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Per un inquadramento generale tipologie di relazioni intergovernative e teoria del federalismo fiscale

M. V Serranò, I limiti dei tributi regionali e l'articolo 23 della Costituzione, in Diritto e pratica

1. Per un inquadramento generale tipologie di relazioni intergovernative e teoria del federalismo fiscale

La teoria economica del federalismo fiscale si occupa dello studio dell’ottima allocazione di funzioni e risorse tra diversi livelli di governo e può quindi offrire dei suggerimenti per quello che concerne il regionalismo asimmetrico. È utile partire da uno schema concettuale dei sistemi di governo regionale e locale. Essi si collocano all’interno di due modelli polari di relazioni intergovernative in un assetto a tre livelli (Stato-Regioni-Enti locali): il modello regionale- centralizzato classico e il modello federale classico. Le loro caratteristiche principali sono descritte nello schema grafico contenuto nella Figura 1 riconducibile alle riflessioni di uno scienziato politico, Deil S. Wright, che si è molto occupato di pubblica amministrazione e di relazioni tra livelli di governo nel sistema federale statunitense2. Nel caso del sistema regionale centralizzato classico all’estrema destra della figura Regioni ed Enti locali hanno uno spazio di autonomia pressoché inesistente e le loro competenze sono assegnate dal governo centrale sulla base di rigidi indirizzi e sottoposte a un suo controllo che può portare ad una loro riduzione o soppressione. Regioni ed Enti locali non hanno sovrapposizione di competenze e non interferiscono nella reciproca attività. Lo schema all’estrema sinistra della figura corrisponde

invece al modello federale classico di tipo “duale”: Governo federale e Stati (Regioni) dispongono di competenze autonome garantite dalla Costituzione e il rispetto della linea di tangenza per evitare invasioni reciproche è garantito da una Corte Costituzionale. Gli Enti locali sono completamente dipendenti dagli Stati (Regioni), senza interferenze del governo federale, tanto che sono stati anche definiti come “creature degli Stati”. Questi due modelli polari rappresentano i punti estremi (probabilmente mai raggiunti) rispetto ad una serie di configurazioni istituzionali intermedie in cui possiamo trovare tutti gli stati contemporanei, di tipo federale e non, e che si caratterizza per il fatto che “tutti fanno un po’ di tutto”. Lo schema intermedio della figura 1 ( interdipendenza tra livelli di governo) risulta inevitabilmente quello dominante. In esso Governo centrale, Stati (Regioni) ed enti locali presentano insieme spazi autonomi e sovrapposizioni di competenze. I governi nazionali e locali, cioè, non agiscono sulla base di competenze rigidamente e precisamente attribuite, ma operano in un contesto di interferenze reciproche che li rendono mutualmente dipendenti per almeno due ordini di motivi.

In primo luogo, anche ammettendo che si possano attribuire materie esclusive ai vari governi esiste comunque una interdipendenza tra le materie che rende necessaria qualche forma di coordinamento (si è parlato di smaterializzazione delle materie). Ad esempio, guardando all’Italia, se allo Stato fossero attribuite completamente le competenze in materia di politiche industriali e alle Regioni quelle in materia di politiche ambientali resterebbero notevoli interferenze e sovrapposizioni nell’attività dei due livelli di governo. Lo stesso discorso si potrebbe fare qualora si attribuissero le competenze in materia di ricerca scientifica allo Stato sapendo la rilevanza che questa riveste all’interno delle politiche di tutela della salute, attualmente uno dei compiti più rilevanti delle Regioni. Del resto giuristi come Livio Paladin e Massimo Severo Giannini avevano già parlato delle materie come “pagine bianche” e del “groviglio delle materie”.

In secondo luogo, esiste uno spazio di intervento per più di un livello di governo all'interno di una stessa materia (legislazione, programmazione, amministrazione e gestione). Non è forse una interdipendenza il fatto che nelle funzioni concorrenti lo Stato deve definire i principi generali delle materie (art.117, co. 3, Cost.)? Oppure le competenze esclusive statali di tipo trasversale previste dall’art.117 co. 2 della Costituzione – quali la garanzia della fornitura dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali per tutta la popolazione, la tutela dell’ambiente, la tutela della concorrenza e l’ordinamento civile – non vengono ad incidere su altre materie non solo di competenza concorrente ma anche residuale (esclusiva) regionale? Vi può quindi essere una pesante inframmettenza del centro anche rispetto a competenze chiaramente allocate nella periferia e ciò ha determinato un meccanismo di concorrenza istituzionale che genera equilibri instabili tra i governi. La richiesta delle competenze differenziate da parte delle Regioni a fronte delle resistenze del governo centrale ricalca proprio un processo di questo tipo teso a ridisegnare i confini delle reciproche attribuzioni, anche se solo per le Regioni che lo richiedono. Chiaramente un sistema di questo tipo determina l’esigenza di coordinamento e negoziazione tra livelli di governo al fine di una gestione efficace delle diverse politiche in cui essi intervengono. Una lista di parole guida correnti nel dibattito istituzionale sulle relazioni intergovernative è riportata al centro della figura 1 (intreccio di materie, sovrapposizione di competenze, pluralità di interessi, materie trasversali, coordinamento, negoziazione, leale cooperazione) e tra esse va richiamato soprattutto il termine “negoziazione” che è ormai il cardine delle politiche pubbliche intergovernative che vengono regolate da varie formule contrattuali (intese, accordi, ecc.).

In conclusione, i governi subnazionali si trovano nello stesso tempo in una situazione di dipendenza dal centro, godono di spazi riservati di autonomia, cooperano e competono. La combinazione di tali ingredienti varia nei diversi Paesi a seconda del settore di intervento, dello spazio geografico o del periodo storico e sarà più o meno sbilanciata a favore del governo centrale o di quelli subnazionali.

Ai nostri fini quello che rileva è che questo modello delle competenze condivise ha generato l’esigenza di tre nuove soluzioni istituzionali, spesso utilizzate contemporaneamente: (i) strumenti istituzionali di coordinamento tra livelli di governo, come le conferenze generali e i comitati settoriali (modello definito anche come “federalismo dell’esecutivo”); (ii) negoziazione e contratti che portano ad intese; (iii) decentramento asimmetrico, ovvero una differenziazione nel grado di autonomia e nelle competenze e risorse assegnate ai governi subnazionali. Esso viene utilizzato soprattutto in società divise da un punto di vista culturale e/o economico, con minoranze concentrate in certi territori, spesso dotati di risorse naturali, con diverse domande di autonomia consentendo un decentramento a geometria e/o velocità variabile. Tra l’altro, in questa maniera si può portare avanti una politica di decentramento evitando un trasferimento generalizzato di competenze anche là dove non esiste una capacità amministrativa adeguata. In tale contesto, la teoria “classica” del federalismo fiscale giustifica il decentramento per motivi di efficienza allocativa. Il decentramento consente infatti di adeguarsi meglio alle preferenze locali per la fornitura di beni e servizi pubblici e per l’attività di regolazione dei diversi governi subnazionali rispetto ad un’offerta indifferenziata nazionale, accrescendo così il benessere collettivo. Ovviamente, ciò non richiede necessariamente un approccio asimmetrico, ma neppure lo esclude. Si può infatti assumere che in un sistema decentrato alcuni livelli inferiori di governo siano soddisfatti delle fornitura di beni e servizi pubblici da parte del governo centrale mentre altri vorrebbero gestirli direttamente in maniera diversa avendo preferenze differenziate e mutevoli nel tempo. In questo secondo caso i governi subnazionali dovrebbero vedersi riconosciuti poteri aggiuntivi, e questo spiega l’esigenza di quello che è stato definito come “menu federalism” 3. Certamente, però, resta il problema delle economie di scala nella gestione dei servizi che potrebbero essere perse nel caso del decentramento, così come quello del controllo delle esternalità negative, comportando oneri aggiuntivi che, a rigore, dovrebbero essere sostenuti dai governi subnazionali che richiedono le competenze. Ugualmente (e spesso ci si dimentica di questo aspetto), l’attribuzione differenziata di funzioni regolatorie potrebbe portare ad una eccessiva differenziazione regionale aumentando i costi per imprese e famiglie nonché quelli di coordinamento del governo centrale.

Ma vi è un altro aspetto da considerare legato ai complessi rapporti che esistono tra decentramento e crescita economica. È vero che il decentramento politico riflette valori e scelte di fondo per l’attuazione del principio democratico e non per il raggiungimento di obiettivi economici ma non vi è dubbio che una particolare configurazione del sistema di relazioni intergovernative condiziona il comportamento delle imprese, delle famiglie e degli stessi governi locali influenzando l’andamento economico complessivo di un Paese. La domanda da porsi è allora se il vantaggio in termini di efficienza allocativa del decentramento (in termini di

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Cfr. R.D. Congleton, A.Kyriacou, & J. Bacaria, A Theory of Menu Federalism: Decentralization by Political Agreement, in Constitutional Political Economy, 14, 2003 167 e s..

soddisfazione delle preferenze locali) richiamato in precedenza si traduce in un effetto positivo sulla crescita economica di un Paese riducendo anche i divari regionali al suo interno. In realtà, a questa domanda la letteratura economica di tipo empirico, utilizzando confronti tra Paesi diversi o tra regioni di un medesimo Paese, non offre una risposta univoca4. Una spiegazione plausibile per questa indeterminazione è riconducibile al fatto che il decentramento non può essere misurato unidimensionalmente ma assume caratteristiche pluridimensionali, difficili da “misurare”, che lo rendono in una certa quale misura specifico per ogni Paese (country specific) 5, per cui la ricetta finale è quella che il decentramento… va fatto bene. In definitiva, l’assenza di una relazione stabile tra decentramento e sviluppo non esclude che questa comunque esista anche se certamente è difficile da valutare . In tale contesto, quali sono gli effetti positivi sulla crescita che possono derivare da un decentramento asimmetrico? Innanzitutto, un processo di concorrenza verticale tra livelli di governo per l’attribuzione di funzioni in forma asimmetrica può garantire la verifica di chi tra il livello nazionale e regionale è più efficiente nel loro svolgimento in termini di rapporto costo/prestazioni, stimolando anche l’innovazione e la diffusione delle best practices. A fronte di questa esternalità positiva potrebbero emergere esternalità negative nel caso in cui l’attribuzione differenziata comporti politiche che vanno a scapito di interessi generali come, ad esempio, la tutela dell’ambiente o del patrimonio culturale. In secondo luogo, le Regioni più avanzate in termini di capacità istituzionale ed amministrativa potrebbero essere “liberate” nel percorso di decentramento, favorendo un positivo meccanismo di concorrenza orizzontale, oltre che verticale, tra livelli di governo, che favorisce la sperimentazione e l’innovazione. Infine, la maggiore crescita di tali Regioni dovrebbe garantire effetti economici positivi anche nelle altre, ma potrebbe anche rendere ancora più elevato il gap con le regioni in ritardo. L’asimmetria giustificata per ragioni di efficienza deve comunque essere resa compatibile con le esigenze di equità e le politiche perequative seguite nei diversi Paesi e sancite quasi sempre a livello costituzionale. La Tavola 1 riporta in forma sintetica una matrice dei possibili costi e benefici riconducibili ad un modello asimmetrico. Da un punto di vista economico le Regioni nelle loro richieste dovrebbero offrire una lista di motivazioni, corredate da evidenze empiriche, circa i possibili benefici dell’attribuzione asimmetrica (la colonna a sinistra) mentre le amministrazioni centrali per rifiutare il trasferimento dovrebbero fare la medesima operazione relativamente ai costi (la colonna a destra). Solo un saldo positivo giustificherebbe il trasferimento da un punto di vista economico. Sinora però non abbiamo visto analisi di questo tipo.

4 Su questo aspetto, anche per i richiami alla letteratura, si veda Regione Lombardia, Éupolis Lombardia, Regionalismo differenziato e risorse finanziarie, (G. Arachi, L. Salvadori), Policy paper per il Consiglio regionale della Lombardia, 2017, testo disponibile qui:

https://www.consiglio.regione.lombardia.it/wps/portal/crl/home/leggi-e-banche-dati/analisi-e-

ricerche/DettaglioApprofondimento/ricerche/istituzionale/regionalismo-differenziato-e-risorse-finanziarie

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La specificità dei modelli di decentramento esistenti nel mondo è richiamata in numerosi studi dell’OECD. Si vedano i più recenti: OECD, Multi-level Governance Reforms: Overview of OECD Country Experiences, Paris, 2017, testo disponibile al sito: https://www.oecd.org/publications/multi-level-governance-reforms- 9789264272866-en.htm; J. Kim, and S. Dougherty (eds.) Fiscal decentralization and Inclusive Growth, OECD

Fiscal Federalism Studies, Paris/KIPF, Seoul 2018, testo disponibile al sito: