1. Caratteristiche delle relazioni
1.8. Internalità o esternalità: una sinossi di alcune posizioni recenti
Le nozioni di relazione interna o esterna è correlata a quella di relazione necessaria e contingente. Non c’è però un accorto su cosa si possa intendere con ‘relazione interna’ né con ‘relazione esterna’. Questo paragrafo andrebbe letto dopo aver visionato i primi due paragrafi del cap. 3, perché ne è in qualche modo il prosieguo. Tuttavia, era necessario inserirlo qui, perché l’internalità è una delle caratteristiche delle relazioni. Anche se, ovviamente, le ‘relazioni interne’ possono anche essere un ‘tipo di relazioni’ (essendoci tuttavia molti tipi di relazioni interne, preferiamo considerare l’internalità come una caratteristica).
Russell ha sostenuto che, se non esistono relazioni esterne, tutto sarebbe interconnesso con tutto17: se ci sono solo relazioni interne ogni cosa assorbirebbe in sé l’intera realtà (Bonino, 2008). Questo vale nell’ipotesi in cui le relazioni esterne siano quelle accidentali, mentre quelle interne quelle necessarie. È esauriente questa distinzione? Oggi la discussione sui criteri per definire una relazione interna è piuttosto accesa, e sarebbe impossibile ripercorrerla per intero. Sarebbe anche – probabilmente – abbastanza inutile, dal momento che non c’è alcun accordo su cosa ‘relazione interna’ possa davvero significare. Come già Rorty
17 Se intendiamo con relazioni interne delle relazioni necessarie, ovviamente dire che tutte le
relazioni sono interne è un errore modale (riscontriamo anche relazioni accidentali). Vero è,
potrebbe obiettare un monista assoluto, che le relazioni accidentali sono accidentali solo illusoriamente: in realtà esse si ripetono infinite volte in un infinito tempo, cioè sono sempre reali ovunque ed eternamente: la nostra percezione locale le fa sembrare accidentali, ma se viste “dal punto di vista dell’infinito eterno” esse sono eternamente attuali.
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(2006) aveva sottolineato, le diverse posizioni in campo suggeriscono quanto il problema delle relazioni interne sia legato a un intero “gruppo” di problemi filosofici (la nozione di sostanza, il nominalismo, il realismo, come si identificano i particolari, la natura delle verità necessarie), e quindi «non è esagerato sostenere che le visioni di un filosofo sulle relazioni interne sono esse stesse internamente legate a tutte le sue visioni filosofiche»18. Per esempio, è chiaro per Rorty che buona parte dell’incomunicabilità tra Bradley e Russell (cf. cap. 3) sia dovuta al loro diverso rapporto col realismo, cioè con la visione di cosa significhi ‘conoscere la natura di un oggetto’. L’autore conclude sottolineando che, probabilmente, la scelta di una posizione è dovuta a un matter of taste: entrambe le visioni che egli ha analizzato sono parte di sistemi filosofici consistenti, ciascuno dei quali mantiene certe porzioni del nostro framework di senso comune, insistendo su di esse a scapito di altre. Tuttavia, basandosi sul ‘senso comune’, conclude, non si vede come avere una scelta razionale su tali sistemi. I tentativi di fornire degli accounts universalmente validi, comunque, non sono mancati, sebbene «diverse versioni della distinzione interne-esterne corrispondono a diverse spiegazioni su come sono stabilite le relazioni interne» (MacBride, 2016). Di queste numerose versioni ne possiamo richiamare alcune di fondamentali per orientarsi nel dibattito:
Moore (1919). Secondo Moore, una relazione R tra x e y è interna se e solo se lega i termini in modo necessario. Se x esiste, allora è in relazione con y. Se può venire meno la relazione, essa è esterna (cf. MacBride 2016). Moore è stato uno dei maggiori critici di Bradley poiché intende mantenere il common sense (1919, 51), il quale indica che alcune relazioni siano esterne (accidentali). In effetti sembra intuitivo che la relazione tra me e la sedia sia qualitativamente diversa da quella tra la mia anima e il mio corpo, o tra la mia pelle e il rosa. Ma un monista cerca proprio di mostrare che questa intuizione non regge alla prova della speculazione. In Moore osserviamo con chiarezza che l’esistenza delle relazioni esterne si basa sul presupposto atomista e realista, che un monista semplicemente rifiuta (cf. cap. 3). Tra l’altro, molte delle relazioni esterne individuate la Moore sembrano essere relazioni logiche, di ragione (quindi riducibili).
Armstrong (1978, 84-85; 1989, 43; 1997, 87-89). Secondo Armstrong – e con lui Inwagen (1993, 33-34) – una relazione è interna tra due entità se dipende dalle loro intrinseche nature, cioè da proprietà non relazionali. Le relazioni interne non apportano alcuna addition of being. Vedremo nel prossimo capitolo che, per questo autore, le relazioni esterne sono polyadic universals. Le relazioni interne sono meno chiare: sono qualcosa che ‘superviene’ dall’esistenza dei termini, e quindi non c’è aggiunta di essere (c’è una necessaria relazione interna di identità
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tra l’esistente e se stesso)19. Anche Lewis (1986a, 62; 1994, 294) ha sostenuto che le relazioni interne sono supervenienti alle nature intrinseche dei relata. Lowe (2012, 242; 2016) ha sostenuto che ‘relazione interna’ sia una costruzione linguistica che usiamo “come se” esistessero questi tipi di relazione, ma in realtà esistono solo verità relazionali rese vere da entità monadiche di un certo tipo. Non è il solo: per Heil (2009, 316-317; 2012, 144-146) le relazioni interne sono ‘assenti dall’ontologia fondamentale’, o semplicemente non esistono20. Abbiamo già visto che queste idee potrebbero essere condivise dai medievali. Le relazioni interne potrebbero essere definite trascendentali nell’accezione di ‘non-reali’. Un mondo costituito solo da relazioni necessarie – cioè un mondo governato dal paradigma ‘tutte le relazioni sono interne’ – è probabilmente senza relazioni, o quantomeno relazioni solo per analogia.
Secondo Lazerowitz (1967) l’affermazione ‘tutte le relazioni sono interne’ ha per conseguenza che ogni proposizione vera è necessariamente vera; ma ci sono due problemi in tale affermazione: (1) è una teoria che non può essere falsificata, una specie di tautologia come ‘tutte le relazioni sono relazioni’; (2) distrugge la nozione stessa di relazione, perché non rende più possibile distinguere i termini: dire che tutte le relazioni sono interne è un atto di annichilimento linguistico. Allo stesso modo in Hymers (1996) – che si ispira a Wittgenstein proprio come Lazerowitz – c’è una punta di pragmatismo nel definire le relazioni interne (ib., 611)21. Per Wittgenstein una proprietà è interna se è impensabile che il suo oggetto possa non possederla. È dunque appropriato parlare di relazioni interne solo quando i relata in questione sono concetti, o più generalmente ‘strumenti linguistici’: le relazioni interne ci sono solo tra termini che hanno un ruolo nel linguaggio. Hymers distingue quindi tre tipi di relazioni interne: (I) quando la comprensione di A presuppone la comprensione di B; (II) quando la comprensione di B presuppone la comprensione di A; (III) la
congiunzione delle due precedenti. Ad esempio, la relazione tra sostanza e accidenti è interna, ma è solo di ragione. Se le relazioni interne avvengono tra concetti, tuttavia, secondo l’autore, dobbiamo anche essere consapevoli che i concetti sono oggetti vaghi. Così le relazioni interne sono tra concetti perché questi ultimi sono strumenti del linguaggio, ma non esistono nella realtà.
19 Cf. Underwood, 2010.
20 Cf. Fisk 1972, 146-149; Campbell 1990, 99-101; Simons 2010, 204-205; 2014, 314-315.
Come sottolinea Simons (2010, 205), nel caso di una predicazione interna relazionale vera, non c’è bisogno di supporre l’esistenza di un truthmaker relazionale, in quanto ciò che rende vera la frase predicativa sono i relata o alcune delle loro proprietà essenziali che costituiscono la loro natura. Pertanto, generalmente, da un punto di vista ontologico, non esistono cose come le relazioni interne.
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Abbiamo già analizzato nel dettaglio la posizione di Mulligan (1998), secondo cui, nella sua prospettiva tropista nominalista, tutte le relazioni sono thin e interne, e nessuna è thick ed esterna (esistono solo predicati relazionali di questo tipo, ma sono riconducibili a relazioni thin). La sua posizione è stata recentemente ripresa, approfondita e modificata da Johansson (2014). Egli ritiene che ‘interne’ e ‘thin’ non siano sovrapponibili, e quindi di essere più coerente nel sostenere l’internalità di tutte le relazioni. Secondo Johansson, la nozione di ‘relazione interna’ usata dai contemporanei può essere divisa in due sotto-nozioni: strongly internal relation (quando a non può esistere senza b) e weakly internal relation (se a e b esistono entrambi, non può che esservi tra loro la relazione). ‘Più grande di’ è una relazione che appartiene alla seconda sotto-nozione. Mentre se esistono solo relazioni interne nel senso strong abbiamo un monismo ontologico (di Bradley), l’esistenza di relazioni interne weak rende possibile l’esistenza del pluralismo (di Mulligan). Per l’autore, tutte le strong internal relations sono thin relations, ma esistono anche thick internal relations (sono quelle istituite tra universali, che Johansson ritiene esistenti) e thin external relations (sono le relazioni spaziali).
La definizione di cosa sia una relazione interna s’intreccia inevitabilmente con la disputa relativa alla distinzione tra proprietà intrinseche ed estrinseche. Viste le numerose proposte per cogliere appropriatamente questa distinzione, le loro problematiche e il disaccordo su di esse (Weatherson & Marshall 2017), c’è un certo scetticismo sull’effettiva possibilità di definire quando una proprietà sia realmente intrinseca. Qualcuno ha decretato tale indagine addirittura come ‘morta’, per altri (Hoffmann-Kolss, 2013) è invece solo all’inizio. Riprendiamo quindi solo alcuni nodi. Il modo più comune per intendere una proprietà estrinseca è che essa sia una proprietà relazionale22. Una definizione intuitiva di proprietà intrinseca, invece, è che essa sia una proprietà istanziata da un soggetto indipendentemente dal contesto (l’insieme dei worldmates). Il problema di questa intuizione è che spesso non è facile definire quanto il contesto possa influenzare. Ad esempio, una massa (proprietà naturale, apparentemente intrinseca) può variare in diversi contesti fisici, e così anche una forma geometrica.
Tenute in disparte le proprietà necessarie di tutti gli enti (quelle che una volta erano dette trascendentali) abbiamo almeno due sfumature per l’intrinsecità: 1. una proprietà è intrinseca se appartiene all’oggetto indipendentemente dal contesto, ma non è necessaria per l’oggetto; 2. è intrinseca quando è necessaria all’oggetto (proprietà essenziale). Intrinseco non è essenziale, dunque, secondo Hoffmann-Kolss. Ci sono proprietà intrinseche essenziali, ma anche proprietà intrinseche non-essenziali. Alcuni esempi: avere una certa massa = intrinseca proprietà accidentale; essere in quella stanza = estrinseca proprietà accidentale;
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essere spazialmente esteso = intrinseca proprietà essenziale; avere un antenato = estrinseca proprietà essenziale. Per conseguenza, una relazione sarà estrinseca se riconosciamo una proprietà estrinseca, ma non tutte le relazioni interne sono anche intrinseche. Una relazione è interna in senso debole se corrisponde a una proprietà intrinseca non-essenziale, è interna in senso forte se corrisponde a una proprietà essenziale (che l’oggetto non può non avere). Questo perché intrinseco non è essenziale, e interno non è solo intrinseco. Tutte le relazioni interne sono intrinseche, ma non è detto che siano essenziali. Il punto irrisolto è che, per distinguere intrinseche da estrinseche, dobbiamo prima avere una nozione dell’oggetto a cui ci riferiamo, sapendo già quali proprietà un individuo può perdere (e in quali contesti) per definire quali non siano intrinseche. C’è quindi un notevole fattore convenzionalistico: quando decidiamo se la massa sia intrinseca-accidentale, ad esempio, dobbiamo già avere una certa nozione di massa.
Senza pretendere dunque di risolvere una questione tanto complicata e dibattuta – che in fondo ha a che fare con l’intera opzione metafisica che un pensatore abbraccia – riteniamo intrinseca una caratteristica naturale della cosa, cioè quella che appartiene alla sua definizione in un dato contesto, e per la scelta (scientificamente orientata) dell’osservatore. Il caso ‘razionalità’ e ‘uomo’ è emblematico: si assume ‘uomo’ come un’entità di un modello ideale (più che ‘isolato’) e si definiscono l’insieme di caratteristiche per cui un uomo è un uomo, e tutte le eccezioni (le circostanze) in cui tale nozione può essere adattata al contesto. Per quanto riguarda le entità fondamentali, nel cap. 5 ipotizzeremo che le loro qualità intrinseche siano i trascendentali.