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L’organizzazione regionale del trasferimento delle funzioni amministrative agli enti local

M. V Serranò, I limiti dei tributi regionali e l'articolo 23 della Costituzione, in Diritto e pratica

3. L’organizzazione regionale del trasferimento delle funzioni amministrative agli enti local

quelle attuali e ampliandole, a fronte del rafforzamento delle competenze regionali. Ciò al fine di evitare che vi sia un’eccessiva differenziazione delle competenze amministrative sul territorio nazionale; differenziazione che creerebbe disuguaglianze nell’erogazione di servizi.

Non bisogna trascurare, inoltre, che i sopra ricordati accordi preliminari hanno previsto un elenco di funzioni amministrative già attribuite dallo Stato alle Province e ai Comuni, da demandare alle Regioni a condizione che non rientrino tra le funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 117, c. 2, lett. p), Cost. Pertanto, nell’eventualità di nuovi accordi che si muovano in questa direzione, le Regioni saranno chiamate a scegliere un loro esercizio accentrato a livello regionale o un esercizio decentrato a livello locale.

3. L’organizzazione regionale del trasferimento delle funzioni amministrative agli enti

locali

L’implementazione di un percorso di differenziazione regionale imporrà altresì alle Regioni di rivedere i propri modelli organizzativi per l’esercizio delle funzioni amministrative. Trattandosi di funzioni che si riconnettono alla garanzia di diritti sarà opportuno che le Regioni individuino modelli organizzativi che gli consentano di offrire servizi più efficienti. Ciò anche sviluppando ulteriori spazi di differenziazione, al fine di rispondere alle esigenze delle singole realtà territoriali. In questo contesto, le Regioni, nel riorganizzare e differenziare i modelli organizzativi, dovranno: considerare maggiormente il livello di area vasta, valorizzando il ruolo strategico delle Città

metropolitane e delle Province, la cui disciplina, come si vedrà a breve, dovrà essere rivista; ridefinire gli ambiti ottimali per l’esercizio delle nuove funzioni, anche da parte dei Comuni e delle loro forme associative (le convenzioni, le unioni e le fusioni); implementare modelli organizzativi che in parte già esistono ma non sono stati adeguatamente potenziati (come, appunto, le unioni e fusioni di Comuni e l’esercizio associato di funzioni), prevedendo, ad esempio, forme di premialità che possono consistere nell’attribuzione di maggiori risorse o forme di agevolazioni e incentivi ai Comuni che decidono di cooperare; introdurre nuovi modelli organizzativi, attraverso la previsione di propri enti e agenzie strumentali, evitando però duplicazioni delle competenze. Al riguardo, appare significativo che gli accordi preliminari con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto abbiano previsto la potestà di tali Regioni: di disciplinare, con proprie leggi e regolamenti, l’organizzazione e lo svolgimento delle funzioni amministrative ad esse attribuite, anche attraverso propri enti e agenzie strumentali, e di stabilire, con proprie leggi, norme di principio relative all'organizzazione e allo svolgimento delle funzioni amministrative attribuite agli enti locali. Ciò nel rispetto delle norme statali che disciplinano i procedimenti attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni (di cui all'art. 117, c. 2, lett. m), Cost.).

Tuttavia, al fine di un trasferimento di nuove funzioni agli enti locali e di una maggiore differenziazione dei modelli organizzativi, andrebbero dapprima affrontati due aspetti problematici del nostro sistema delle autonomie: quello della competenza regionale a disciplinare i profili ordinamentali degli enti locali, da un lato, e quello di una ridefinizione della normativa di questi ultimi. Aspetti che, se non saranno affrontati preliminarmente all’avvio di un regionalismo differenziato, rischieranno di ostacolare la realizzazione di un sistema regionale delle autonomie locali, così come configurato dalla riforma costituzione del 2001.

3.1 Il problema della competenza regionale a definire i profili ordinamentali degli enti locali

L’attuazione del regionalismo differenziato potrebbe, in effetti, costituire una formidabile occasione per definire un sistema regionale delle autonomie locali: sistema in cui lo Stato è chiamato a esercitare la propria potestà esclusiva solo sulla legislazione elettorale, sugli organi di governo, sulle funzioni fondamentali degli enti locali (ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. p), Cost.) mentre per il resto la disciplina dell’ordinamento degli enti locali ― come quella relativa alla cooperazione intercomunale ― rientra nell’ambito della competenza legislativa (di dettaglio o residuale) regionale. Riparto delle competenze che però, com’è noto, ha subito, di fatto, un’alterazione, a favore di un forte accentramento statale, che ha peraltro trovato un avallo da parte della Corte costituzionale. Quest’ultima, se, in un primo momento, successivo alla riforma del Titolo V del 2001, aveva definito le Comunità montane e le unioni di Comuni come «altri enti locali» non coperti da garanzia costituzionale e, quindi come tali, ricompresi nella potestà legislativa residuale delle Regioni (Corte cost. nn. 229/2001, 244 e 456/2005, 397/2006, 237/2009), successivamente, ha attratto le unioni e alcuni profili relativi alle fusioni nella competenza esclusiva dello Stato. Emblematiche, in tal senso, sono: le sentt. n. 22 e 44 del 2014 che non hanno dichiarato l’incostituzionalità di alcune disposizioni del d.l. 78/2010 (come successivamente modificato dal d.l. 138/2011 e dal d.l. 95/2012) che disciplinavano in maniera dettagliata le unioni, introducendo l’obbligo della gestione associata per i Comuni con meno di 5.000 abitanti, ovvero 3.000 se di aree montane; la sent. n. 50/2015, in relazione alle disposizioni della cd. legge Delrio (l.

n. 56 del 2014), che ha ricondotto alla potestà legislativa dello Stato la disciplina delle unioni e alcuni profili relativi alle fusioni (in particolare, le c.d. fusioni per incorporazione).

L’implementazione di una maggiore differenziazione regionale potrebbe portare a una nuova lettura della Costituzione in merito alla competenza regionale a definire i profili ordinamentali degli enti locali. A tal proposito, appare significativo che gli accordi preliminari con le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto abbiano previsto “competenze complementari e accessorie riferite alla governance istituzionale” e competenze in materia di ordinamento locale. L’Emilia- Romagna e la Lombardia, in particolare, hanno voluto inserire le richieste di differenziazione in un’ottica di rinnovamento istituzionale non solo regionale ma anche locale. Inoltre, diverse Regioni (Umbria, Marche, Toscana e Piemonte) hanno chiesto maggiore autonomia in ordine alla definizione di innovativi modelli di governance istituzionale. Ciò induce a pensare che le Regioni, in sede di definizione di nuovi accordi, richiederanno maggiore autonomia in questo ambito materiale. Le Regioni potranno, quindi, arrivare a sperimentare diversi modelli di governance locale che coinvolgeranno, in maniera differente, le Città metropolitane, le Province, i Comuni e le loro forme associative.

Al contempo, il legislatore statale dovrà rivedere o confermare i profili ordinamentali degli enti locali e l’assetto delle funzioni fondamentali, ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. p), Cost. Ė evidente, tuttavia, che bisognerà trovare un equilibrio tra l’esigenza di garantire “caratteri comuni” agli enti locali, dal punto di vista dell’ordinamento e delle funzioni, e la necessità di differenziare la

governance locale.

3.2 La necessità di riforma dell’attuale disciplina del sistema delle autonomie

Prima di un trasferimento di nuove funzioni agli enti locali e di una differenziazione della

governance locale è altresì necessaria una riforma del sistema delle autonomie, sia del Testo Unico

degli enti locali sia della legge Delrio del 2014.

In generale, appare imprescindibile l’introduzione di una nuova normativa, più flessibile, in materia di ordinamento degli enti locali, al fine di consentire una maggiore differenziazione dei modelli di governance locale.

In particolare, poi, a seguito della mancata approvazione della riforma costituzionale “Renzi- Boschi”, è necessaria, anche a prescindere dalla realizzazione del regionalismo differenziato, una revisione della legge Delrio, che ha svuotato di poteri le Province, nella prospettiva di una loro definitiva soppressione. In quest’ottica, si sono operati tagli ai bilanci provinciali e si è avuta una legislazione regionale che, nella maggior parte dei casi, ha previsto un accentramento alle Regioni delle competenze prima svolte dalle Province. Tra le Regioni che hanno avanzato proposte di differenziazione: il Veneto, che inizialmente aveva confermato tutte le funzioni non fondamentali in capo alle Province, si è successivamente mosso nella direzione di un riaccentramento delle competenze in capo alla Regione; l’Emilia-Romagna ha previsto, con l.r. n. 13 del 2015, l’istituzione di aree vaste interprovinciali; la Lombardia, invece, con la l.r. n. 19 del 2015, ha istituito in tutta la Regione zone omogenee quali ambiti territoriali ottimali per l’esercizio di specifiche funzioni, conferite o confermate alle Province, con il concorso di Comuni, forme associative intercomunali o Comunità montane.

Il legislatore statale, dunque, a maggior ragione se fosse portato avanti il processo di differenziazione regionale, sarà chiamato ad ampliare e precisare le funzioni fondamentali delle Province e a ridare a esse una piena autonomia organizzativa e finanziaria. Per un verso, andrebbe previsto un finanziamento delle funzioni provinciali, attraverso entrate tributarie proprie, compartecipazioni a tributi erariali e un fondo perequativo, come previsto dall’art. 119 Cost., superando quelle disposizioni della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge di stabilità 2015) che sono incompatibili con il quadro costituzionale. Per altro verso, le Province dovrebbero tornare a essere il livello di governo ottimale di collegamento tra Comune e Regione e l’ente intermedio da privilegiare per l’esercizio delle funzioni fondamentali di area vasta, in capo alle quali attribuire le funzioni attualmente svolte dagli ATO o da altri organismi intermedi.

Ciò, comunque, in un quadro di rafforzamento dell’esercizio associato delle funzioni comunali da esercitarsi attraverso unioni, fusioni o convenzioni tra i Comuni.

Peraltro, la problematica della riforma del sistema delle autonomie era stata considerata dal primo Governo Conte: era stato infatti istituito un Tavolo tecnico-politico presso la Conferenza Stato-Città e autonomie locali, sulla base di quanto previsto dall’art. 1, c. 2-ter del d. l. 25 luglio 2018, n. 91, al fine di definire un percorso per la revisione organica della disciplina in materia di ordinamento delle Province e delle Città metropolitane. Successivamente, il Presidente Conte, nelle sue dichiarazioni programmatiche, nel ribadire la volontà del nuovo Governo a completare il processo verso un’autonomia differenziata, ha sottolineato la necessità di rivedere il Testo unico degli enti locali, nell’ottica, tra l’altro, di valorizzare i piccoli Comuni e sopprimere gli enti inutili.