(Luigi Cuomo)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I nuovi diritti nell’epoca della rete globale. - 3. - Le questioni processuali.
1. Premessa. - La Suprema Corte, prendendo atto della espansione dei nuovi
modelli informativi e delle potenzialità comunicative della rete Internet, è intervenuta con diverse pronunce a regolamentare il settore del web, che si connota per l’accesso facilitato a risorse elettroniche e a piattaforme di condivisione di informazioni anche da dispositivi mobili, con evidenti riflessi sull’individuazione dei responsabili di eventuali condotte criminose e sui criteri di determinazione della competenza territoriale.
2. I nuovi diritti nell’epoca della rete globale. - In una delle decisioni più
importanti, originata da un episodio di cyberbullismo, la Suprema Corte ha esaminato la responsabilità dell’Internet Hosting Provider per i contenuti multimediali caricati su piattaforme digitali alimentate dagli utenti (come ad esempio Google-video, You-tube o gli stessi Social-Network), affermando il principio secondo il quale l’operatore che professionalmente mette a disposizione uno “spazio web” perché gli altri vi pubblichino dei video, non può considerarsi titolare del trattamento dei dati personali contenuti nel materiale caricato online dagli utenti e, di conseguenza, non può ritenersi obbligato ad alcun adempimento a tutela della privacy dei terzi.
La Terza Sezione, con la sentenza 17 dicembre 2013, Drummond, n. 5107/2014,
Rv. 258520, ha affermato che «non è configurabile il reato di trattamento illecito di dati personali a carico degli amministratori e dei responsabili di una società fornitrice di servizi di Internet hosting provider che memorizza e rende accessibile a
terzi un video contenente dati sensibili (nella specie, un disabile ingiuriato e schernito dai compagni in relazione alle sue condizioni), omettendo di informare l'utente che immette il file sul sito dell'obbligo di rispettare la legislazione sul trattamento dei dati personali, qualora il contenuto multimediale sia rimosso immediatamente dopo le segnalazioni di altrui utenti e la richiesta della polizia. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che l'attività svolta dal provider, anche secondo quanto dispone il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, consiste nell'offrire una piattaforma sulla quale i destinatari del servizio possono liberamente caricare i loro video senza che il gestore abbia alcun potere decisionale sui dati sensibili in essi inclusi, e, quindi, possa essere considerato titolare del trattamento degli stessi, finché non abbia l'effettiva conoscenza della loro illiceità, non incombendo a suo carico un obbligo generale di sorveglianza, di ricerca dei contenuti illeciti o di avvertimento della necessità di rispettare la disciplina sulla privacy)».
Alcuni importanti principi sono stati affermati dalla Suprema Corte nel settore dei
social network e delle reti sociali, che costituiscono uno dei fenomeni più
emblematici dell'impatto di Internet sulle relazioni interpersonali tra soggetti di ogni età, professione, estrazione sociale e, in particolar modo, tra i giovani, che ha determinato notevoli cambiamenti dei modi di comunicazione e diffusione delle idee e delle informazioni, dei tempi e contenuti del confronto generale, del costume e dei comportamenti collettivi o individuali.
In particolar modo, nella casistica giurisprudenziale della Suprema Corte si registra l’incremento dell’uso della rete sociale denominata Facebook per la commissione di furti di identità o di diffamazioni virtuali: il problema della tutela dell’identità personale sulla rete Internet si è posto prepotentemente atteso che, con il numero di utenti in costante aumento, sono cresciuti anche gli attacchi informatici volti a carpire l’identità altrui con possibilità di impiego illecito e, in particolare, per finalità patrimoniali, emulative o diffamatorie.
Sul tema, la Terza Sezione, con sentenza 23 aprile 2014, Sarlo, n. 25774, Rv.
259303, ha affermato che «integra il delitto di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) la condotta di colui che crea ed utilizza un "profilo" su social network,
utilizzando abusivamente l'immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un nickname di fantasia ed a caratteristiche personali negative (In motivazione, la Corte ha osservato che la descrizione di un profilo poco lusinghiero sul social network evidenzia sia il fine di vantaggio, consistente nell'agevolazione delle comunicazioni e degli scambi di contenuti in rete, sia il fine di danno per il terzo, di cui è abusivamente utilizzata l'immagine)».
Nel solco delle decisioni che ammettono la configurabilità del reato di diffamazione telematica, la Prima Sezione, con sentenza 22 gennaio 2014, Sarlo, n. 16712, non massimata, ha riconosciuto la punibilità degli insulti in forma anonima su Facebook, in quanto «ai fini della integrazione della fattispecie e sufficiente che il soggetto la cui reputazione e stata lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa».
Nel settore della tutela del diritto d’autore, la Terza Sezione, con sentenza 9
gennaio 2014, Scotto, n. 6988, Rv. 258933, ha chiarito che «la detenzione di
programmi per elaboratore elettronico abusivamente duplicati dagli originali da parte di soggetto esercente professionalmente l'attività di assistenza in campo informatico può integrare il reato previsto dall'art. 171-bis, comma primo, della legge 22 aprile 1941, n. 633, poiché la finalità di commercio della detenzione medesima non deve essere valutata esclusivamente con riguardo alla vendita diretta dei programmi, ma anche alla installazione dei medesimi sugli apparecchi affidati in assistenza e, più in generale, alla loro utilizzazione in favore dei clienti». Per quanto riguarda i reati contro il patrimonio, va segnalato il pronunciamento
della Quinta Sezione, che, con sentenza 12 novembre 2013, Gargiulo, n. 654, Rv.
257957, ha affermato che «integra il reato di truffa l'alterazione di un documento informatico preordinata a simulare l'esistenza di un credito di imposta così da conseguire l'ingiusto profitto derivante dalla riduzione dell'imposta effettivamente dovuta; né, ai fini della consumazione del reato, è necessaria l'emissione della cartella esattoriale riportante l'indebita compensazione, in quanto, in tal caso, il delitto di truffa si consuma con l'alterazione del documento informatico, considerato che l'informatizzazione delle procedure tributarie attribuisce
immediata efficacia all'iscrizione nel sistema informatico della situazione debitoria del contribuente, nel senso che ad essa occorre aver riguardo ai fini dell'illecito arricchimento del contribuente e del correlativo depauperamento del patrimonio dell'amministrazione conseguito all'eliminazione del debito tributario».
In altra decisione, la Suprema Corte ha esaminato la questione relativa alla possibilità di attribuire ad un impiegato comunale, addetto all’inserimento di pratiche nel sistema informativo e sul portale elettronico di un ente pubblico, la qualità di incaricato di pubblico servizio.
Al riguardo, la Sesta Sezione ha affermato che «non riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio il dipendente comunale preposto ad inserire, nel sito Internet del Comune, le pratiche edilizie già esaminate ed istruite dai funzionari addetti al settore, trattandosi dell'esercizio di una attività meramente esecutiva che esclude il possesso di specifiche competenze tecniche o informatiche, nonché priva del carattere dell'autonomia e della discrezionalità tipiche delle mansioni di concetto
(Sez. VI, sentenza 22 maggio 2014, Artuso, n. 33845, Rv. 260174).
In materia di falsità documentali, inoltre, è stato affermato che «integra gli estremi del delitto previsto dall'art. 469 cod. pen. la riproduzione, mediante un programma informatico, dell'impronta dell'ufficio postale su una falsa ricevuta attestante l'avvenuto pagamento relativo ad una imposizione tributaria» (Sez. V, sentenza 16
gennaio 2014, Zammarano, n. 6352, Rv. 258885).
Un ulteriore interessante contributo è stato offerto dalla giurisprudenza di legittimità in una materia del tutto nuova, che riguarda l’eccessiva dipendenza da Internet e la sua influenza sui processi cognitivi e di elaborazione mentale dell’utente.
Tale dipendenza, denominata Internet Addiction Disorder, è una condizione psicologica che si connota per un accentuato ed insistente bisogno di connettersi al Web, che determina una alterazione del comportamento che ingenera nella vittima, a seguito di un uso compulsivo del computer, l’esasperata e incontrollata ricerca di contatti o relazioni virtuali.
La Suprema Corte, quindi, è stata chiamata a pronunciarsi sulla incidenza di tale “dipendenza” da Internet o dalla tecnologia sulla capacità di intendere e volere e, quindi, sull’imputabilità di un soggetto responsabile della detenzione e della divulgazione di un ingente quantitativo di materiale pedopornografico.
In argomento, la Terza Sezione, con sentenza 20 novembre 2013, D., n.
1161/2014, Rv. 257923, ha affermato che «ai fini del riconoscimento del vizio
totale o parziale di mente, acquistano rilievo solo quei "disturbi della personalità" che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale».
Sulla base di tali presupposti la Suprema Corte ha escluso la rilevanza del disturbo derivante dalla “dipendenza da Internet”, perché si tratta non solo di un quadro sintomatico non ancora compiutamente classificabile, ma soprattutto perché l’incidenza dei turbamenti psichici sulle facoltà mentali è priva dei prescritti connotati di gravità.
In materia di trattamento illecito dei dati personali, la Suprema Corte ha riconosciuto la illiceità penale di una banca-dati, contenente informazioni di particolare interesse investigativo (tra cui dati anagrafici, relazioni di parentela e societarie, dati di traffico telefonico, elenco degli intestatari di utenze, rubriche ed altro), abusivamente formata attraverso la conservazione e l’incrocio di dati personali acquisiti da un ausiliario in virtù del pregresso espletamento dell’incarico di consulente tecnico per conto dell’autorità giudiziaria.
La Sesta Sezione, con sentenza 12 febbraio 2014, Genchi, n. 10618, Rv. 259781,
ha ritenuto configurabile «il reato di cui all'art. 167 D.Lgs. n. 196 del 2003 nella condotta di chi, acquisiti nel tempo innumerevoli dati personali relativi anche al traffico telefonico, in conseguenza dell'attività svolta come consulente tecnico del pubblico ministero, trattiene ed "incrocia" gli stessi senza il consenso né dell'A.G. che aveva conferito l'incarico, né degli interessati, e successivamente li utilizza per
lo svolgimento di ulteriori incarichi retribuiti di consulenza e per la pubblicazione di libri ed articoli.
3.- Le questioni processuali. - La Suprema Corte ha anche affrontato, con
distinte decisioni, alcune questioni processuali relative alla confisca di materiale illecito, all’acquisizione delle fonti di prova elettroniche e all’oscuramento di risorse telematiche per impedire che eventuali reati potessero essere portati ad ulteriori conseguenze.
In tal senso, è stato stabilito che il giudice, nell’ipotesi di archiviazione indistinta di file leciti e materiale multimediale illecito all’interno di un supporto di memorizzazione, deve limitare la confisca soltanto alle risorse elettroniche la cui detenzione costituisce reato.
la Terza Sezione, con sentenza 2 aprile 2014, Malagoli, n. 20429, Rv. 259631, ha affermato che «le "cose che servirono a commettere il reato" sono suscettibili di confisca in funzione di evitare che la loro disponibilità possa favorire la commissione di ulteriori reati e tale prognosi va effettuata attraverso l'accertamento, in concreto, del nesso di strumentalità fra la cosa e il reato, in relazione sia al ruolo effettivamente rivestito dalla res nel compimento dell'illecito sia alle modalità di realizzazione del reato medesimo (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto carente di motivazione la confisca di un personal computer, di alcuni
hard-disk esterni e di altri supporti di memorizzazione all'interno dei quali erano stati
promiscuamente archiviati materiali leciti e immagini pedopornografiche)».
Alcune pronunce hanno ribadito il consolidato orientamento che ammette l’acquisizione delle impronte elettroniche e delle tracce telematiche mediante il sequestro, che può ricadere sul sistema informatico utilizzato per commettere l’illecito penale, su tablet del tipo Ipad o su sistemi di elaborazione di informazioni utilizzabili per la commissione di violazioni finanziarie (Sez. III, sentenza 16 aprile
2014, Garritani, n. 19886, non massimata; Sez. III, 8 gennaio 2014, Ligorio, n.
In tema di sequestro di risorse informatiche, la Corte ha avuto altresì modo di chiarire che «è inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto avverso l'ordinanza del tribunale del riesame che abbia disposto la restituzione al ricorrente degli originali dei documenti e dei supporti informatici sottoposti a sequestro probatorio previa estrazione di copia, in quanto avverso di essa, che costituisce provvedimento autonomo rispetto al decreto di sequestro, non è ammissibile alcuna forma di gravame, stante il principio di tassatività delle impugnazioni» (Sez. III, sentenza 30 maggio 2014, Peselli, n.
27503, Rv. 259197).
È stato, inoltre, affermato che «è legittimo il sequestro probatorio di supporti informatici disposto per svolgere accertamenti sui dati in essi contenuti, pur se la legge 18 marzo 2008, n. 48, nel modificare le disposizioni del codice di procedura penale, ha previsto la possibilità di estrarre copia degli stessi con modalità idonee a garantire la conformità dei dati acquisiti a quelli originali, in quanto questa disciplina non impedisce di imporre un vincolo su tali "cose", ma si limita a consentire la presentazione di una successiva richiesta di restituzione a norma dell'art. 263 cod. proc. pen.» (Sez. VI, sentenza 12 febbraio 2014, Genchi, n.
10618, Rv. 259782).
In attesa del definitivo pronunciamento delle Sezioni Unite sulla ammissibilità del sequestro preventivo, mediante “oscuramento”, anche parziale, di un sito Internet e di una pagina web di una testata giornalistica telematica registrata (cfr. ordinanza
di rimessione della Prima Sezione, 3 ottobre 2014, Fazzo, n. 45053, non
massimata), la giurisprudenza delle Sezioni Semplici ha riconosciuto la legittimità dell’ordine impartito dall’autorità giudiziaria all’Internet Service Provider di disabilitare o inibire l’accesso a contenuti informativi, musicali o “audio-video” digitali su piattaforma elettronica.
In argomento, la Quinta Sezione, sentenza 5 novembre 2013, Montanari, n.
10594/2014, Rv. 259887-259889, ha analizzato il problema dell’estensione dello
statuto previsto in tema di disciplina della stampa anche alle manifestazioni del pensiero trasmesse in via telematica: dalla soluzione data allo stesso, infatti, si
sono fatte discendere dirette conseguenze circa la responsabilità del direttore e i limiti ai poteri di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria e di polizia. Segnatamente, Sez. V, Montanari, cit., ha escluso che le garanzie costituzionali previste dall’art. 21, terzo comma, Cost. in tema di sequestro della stampa possano trovare applicazione estensiva, e, quindi, essere riferite a blog, mailing list, chat,
news-letter, e-mail, newsgroup, mailing list, osservando che il termine "stampa" è stato
assunto dalla norma costituzionale nella sua accezione tecnica che fa riferimento alla "carta stampata": a tacer d’altro, infatti, al momento dell’entrata in vigore della Costituzione poteva concretamente prospettarsi il problema delle garanzie da riservare all’attività giornalistica svolta attraverso il servizio radiofonico; in conseguenza di ciò, la Corte ha affermato la ammissibilità del sequestro di copie di articoli di un quotidiano già stampati, che erano state pubblicate sul sito web del giornale. Tuttavia, la sentenza in esame, pur escludendo l’operatività dei limiti previsti dall’art. 21, terzo comma Cost., ha osservato che il giudice di merito, per ritenere legittimamente eseguito il sequestro di un articolo di giornale pubblicato su un sito “web”, deve tenere conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, al fine di accertare se emerga la probabile sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica; questo, perché tale attività, seppure non qualificabile tecnicamente come “stampa”, rientra nell’ambito dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, tutelata, in generale, dall’art. 21, primo comma, della Costituzione. Sez. V, Montanari, infine, ha escluso la responsabilità del direttore di un periodico on-line per il reato di omesso controllo previsto dall’art. 57 cod. pen., proprio negando l’inquadramento del periodico on-line nella nozione di “stampa”, oltre che per l’impossibilità per tale soggetto di impedire le pubblicazioni di contenuti diffamatori “postati” direttamente dall’utenza.
CAPITOLO IX
LA DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI DOPO GLI