rilievo nei sistemi parlamentari con governi guidati da forme con primo ministro con formato multipartitico. E allora la figura del Capo dello Stato funge da intermediario tra le forze politiche nei momenti di crisi del sistema, cioè quelli che anticipano la scelta di un nuovo premier e quindi la nascita di un nuovo governo oppure quelli che si concretizzano nello scioglimento delle camere davanti a crisi irrisolvibile.

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Nelle forme di governo assembleari il ruolo del Presidente sfuma a favore del Parlamento che è al centro del sistema controllando un governo collegiale del tutto assoggettato alle dinamiche e agli orientamenti delle camere.

1.3 Elementi di comparazione: Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania

La forma di governo presidenziale, che, semplificando, è caratterizzata dalla presenza di tre organi costituzionali quali esecutivo, parlamento e corte costituzionale, vede come modello di riferimento gli Stati Uniti nei quali il Presidente è il capo esecutivo.

Una particolarità riguarda il fatto che il Capo dello Stato non viene considerato come i capi di Stati di ordinamenti unitari dato che gli Usa sono il prototipo del federalismo, ma in ogni caso il presidente era nelle intenzioni dei costituenti americani costruito sul calco del monarca inglese.7

La carica del Presidente statunitense è monocratica ed ha importanti poteri di nomina per i quali ha bisogno del via libera del Senato; inoltre è capo delle forze armate, può concedere la grazia e può concludere trattati internazionali. In ottemperanza al principio della separazione dei poteri non può sciogliere le assemblee rappresentative in quanto, come detto, non dipende da loro. Per quanto riguarda il potere legislativo formalmente non è titolare dell’iniziativa ma può esercitare un potere di veto superabile dal Congresso a maggioranza dei due terzi. La sua carica dura quattro anni e dal 1951 può essere rieletto una sola volta. Non è irresponsabile né inviolabile: risponde politicamente in particolare modo nel primo mandato e può essere sottoposto a impeachment, aggiuntivo rispetto ad altri processi da cui non è immune.

7 G. Bognetti, Lo spirito del costituzionalismo americano, La costituzione liberale, Giappichelli, Torino, 1998. Sul

sistema statunitense è opportuno richiamare G. Lucifredi, Appunti di Ddritto costituzionale comparato, Il

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Nonostante il modello fosse la corona britannica, ciò che ne esce è una figura tutt’altro che neutra, parziale e di garanzia. È il massimo rappresentante esterno della nazione: come vertice dell’esecutivo guida il Paese, ha bisogno per molti atti fondamentali dell’appoggio del Congresso ma la sua durata in carica è indipendente da questo. È chiaramente un organo di indirizzo politico, leader di una maggioranza e parte attiva dell’agone politico. Per quanto riguarda il ruolo all’interno del governo ha il potere di nomina dei componenti del Gabinetto che, successivamente, vengono presentati al Senato che può confermare o respingere l’indicazione attraverso una votazione a maggioranza semplice. Una volta approvati prestano giuramento e poi entrano nel pieno delle loro funzioni. I membri del gabinetto sono alle dipendenze dirette del presidente e questi può rimuoverli e sostituirli a sua totale discrezione.

Gli altri ordinamenti sono retti secondo la variante del governo parlamentare che hanno al proprio interno quattro organi costituzionali: Capo dello Stato, governo, parlamento, Corte costituzionale.

Di questi esistono due grandi famiglie: le monarchie e le repubbliche. Un’analisi esaustiva richiederebbe troppo spazio in questa sede ma alcuni tratti comuni possiamo analizzarli.

Generalmente le monarchie parlamentari presentano un capo di stato ereditario. In tutti il governo deve godere della fiducia espresso o presunta o comunque di una non sfiducia del parlamento. Dal punto di vista dell'assetto formale le similarità tra i vari modelli sono largamente prevalente rispetto alle differenze.

Le costituzioni storiche contemplano un re a cui spetta il potere esecutivo quindi un re che governa con i suoi ministri. Solitamente il re è una persona inviolabile, presiede il Consiglio dei ministri, sanzione leggi, le promulga e nomina alcune cariche pubbliche. Ha poteri di rappresentanza esterna, ha il comando formale delle forze

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armate e concede onorificenze. Generalmente gli atti dei sovrani sono sottoposti a controfirma. Per quanto riguarda invece compiti più delicati e più interessanti, cioè quelli direttamente legate all'esercizio di funzioni di indirizzo politico come la nomina e revoca del primo ministro e lo scioglimento del Parlamento che in una forma o nell'altra vediamo ovunque –altrimenti non ci troveremmo di fronte un governo parlamentare - si registrano differenze abbastanza significative.

Prendiamo ad esempio la democrazia maggioritaria del Regno Unito, anche se sta conoscendo in questi ultimi anni una piccola crisi di sistema causata da incertezze elettorali e dalle vicende contingenti legate al procedimento di uscita dall’Unione Europea (cd brexit)8.

L'ordinamento vede il governo di sua Maestà di diritto ma non di fatto9.

L’assetto formale per quel tanto che c'è di codificato è dualista ma la sostanza è certamente monista. Il potere legislativo appartiene a quello che viene chiamato King in

Parliament ma se da una parte è vero che la regola suprema dell’ordinamento è la sovereignty of Parliament dall’altra parte non dimentichiamo che il potere di nomina del

primo ministro appartiene al sovrano come quello di sciogliere la Camera dei comuni. Fino a qualche anno fa bastavano poche ore dopo le elezioni per determinarne il vincitore: la regina nominava come primo ministro il leader del partito vincitore insieme ai ministri che questi indicava.

8 F. Clementi, La grande incertezza: le elezioni europee 2019 nel Regno Unito, su www.federalismi.it

9 Il sovrano del Regno Unito viene chiamato a svolgere un ruolo piuttosto rappresentativo. Pur essendo

dotato in astratto di poteri molto estesi e penetranti – nomina del primo ministro, nomina e revoca deiministri, scioglimento della camera dei comuni- si trova di fatto a doverne fare un uso esclusivamente formale: da un punto di vista sostanziale, infatti, mentre la prima scelta è deputata in prima battuta ai partiti e in seconda battuta agli elettori, le altre sono rimesse allo stesso premier. Cfr. G. Amato, Forme di

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In epoche recentissime invece anche in Gran Bretagna si è registrata una situazione politica di indeterminatezza così da creare più incertezze nella formazione del governo per il raggiungimento della maggioranza10.

La regina può sciogliere la camera dei comuni se il premier lo chiede ma ciò non elimina affatto il ruolo del partito politico e non esaurisce tutto nella investitura popolare del primo ministro che governa solo finché resta il capo del partito: si può cambiare il primo ministro che aveva vinto le elezioni se questi si dimette senza chiedere lo scioglimento e il partito propone un leader diverso. Resta il fatto che la corona dal punto di vista dei poteri formali rimane dotata di prerogative derivanti della antica autorità discrezionale arbitraria. In base alle consolidate e consuetudini costituzionali è consentito attenderci sempre che la regina agisca solo su parere vincolanti dei suoi ministri. Solo in rari ipotesi di scuola il sovrano potrebbe rifiutare la sua sanzione e ciò potrebbe accadere in caso di legge chiaramente e senza dubbio fuori dal solco costituzionale. In assenza di una costituzione scritta gli elementi di stabilità del sistema trovano fondamento nei correttivi di origine strettamente politica.

Passiamo all’analisi delle repubbliche parlamentari. Alcune di queste hanno carattere formalmente semipresidenziali come la Francia11. Semipresidenziale non è solo

quello ordinamento che prevede l’elezione diretta del presidente quanto quello che riconosce al Capo dello Stato attribuzioni politicamente rilevanti in modo da creare un sistema nel quale la sua figura convive con l’esistenza di governo legato al parlamento da un rapporto fiduciario. Conseguentemente la guida della nazione è nelle mani del capo dello Stato mentre il primo ministro e il governo gestiscono l’indirizzo politico.

10 Per una disamina esaustiva, P. Caretti, M. Morisi , G. Tarli Barbieri, Legislazione elettorale, 5 modelli a

confronto, Il Regno Unito, Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, giugno 2017.

11 Per un quadro dell'ordinamento costituzionale francese, P.G. Lucifredi, Appunti di Diritto Costituzionale

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Il presidente si considera eletto proprio con lo scopo di realizzare quell’indirizzo coltivando i rapporti con Parlamento. Però a differenza del presidente americano quello francese non deve considerarsi il rappresentante di un indirizzo politico temporaneamente maggioritario ma il supremo garante dell’interesse generale della nazione, l’unico interprete legittimo di esso, colui che assicura la continuità statale. Non è la sua una concezione maggioritaria che implica una preferenza per lui.

Si può dire che il capo dello Stato è collocato al di sopra dei partiti. Il sistema funziona quando la maggioranza parlamentare coincide con quella presidenziale. In caso contrario ci troviamo di fronte alla coabitazione – la presenza contemporanea di due maggioranze contrapposte – davanti alla quale si ha la convivenza di un presidente dotato di attribuzioni in materia di politica estera e militare e di un governo responsabile di un indirizzo politico in parte difforme, entrambi dotati di legittimazione popolare: personale e diretta il presidente, collettiva e indiretta il governo ottenute in tempi di versi con il vantaggio per quella più recente.

Per ciò che ci interessa direttamente è chiaro comunque che, nonostante possa o no ricoprire la guida del paese, egli faccia parte dell'esecutivo. La Costituzione specifica puntualmente quali sono gli atti non soggetti a controfirma permettendo di distinguere quindi gli atti nei quali agisce come titolare di un potere di natura politica e con piena discrezionalità e quelli di cui invece si assume responsabilità il governo. Non perdiamo di vista il fatto che si tratta di un presidente legittimato direttamente dal popolo e, in questo senso, politicamente responsabile12.

12 Esso rappresenta un vero e proprio potere esecutivo, in quanto portatore di un indirizzo politico

approvato direttamente dal corpo elettorale. Vedi F. Pastore, Evoluzione della forma di governo parlamentare, cit.

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Quanto alla Germania, la Costituzione fu caratterizzata dalla manifesta intenzione di fondare un ordinamento diverso rispetto alla costituzione di Weimar13.

Tale forte preoccupazione emerge dalla volontà di introdurre nella Legge Fondamentale (promulgata nel 1949) precisi percorsi, sia nelle forme che nei tempi, per la formazione dei governi per evitare pericolosi vuoti di potere.

In particolare, in relazione all'organizzazione dei poteri, era completamente assente l'idea che il presidente si potesse ergere a contrappeso del parlamento.

Il capo dello Stato fu consensualmente ridimensionato in necessaria coerenza con la scelta di parlamentarizzare la forma di governo. Il presidente ha la rappresentanza internazionale ma non può condurre una propria politica estera, tant’è che concretizza indirizzi che non è lui a definire.

Come da tradizione ha poteri di nomine e di congedo dei funzionari ma lo fa solo formalmente. Se intende esercitare un'influenza deve ricorrere a vie informali. Emana e promulga le leggi ma è pacifico che possa esercitare un controllo solo formale in maniera non troppo difforme da qualsiasi pubblico ufficiale di fronte ad attività palesemente incostituzionale. Il controllo è limitato agli aspetti di costituzionalità non estendendosi al merito. Il presidente tedesco si limita a proporre il proprio candidato a cancelliere ma questi deve essere poi votato dal Bundestag che ha piena libertà di sceglierne anche un altro.

In caso di sfiducia questa deve essere costruttiva, deve cioè comprendere l’elezione di un nuovo cancelliere che il presidente dovrà nominare. Il capo dello Stato è titolare anche del potere di scioglimento ma sulla base di una disciplina costituzionale che ne subordina le decisioni a determinate condizioni. Gli atti del presidente sono soggetti a controfirma. Il dibattito riguarda le dichiarazioni di tipo informale: non

13 Cfr G. Mangiameli, La forma di governo parlamentare. L'evoluzione delle esperienze di Regno Unito,

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potranno in nessun modo impegnare il governo federale che potrà tenerne conto a sua discrezione. L'indirizzo politico è sempre solo del governo e del cancelliere tant’è vero che non esiste alcun ruolo di riserva del capo dello Stato e neppure la possibilità di un governo del presidente. Anzi, data l’esperienza storica, la sola esistenza di poteri di riserva presidenziale viene considerato un elemento di potenziale destabilizzazione del governo parlamentare.

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2. Analisi dei lavori dell’Assemblea Costituente nella scelta della forma di governo parlamentare con riferimento al ruolo dato al Presidente della Repubblica

2.1 Composizione dell’Assemblea Costituente

Il 2 giugno 1946 gli italiani vennero chiamati a decidere la composizione dell’Assemblea Costituente. La legge elettorale per l’occasione era di carattere proporzionale puro, dato che più di tutte andava considerata la rappresentatività e del tutto trascurata, in quanto pressoché assente in questo frangente, l’esigenza di governabilità.

Lo scopo di scrivere una Costituzione doveva in tutti i modi prendere in considerazione proporzionalmente tutte le anime post-fasciste. Non è trascurabile accennare ai risultati elettorali prima di affrontare la genesi della forma di governo per capire i modelli ideologici e ispiratori delle varie fazioni14

Gli eletti erano 556. La componente con più presenze era formata dalla Democrazia Cristiana con 207 eletti rappresentando il 35% del consesso. Seguivano le pattuglie del Partito Socialista di Unità Proletaria con 115 e del Partito Comunista Italiana con 104. Il Partito Liberale riuscì ad eleggere 33 costituenti mentre poco meno ne elesse il Fronte dell’Uomo Qualunque che con il 5% contava 30 deputati. I Repubblicani segnavano 23 seggi e in ordine di grandezza registro i 16 del Blocco Nazionale del Lavoro eletti insieme ai Liberali e i 7 del Partito d’Azione. Gli altri 21 costituenti rimanenti si dispersero in micro-gruppi non più grandi di 4 ciascuno.

Si era da poco conclusa la guerra e con la sconfitta del fascismo le varie anime, che si erano unite all’insegna del ripristino della democrazia, poterono riposizionarsi

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secondo le loro ispirazioni ideologiche originarie. Per dare un’idea generale e rapida la Democrazia Cristiana, fondata solo nel 1943, accolse e promosse i principi del cattolicesimo democratico nel solco dell’ormai sciolto Partito Popolare di don Luigi Sturzo. In un ipotetico schieramento opposto si trovavano invece il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria con ispirazioni, appunto, socialiste e il Partito Comunista che nasceva dalla scissione dagli stessi nel 1921 con chiare idee marxiste e rivoluzionarie con influenze del modello sovietico.

Erano rappresentati i liberali eletti grazie a una coalizione chiamata Unione Democratica Nazionale e l’anima repubblicana che però era divisa tra il Partito Repubblicano di ispirazione mazziniana e il Partito d’Azione fondato proprio dallo stesso Mazzini; entrambi trovavano la loro ispirazione nel radicalismo liberal-socialista. Il “Blocco Nazionale della Libertà” si inseriva nel segno di una politica conservatrice e monarchica mentre il “Fronte dell’Uomo Qualunque” fu un movimento fondato dal giornalista Guglielmo Giannini che portava avanti istanze populiste e legate

all’antipolitica.

I programmi elettorali con i quali questi movimenti si presentavano alle elezioni toccavano anche il tema dell’organizzazione istituzionale del nuovo regime e del capo dello Stato. Le soluzioni escogitate dai partiti evidenziarono proposte che scongiurassero qualsivoglia sconfinamento autoritario dei ruoli di governo.

Erano evidenti e chiare le spinte di tutte le formazioni volte a diffidare di modelli che consentissero una eccessiva personalizzazione del potere ma anche a rifiutare la riproposizione di un parlamentarismo instabile e fragile. Una proposta fu avanzata dal Partito d’Azione che sostenne la forma di governo presidenziale entro una

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cornice di bilanciamenti ispirata al modello americano15: sganciando la maggioranza

presidenziale da quella parlamentare, ed essendo il presidente della Repubblica e capo del governo una carica a durata fissa, il regime presidenziale avrebbe assicurato la governabilità del sistema, questione centrale data l’endemica instabilità del passato regime liberale. Secondo l’analisi degli azionisti fu proprio tale instabilità ad aver provocato nell’opinione pubblica quei malumori che si trasformarono in consenso per il fascismo.

Tale proposta però fu accolta in maniera piuttosto fredda dagli altri partiti che invece erano preoccupati dalla potenzialità eversiva di un capo dello Stato dotato di ampi poteri di governo.

L’alternativa opposta e radicale all’ipotesi presidenziale fu quella proposta dal Partito Comunista i cui leader parvero concordi nel sostenere un modello parlamentare con centralità assoluta dell’organo rappresentativo, ove il fattore determinante della stabilità dell’esecutivo si riteneva dovesse risiedere nell’interazione interpartitica e non nella presenza di meccanismi istituzionali di stabilizzazione. Anche il ruolo di garanzia, quindi, assegnato al Capo dello Stato, come accade nei parlamentarismi, non fu accolto dall’assemblearismo puro comunista, i cui esponenti non nascosero la possibilità di eliminare del tutto tale figura dall’assetto istituzionale futuro preferendo la gestione collegiale dell’organo di governo.

Al fronte di matrice socialista rappresentati dal Psiup spettò il tentativo di avvicinare il presidenzialismo azionista al parlamentarismo assembleare preferito dai comunisti. Pur assegnando alla presidenza della Repubblica un indirizzo politico, l’organo venne concepito in termini di collegialità con membri eletti sia dal popolo sia dal parlamento.

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I restanti partiti antifascisti si mostrarono disponibili a instaurare un parlamentarismo razionalizzato di stampo primo-ministeriale che non stravolgesse il modello ereditato dalla regola e dalla prassi dello Statuto Albertino, mitigandone però l’accentuata instabilità di governo.

Proprio su questo solco prende forma l’idea di un capo dello Stato a legittimazione indiretta, estraneo al gioco politico ma garante del suo svolgimento: una sorta di moderatore e ri-equilibratore dei meccanismi sistemici privo di responsabilità politica sebbene detentore di poteri più che formali.

Con questa ipotesi e con la possibilità di un capo dello Stato eletto in secondo grado e svolgente funzione moderatrice si schierarono democristiani e repubblicani senza escludere la possibilità di un organo collegiale. I liberali auspicarono per il capo dello Stato la possibilità di espandere i propri poteri fino a sconfinare in decisioni di indirizzo politico, allorché eccezionali momenti di crisi lo rendessero necessari.

Con queste premesse partirono i lavori dell’Assemblea costituente.

2.2 Forma di governo

Le intenzioni erano quelle di privilegiare una forma di governo razionalizzata per permettere di rispondere a due esigenze, quella di respingere il presidenzialismo e scongiurare l’eccessivo assemblearismo. Vedremo che il risultato fu un parlamentarismo moderatamente razionalizzato le cui regole vennero solo accennate in Costituzione nei suoi tratti generali e per gran parte invece delegate alle leggi per i dettagli.

La forma di governo presidenziale veniva ritenuta inadatta all’ordinamento italiano per la mancanza di idonei contrappesi che avrebbe potuto permettere una svolta autoritaria data l’eccessiva concentrazione di poteri nelle mani del capo dello Stato.

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L’on. Mortati sottolineava nella sua relazione come il presidenzialismo avesse dato buoni frutti negli Stati Uniti in quanto questi avevano una forma di Stato federale e quindi i governi e i parlamenti dei singoli stati membri bilanciavano il potere del presidente federale16. Si doveva aggiungere come il sistema partitico statunitense fosse

moderato e bipartitico e di conseguenza anche in caso di maggioranza parlamentare avversa al presidente direttamente eletto non si corresse il rischio di una crisi di sistema. La preoccupazione però riguardava anche l’esito opposto cioè il timore che una forma di governo parlamentare priva di elementi di stabilizzazione e di razionalizzazione potesse degenerare in assembleare per il prevalere del parlamentarismo sull’esecutivo. Il riferimento per i padri costituenti era il modello di forma di governo parlamentare inglese ma non dovevano nascondersi il fatto che il funzionamento di un modello astratto varia al variare delle condizioni e del contesto che doveva rappresentarsi con una elevata frammentazione partitica causata anche da una legge elettorale di tipo proporzionale.

Questo scenario aveva le sue origini nel sistema del 1919 alla nascita della legge elettorale proporzionale ed era chiaro allo stesso Mortati quando il 3 settembre 1946 affermò: “il funzionamento di questo regime è diverso là dove non sussistono le condizioni che esistono

in Inghilterra, specialmente dove si ha una molteplicità di partiti e manca la disciplina in seno a questi partiti. Dove non si hanno chiare designazioni da parte del corpo elettorale, la formazione del Governo è frutto di un complesso di accordi tra le varie correnti che si sono manifestate nelle elezioni e i Governi sono, per lo più, di coalizione e risentono di questa debolezza alla base; donde il danno della instabilità dell’indirizzo politico del Governo e la mutuabilità dei Ministeri. Quindi la scelta di un regime o

16 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

sottocommissione, Resoconti sommari, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma 1971, vol. n. 7, p. 917

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dell’altro è subordinata all’accertamento della esistenza di queste condizioni che possono farlo funzionare in un modo anziché in un altro”17.

Il dibattito rimase legato eccessivamente a questioni modellistiche, di ingegneria costituzionale, non riuscendo ad affrontare in termini di formulazione normative il tema delle relazioni tra forma di governo, sistema politico e sistema elettorale18. Al

problema della stabilità e della governabilità si tentò di dare una risposta sul piano dei meccanismi procedimentali relativi alle relazioni tra parlamento e governo.

Ma le soluzioni individuate appaiono modeste tanto che il testo definitivamente approvato è risultato sguarnito di “dispositivi costituzionali idonee a tutelare esigenze di stabilità dell’azione di Governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo” come era scritto nell’ordine del giorno Perassi19.

Tali soluzioni non si sono rivelati in grado di costituire un argine efficace, anche perché le crisi di governo sono state per lo più extraparlamentare (tranne due, quelle che hanno riguardato i governi Prodi I nel 1998 e Prodi II nel 2008, a cui si può aggiungere l’anomala crisi solo parzialmente parlamentare del governo Conte I nel 2019) e quindi si sono svolte secondo modalità non regolamentate espressamente dalla Costituzione.

I risultati conseguiti come il ricorso nominale in occasione delle votazioni sulla fiducia, il conferimento della fiducia sulla base di un’apposita mozione e il differimento di almeno tre giorni della votazione sulla mozione di sfiduci risultano essere conclusioni insufficienti e di scarsa portata.

17 La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, cit. 18 “dall’insieme del dibattito emergono tracce non marginali di astratto modellismo: da più d’uno sembra che ogni formula

vada riferita a un archetipo di sistema parlamentare da assumere a parametro. Ne risulta un confronto talora serrato, ma complessivamente rivolto al passato quanto agli obiettivi da perseguire(la stabilità) e agli strumenti per realizzarli” M.

Villone, Art. 94 della Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, Zanichelli, 1994, pag. 245.

19 “L’ordine del giorno Perassi, collocandosi sui due binari paralleli dell’accettazione del sistema parlamentare e del rifiuto

del parlamentarismo, sintetizza appunto – inconsapevolmente- i limiti di fondo che il dibattito non riesce a superare”

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In massima parte, al partito politico si fa riferimento rilevando che il multipartitismo è causa di instabilità e ingovernabilità. Al frazionamento delle forze politiche, che riflette la società, si è cercato di porre rimedio razionalizzando i rapporti tra l’organo rappresentativo - che riproduce quella frammentazione - e il potere esecutivo. Purtroppo questi rimedi si stanno rivelando inadeguati, perché volti ad un passato in cui la dialettica politica si svolgeva effettivamente e in modo assorbente nella sede istituzionale parlamentare.

Questo sistema non può nulla contro le crisi extraparlamentari originate dal venir meno del consenso, o tra partiti che reggono una coalizione di governo.

Eppure, esempi storici di rilievo- come l’esperienza di Weimar o quella Cecoslovacca tra le due guerre- potevano essere ben presenti al costituente, unitamente alla realtà già concrete dei nuovi partiti politici in Italia.

2.3 Il Presidente della Repubblica nella forma di governo parlamentare italiana 2.3.1 L’elezione del Presidente della Repubblica

Una volta compiuta la scelta in favore della forma di governo parlamentare con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi venne accantonata l’opzione presidenzialista: i lavori si concentrarono sul tipo di regime parlamentare da tracciare. Quanto alla figura e al ruolo del presidente della Repubblica, esclusa la possibilità di prevederne l’elezione diretta, la discussione si concentrò sulle modalità della sua elezione, sulla durata del mandato e sui suoi poteri. Un interessante dibattito su questi aspetti si svolse nella prima sezione della seconda sottocommissione. La questione relativa al tipo di elezione venne messa in relazione all’estensione dei poteri e soprattutto in relazione al loro esercizio sul piano della effettività.

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Mortati, premessa la necessità di commisurare i poteri presidenziali alle modalità di elezione, affermò l’opportunità che il presidente della repubblica perseguisse obiettivi non di partito ma neutrali e quindi dovessero adottarsi modalità di elezione che valessero a distaccarlo dai movimenti politici come tali e renderlo nei limiti del possibile imparziale20.

Scartata la proposta sostenuta dalla Democrazia Cristiana di prevedere una camera delle professioni non era possibile affidare l’elezione del presidente al solo collegio parlamentare perché in tal caso sarebbe stato non solo prigioniero delle camere ma condizionato dai partiti.

La soluzione suggerita da Mortati era l’elezione da parte di uno speciale collegio in cui non intervenisse l’Assemblea Nazionale nel suo complesso ma solo alcuni elementi eletti nel suo seno e altri eletti da altri organi: un Collegio formato da elementi

che fossero espressione di diverse forze sociali.

Da parte comunista si mostrava scetticismo rispetto alla posizione di definire il presidente della Repubblica come soggetto imparziale. Questo atteggiamento diffidente traspare chiaramente dalle parole del presidente Terracini il quale osservò che l’aspirazione di spoliticizzare la figura del Presidente “è una meta che non sarà mai raggiunta

perché impensabile l’esistenza di un Presidente della Repubblica che, quanto meno come orientamento, non rappresenti una posizione di partito”21.

La soluzione proposta da Mortati del resto era osteggiata dai comunisti e da altre forze politiche presenti in assemblea costituente come i socialisti, in quanto appariva come un tentativo di recuperare quella camera delle professioni che era già stata bocciata durante il dibattito sulla composizione delle camere. La posizione

20 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

sottocommissione, Resoconti sommari, cit. Il riferimento è alla prima seduta, 19 dicembre 1946.

21 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

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prevalente nel gruppo comunista era quindi quella dell’elezione parlamentare pura e semplice. Si trattava di una soluzione conforme alla preferenza per un regime sostanzialmente assemblearista: in tale ottica il capo dello Stato avrebbe dovuto sottomettersi alla volontà dei parlamentari o dimettersi. A difendere questa concezione dalle critiche di Mortati e di altri deputati fu lo stesso Terracini che illustrandola rivelò:

“le camere eleggono il presidente il quale ne sarà tanto prigioniero quanto lo è un deputato nei confronti dei suoi elettori; dovrà rispondere verso chi lo elegge ma nei limiti nei quali il suo mandato si esercita. Dipenderà da lui il saper svolgere le proprie funzioni in modo corrispondente all’attesa di coloro che lo hanno eletto; e se non lo farà e sorgerà conflitto, vi sarà la Costituzione che stabilirà i mezzi per risolverlo”22.

La proposta di Mortati rispondeva alla visione e alle aspirazioni dei deputati della Democrazia Cristiana ma ormai appariva politicamente estrema in quanto avversata nettamente dai comunisti. Occorreva una soluzione di compromesso che fu proposta in rappresentanza della Dc, dall’on Tosato, e poi accolta nell’art.1 del progetto del comitato: “l’elezione del presidente a scrutinio segreto da parte dell’assemblea nazionale con la

partecipazione dei presidenti delle assemblee e delle deputazioni regionali a maggioranza dei due terzi dei componenti nei primi tre scrutini e a maggioranza assoluta nei successivi”23.

L’intenzione di Tosato rispondeva da una parte all’esigenza di allargare il collegio elettorale per svincolare il più possibile il presidente della Repubblica dai possibili condizionamenti dei gruppi parlamentari e quindi dei partiti, in più all’esigenza di legare maggiormente le regioni allo Stato nella considerazione che essendo lo Stato unitario trasformato in uno Stato a base regionale fosse giusto far partecipare gli esponenti delle regioni all’elezione del presidente della Repubblica.

22 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

sottocommissione, Resoconti sommari, cit. Il riferimento è alla prima seduta, 19 dicembre 1946.

23 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

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La discussione sull’elezione evidenziò le diverse concezioni sulle figure e sul ruolo del presidente presenti nella prima sezione della seconda commissione che rifletteva gli orientamenti dell’intera assemblea, tuttavia non approdò a risultati concreti, in quanto la proposta del comunista La Rocca favorevole all’elezione parlamentare pura e quella di Tosato recepita nel primo comma dell’art. 1 del testo presentato dal comitato

registrarono gli stessi voti: cinque a favore e cinque contro.

Vennero invece approvati senza discussione sia il secondo comma che il terzo comma dell’art.1 presentato dal comitato, quelli relativi ai quorum di elezione.

Il nodo sulle modalità di elezione del capo dello Stato non venne sciolto neppure nel corso dei lavori del plenum della seconda sottocommissione. Si dovettero attendere i lavori dell’assemblea per giungere alla soluzione definitiva e precisamente la seduta del 22 ottobre del 1947 quando a seguito di una breve sospensione chiesta dal deputato comunista Laconi, sulla base di un ampio accordo, venne presentato un emendamento sottoscritto da autorevoli esponenti dei gruppi maggiori del seguente tenore “con la partecipazione di tre delegati per ogni consiglio regionale in modo che sia assicurata la

rappresentanza della minoranza”24.

Con alcune modifiche l’emendamento venne approvato e recepito nel testo definitivo dell’art.83 della Cost., secondo il quale “Il presidente della Repubblica è eletto dal

parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato. L’elezione del presidente della repubblica ha luogo per scrutinio segreto a

24 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

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maggioranza di due terzi dell’Assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta”25.

2.3.2 La durata della carica del Capo dello Stato

Il dibattito in merito alla durata del mandato ai poteri e più in generale al ruolo del presidente confermò le opposte visioni che si erano profilate in riferimento alle modalità di elezione e mise in risalto le interrelazioni tra le singole scelte.

La formulazione recepita nel testo venne sostenuta nel dibattito svoltosi nella prima sezione della seconda sottocommissione dai deputati democristiani e in particolare da Tosato che non riteneva opportuno escludere la rielezione espressamente né preveder la limitazione delle possibilità di rielezione a una sola volta, in quanto la prima soluzione avrebbe penalizzato il capo dello stato provvisorio, mentre la seconda avrebbe determinato un vincolo morale seppure tenue per il collegio elettorale che nel procedere alla elezione del presidente si sarebbe trovato davanti alla positiva possibilità di rieleggere il presidente cessante.

Critiche giunsero invece dalla sinistra. Il socialista Lami Starnuti definì accettabile la durata del settennato del mandato solo a condizione che fosse espressamente sancita la non rieleggibilità. L’autonomista Bordon sostenuto dal collega Lussu propose invece la riduzione del mandato a cinque anni. Proposta criticata dal democristiano Fuschini dal momento che in tal caso il senato, la cui durata era stata fissata in sei anni, si sarebbe trovato nelle condizioni di eleggere nella medesima composizione due successivi presidenti.

L’esito delle votazioni sancì un temporaneo compromesso tra le varie posizioni. Venne approvata la disposizione che fissava in sette anni la durata del mandato

25 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

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presidenziale ma anche l’emendamento aggiuntivo che dichiarava non rieleggibile il presidente; su quest’ultimo punto venne bocciata anche la proposta fatta dall’on. Fuschini di vietare la rielezione consecutiva ma di consentire una rielezione successiva. Duranti gli ulteriori lavori che si svolsero nel plenum della seconda sottocommissione e nell’assemblea il divieto di rielezione venne cancellato.

Il testo dell’art.85 definitivamente licenziato dall’assemblea costituente infatti recita “Il presidente della repubblica è eletto per sette anni. Trenta giorni prima che scada il termine il

presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento della Repubblica. Se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione ha luogo entro 15 giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente della Repubblica”.

In merito alle incompatibilità duranti i lavori della prima sezione della seconda sottocommissione si stabilì in modo definitivo che la carica fosse incompatibile con qualsiasi altra carica, privata o pubblica.

L’on. Nobile ripropose la soluzione, già bocciata nella seduta precedente, di introdurre un consiglio supremo della Repubblica: un organo collegiale sul modello del presidium sovietico con funzioni consultive e di supplenza.

Si trattava di un ulteriore tentativo di vincolare il presidente della Repubblica alla volontà dei partiti – retoricamente mascherata dietro gli interessi del popolo – depotenziando un organo monocratico verso il quale si manifestava una forte diffidenza dei comunisti i quali memori del più recente passato manifestavano il timore di involuzione autoritaria. Anche questa proposta venne bocciata dopo ampia discussione. In particolare Tosato rilevò che sia che si fosse trattato di un organo puramente consultivo sia che dovesse dare pareri vincolanti il Consiglio Supremo sarebbe diventato un organo giuridicamente e politicamente vincolante. E allora non

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essendovi più a Capo dello Stato un presidente ma un collegio ciò avrebbe significato abbandonare la forma di governo adottata per orientarsi verso una forma di governo direttoriale26.

Alcune proposte contenute nel progetto del comitato non trovarono sostegno nella prima sezione e vennero abbandonate così avvenne a esempio per la facoltà riconosciuta al presidente dall’art.15 del progetto di presiedere il consiglio dei ministri.

La disposizione infatti venne ritenuta a seconda delle interpretazioni inutile o addirittura in contrasto con il profilo neutrale del presidente27.

Altre parti del progetto invece vennero approvate senza discussioni: il capo dello Stato rappresenta l’unità nazionale; nessun atto del presidente della Repubblica è valido se non controfirmato dal primo ministro e dai ministri competenti che ne assumono la responsabilità.

2.3.3 Il Presidente nella formazione del governo e nello scioglimento delle Camere

Nella prima sezione quando si arrivò a discutere della formazione del governo e del

potere di scioglimento delle camere parlamentari.

Sul primo punto l’art.19 del progetto elaborato dal comitato prevedeva “Il primo ministro è nominato e revocato dal presidente della Repubblica”. Il comunista Nobile propose un emendamento sostituivo del seguente tenore “Il primo ministro è

26 “E allora, non essendovi più a Capo dello Stato un Presidente, ma un Collegio, ciò significherebbe abbandonare la forma

di Governo adottata per orientarsi, se mai, verso una forma di governo direttoriale svizzera”. Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, Resoconti sommari, cit.

Il riferimento è alla seduta del19 dicembre 1946.

27 Nel corso del dibattito, lo stesso Terracini, contrario come Mortati alla disposizione, ne rilevò

l’inutilità, e ne segnalò il contrasto con l’art. 17 del Progetto “perché se il Presidente, partecipando alla

discussione, interviene nelle deliberazioni – anche senza votare- argomentando e influendo sulle convinzioni di coloro che debbono deliberare, assume necessariamente delle responsabilità” Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, Resoconti sommari, cit. Il riferimento è alla

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nominato dal presidente della repubblica su designazione dell’assemblea nazionale”. Si trattava

dell’ennesimo tentativo di caratterizzare in senso assembleare la forma di governo ponendo dei vincoli parlamentari stringenti ai poteri del capo dello Stato.

La proposta trovò il consenso del repubblicano Zuccarini il quale rilevò che in tale ipotesi sarebbero state più elevate le probabilità che il presidente scegliesse come primo ministro una personalità in grado di raccogliere ampi consensi in parlamento.

Per motivi esattamente opposti la proposta venne criticata da Einaudi, secondo il quale, in tal caso, il parlamento non avrebbe scelto l’uomo migliore ma nella maggior parte dei casi colui che avrebbe incontrato minori ostilità e minori opposizioni da parte dei componenti dell’Assemblea stessa con grave danno degli interessi del Paese.

Facendo seguito ai vari interventi in specie alle critiche di Tosato che denunciò nella proposta formulata da Nobile uno sviamento rispetto alla scelta in favore del governo parlamentare operata dalla seconda sottocommissione con l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi, il deputato comunista La Rocca propose che fossero espressamente previste nel testo costituzionale le consultazioni affermatasi nella prassi e divenute oramai vere e proprie consuetudini al fine di evitare il pericolo che il capo dello Stato potesse procedere alla nomina secondo criteri personali.

Infine dopo lunga discussione e la formulazione di varie altre proposte venne accolta una proposta di Mortati che pur facendo cenno alle consultazioni metteva l’accento sul ruolo del primo ministro disponendo: “Il presidente della Repubblica effettuale le

normali consultazioni nomina il primo ministro. Su proposta di questo procede alla nomina Ministri”.

Successivamente nel corso dei lavori svoltisi nel plenum della seconda sottocommissione e nell’assemblea il riferimento alle consultazioni venne espunto.

Per il resto dell’art. 92 secondo comma della Costituzione poi definitivamente approvato dall’assemblea non differisce di molto da quello proposta da Mortati salvo la

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sostituzione della formula Primo Ministro con Presidente del Consiglio infatti secondo tale formazione “il presidente della Repubblica nomina il presidente del consiglio dei ministri e su

proposta di questo i ministri”.

In riferimento allo scioglimento delle camere parlamentari previsto dall’art.14 del progetto elaborato dal comitato, il confronto non fu meno intenso di quello sviluppatasi circa la formazione del governo. Vi fu da parte dei comunisti una serie di tentativi di porre limiti al potere di scioglimento al fine di spostare l’asse della decisione politica in favore del parlamento. Il più significativo di tali tentativi può esser identificato nell’emendamento presentato nel corso dei lavori della prima sezione della seconda sottocommissione da Nobili e che traduceva con marginali modifiche l’art. 51 della Costituzione Francese. La formulazione dell’emendamento era la seguente “Se nel

corso di un medesimo periodo di dieci mesi abbiano avuto luogo due crisi ministeriali in seguito a voto di sfiducia dell’Assemblea nazionale o di una delle due Camere, queste potranno esser sciolte con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei Ministri”28.

L’emendamento era appoggiato dall’intero gruppo comunista. A sostegno intervenne la Rocca che rilevò “La facoltà delle Camere di autosciogliersi e lo scioglimento

automatico qualora si verifichino determinate situazioni risolverebbero tutte le ipotesi esclusa quella di un conflitto tra Parlamento e Paese e metterebbero il Parlamento di fronte alle proprie responsabilità. Riservando invece al presidente della Repubblica la facoltà dello scioglimento dopo che si siano verificate due crisi governative in un tempo che potrà esser determinato, si dà al Presidente della Repubblica un’arma che egli non potrà maneggiare a suo arbitrio”29.

28 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

sottocommissione, Resoconti sommari, cit. Il riferimento è alla seduta del 13 gennaio 1947.

29 Cfr. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’assemblea Costituente, Seconda

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