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Interventi settecenteschi in Pinacoteca

La necessità di tentare una approfondita indagine delle vicende legate alla storia della conservazione dei dipinti in Pinacoteca nel XVIII secolo, oltre che per le ragioni a cui abbiamo fatto riferimento poc’anzi, trova un forte stimolo nel fatto che in recenti studi sono stati messi in luce tre isolati casi di restauro risalenti proprio alla fine del Settecento (gli unici finora documentati): l’intervento sui due dipinti del Guercino presenti in Pinacoteca raffiguranti Cleopatra davanti a Marcantonio e sulla Sibilla

Persica, e quello sulla Pietà, oggi ritenuta dello Scarsellino, dopo che per lungo tempo

fu attribuita a Pomarancio3. A darcene notizia è il «Giornale delle Belle Arti»4,

3 L’opera fu trasferita alla Pinacoteca Vaticana intorno al 1845. Sull’argomento cfr. D

I MEGLIO M., op. cit.

4 Sui periodici storico-artistici romani cfr. BARROERO L., Periodici storico-artistici romani in età neoclassica: le «Memorie per le Belle Arti» e il «Giornale delle Belle Arti», in Roma «il tempio del vero gusto», la pittura del Settecento romano e la sua diffusione a Venezia e a Napoli, Firenze 2001, pp. 91- 99.

pubblicato a partire dal 1784 al 1788 con cadenza settimanale, all’interno del quale troviamo affrontate appunto anche le tematiche legate al restauro. In particolare, nelle edizioni del 1784, 1785 e 1786 si parlò dei procedimenti adottati da Margherita Bernini5, e nello specifico di quelli da lei compiuti in Pinacoteca. La Bernini fu al centro di una delle discussioni sul tema del restauro più animate del Settecento. Questa restauratrice, aveva ereditato la professione alla morte del marito Carlo – con il quale aveva lavorato fianco a fianco in tre città pontificie: Ferrara, Bologna, Roma6. Adottò dunque le tecniche di restauro del marito, ed in particolare, l’utilizzo della segreta «manteca» per la pulitura dei dipinti, che poi venivano verniciati con chiara d’uovo. Come si diceva, la Bernini fu al centro del dibattito e delle polemiche che si era animato alla fine del Settecento fra coloro che erano a favore degli interventi della restauratrice (e quindi a favore dell’uso della vernice a chiara d’uovo) e coloro che, invece, erano avversi alla sua tecnica, che si contavano soprattutto tra i membri di una cerchia di estimatori della vernice mastice, utilizzata in prevalenza oltralpe.

Senza entrare nel merito, almeno per il momento, degli interventi e delle metodologie utilizzate dalla Bernini, i testi pubblicati all’epoca nel «Giornale delle Belle Arti» per commentare quelle vicende è di fondamentale importanza per rafforzare il concetto della utilità del buono stato di conservazione di un dipinto per un buon esercizio della copiatura. Infatti, nella lettera aperta che il priore Carletti indirizzò a Raimondo Ghelli (due dei principali personaggi di riferimento del «Giornale»), egli, oltre a rendere manifesto tutto il suo più vivo entusiasmo per il buon esito del restauro condotto dalla Bernini sui due dipinti del Campidoglio, spiegava con soddisfazione che grazie a tale intervento «nella Sibilla Persica appariscono ora alcune cose, che prima non apparivano: e chi vorrà oggi copiarla avrà questo vantaggio»7. Il concetto della fondamentale rilevanza dello stato di conservazione di un’opera per un buon esito

5 S. R

INALDI, Vernici originali e vernici di restauro: l’impiego della chiara d’uovo tra Seicento e

Settecento, in «Bollettino dell’Istituto Centrale del Restauro», 10, 2005, pp. 45-62; DI MEGLIO M., op. cit.

6 Per una panoramica sul restauro nelle tre città pontificie: cfr. G

IORDANI N., Il restauro dei dipinti a

Bologna nella seconda metà del ‘700: problemi, metodi, idee al tempo dell’Accademia Clementina,

Firenze 1999; in particolare sullo scarso seguito che ebbe a Bologna e l’operato di Carlo Bernini: cfr. Atti

dell’Accademia Clementina 1764-1782. Verbali consiliari, vol. 2, Bologna 2004.

7 Lettera del signor Priore Carletti al Signore Raimondo Ghelli, in «Giornale delle Belle arti», 44,

dell’esercizio della copia è qui pienamente manifesto. Ebbene, una simile riflessione, se letta in collegamento con il tessuto culturale e con le biografie di coloro che lavoravano nella Pinacoteca di cui si è cercato di ricostruire le tracce nel capitolo precedente, contribuisce a delineare un contesto generale finora poco noto in questi suoi aspetti e che a mano a mano va arricchendosi di dettagli che rendono la storia di questa istituzione più ricca e complessa, e che lasciano riflettere su come, fin dal Settecento, le scelte gestionali che la riguardavano potessero essere dettate da criteri che vanno probabilmente oltre quelli di mera casualità, ma che, al contrario, lasciano intravedere una trama di provvedimenti e una gestione abbastanza organizzata, sebbene ancora in

fieri.

In effetti, elementi come il profilo professionale dei due custodi, esaminati nella seconda parte del capitolo sulle professioni museali, e le indicazioni contenute nei documenti stilati da Gian Maria Riminaldi, si spiegano solo in connessione con un concetto che pone in primo piano la cura e la conservazione delle opere. Questi stessi elementi, d’altronde, lasciano intravedere una gestione quotidiana della Pinacoteca Capitolina che lascia pensare ad una concreta pratica di manutenzione dei dipinti.

Per cercare di fare ulteriore chiarezza, tuttavia, resta appunto da capire se i tre restauri già citati fossero gli unici condotti in Pinacoteca per tutto il corso del Settecento. Infatti, oltre a questi episodi non erano emerse ulteriori informazioni su altri restauri, supportando così l’ipotesi di una gestione asistematica dei dipinti della Pinacoteca; l’intervento della Bernini poteva cioè apparire un episodio casuale ed isolato, dettato dall’urgenza dell’intervento e dall’importanza delle opere specifiche (tanto da essere due tra le più copiate), più che da una consapevolezza generale della necessità di mantenere in un buono stato tutti i dipinti.

La richiesta di questo intervento fu promossa da Gian Maria Riminaldi, come ricorda Michela Di Meglio: un dato molto interessante e capace ancora una volta di rivelare il particolare interesse che l’alto prelato nutriva per questa istituzione, tanto da avere una parte nella vicenda, nonostante, alla data del restauro, non avesse più alcuno incarico che la riguardasse direttamente8. Si deve, tuttavia, cercare di comprendere se

8 Come già accennato, Gian Maria Riminaldi quando si interessò del restauro dei due dipinti di

Guercino non aveva più l’incarico ufficiale di uditore del Camerlengo, ossia l’organo al quale era affidata la gestione della Pinacoteca, bensì a partire dal 1759 fu nominato Uditore della Sacra Rota. Pertanto il suo

gli interventi condotti dalla restauratrice in Pinacoteca furono soltanto dei casi isolati o se al contrario sono gli unici dei quali si ha notizia, data la particolare fama del nome della loro esecutrice, che proprio in quegli anni richiamava l’attenzione del pubblico erudito per i suoi procedimenti di pulitura mediante la «manteca». Per questo ci si è dovuti confrontare nuovamente con la complessa situazione documentaria inerente la Pinacoteca9.

Una fonte fondamentale, in questo senso, è l’atto con cui si stabilisce il finanziamento per la Pinacoteca e per l’Accademia, di cui abbiamo già trattato nel primo capitolo. I proventi della Dogana della Suola, congiuntamente ad altri denari aggiunti in seguito per contribuire in miglior modo alla vita delle due istituzioni, erano depositati nel Sacro Monte di Pietà in un «conto a parte» intestato al cardinale Camerlengo pro tempore. La consistenza documentaria di questo fondo è stata appunto molto ridotta a causa degli scarti subiti nel corso dell’Ottocento, come abbiamo già avuto occasione di spiegare. I documenti restanti consistono fondamentalmente in Rubricelle e Libri mastri, mentre, purtroppo, per quanto riguarda le Giustificazioni di spesa la gran parte della documentazione è andata distrutta10. Analizzando le carte ancora esistenti ed in particolare i Libri mastri, si scopre che i Conti a parte sono registrati a partire dal 1752 (anno in cui non era ancora terminato l’allestimento della Pinacoteca e dell’Accademia del nudo), intestati al Camerlengo pro-tempore. Accanto a ciascun pagamento è indicato il numero di riferimento che serviva a rintracciare le carte di Giustificazione: e qui purtroppo la nostra ricerca si deve appunto arrestare di fronte al vuoto documentario. Tuttavia, sono stati fortunatamente conservati i preziosi i documenti di riscontro, consistenti in bilanci dimostrativi curati dal Computista

interessamento al restauro dei dipinti della Pinacoteca nel 1786 può ricondursi ad un suo personale interesse senza alcuna connessione all’incarico d’ufficio.

9 Come già ricordato, le complesse vicende documentarie della gestione dei conti della Pinacoteca si

originano tra Otto e Novecento, quando la documentazione fu selezionata attraverso sconsiderate operazioni di scarto, che non seguivano certamente i principi che la moderna archivistica ha imposto per salvaguardare le fonti storiche.

10 Un sentito ringraziamento va alla dottoressa Pieretti responsabile della sede distaccata

dell’Archivio di Stato (dove è conservato il fondo) e alla responsabile di sala Pizziconi; quest’ultima soprattutto è stata di fondamentale aiuto nella consultazione del materiale e ad essa va quindi un particolare ringraziamento.

Giuseppe Rovere11 per essere consegnati al tesoriere generale. Questi ultimi documenti, sempre per buona sorte, coprono un arco temporale molto ampio, ma non offrono la possibilità di approfondire la natura dei pagamenti, in quanto le annotazioni di spesa sono essenziali, senza precisazioni sui dettagli di spesa e sul tipo di intervento che i vari personaggi erano chiamati ad eseguire.

Le indicazioni di deposito di spesa, sia nei Libri mastri, così come all’inizio di ciascun bilancio, spiegano comunque con chiarezza l’origine dei proventi e l’ammontare:

Del denaro che è stato depositato nel Sagro Monte di Pietà di Roma in credito della Chiara memoria del cardinale Girolamo Colonna già Camerlengo di Santa Chiesa proveniente dall’annuo assegnamento di scudi 900 fatto dalla S. M. di Benedetto XIV sopra il ritratto della dogana dalla Sola [Suola] con suo Chirografo segnato lì 5 dicembre 1756, in cui ordina che di scudi 900 annui debino far depositare in detto monte in credito del Cardinale Camerlengo pro tempore in conto a parte di sei in sei mesi la rata anticipata da incominciare il dì primo ottobre di detto anno 1756 per erogarsi con nuovi ordini nelle spese dell’Accademia capitolina detta del Nudo e per i salariati et alcune spese di Piazza Navona, come da detto chirografo al quale si rimanda [...]12.

11 Giuseppe Rovere viene citato dal Moroni quando in qualità di Maestro di Casa dei Sacri Palazzi

Apostolici nel 1769 presenta gli omaggi a Pietro Leopoldo in viaggio a Roma. Come spiega Riminaldi nelle norme per l’ufficio di Camerlengo, Rovere era il computista che curava i conto del Camerlengo Girolamo Colonna, infatti nella parte del testo in cui tratta del computista di piazza Navona, altro settore di competenza del Camerlengo Riminaldi ricorda: «Computista: [...] il cardinale Silvio Valenti Gonzaga vedendo la necessità di un computista per spedirgli gli ordini delle mensuali provvisioni e delle spese straordinarie e per tenere registro del ruolo e dei mandati dichiarò per computista di questa azienda (sic) la persona di Filippo Cherubini colla provvisione di pavoli dodici il mese ma succeduto poi nel Camerlengato il signor Girolamo Colonna credette di venire a nuova elezione di detto Computista la quale seguì in ottobre dell’anno 1756 nella persona del signor Giuseppe Rovere cui accrebbe la provvisione sino alla somma di scudi venti l’anno giudicando la prima già assegnata troppo tenue alle diverse incombenze, delle quali è incaricato il computista. [28r] Non solamente il detto computista ha l’obbligo di spedire e registrare tutti gli ordini spettanti a Piazza Navona, ma ancora deve fare lo stesso per l’Accademia o Disegno del Nudo eretta in Campidoglio la quale oltre i salariati è obbligata a diverse annuali spese per il suo mantenimento e perciò è troppo necessario l’opera del computista per tenere in buon ordine e registro le dette spese con tutte le filze delle sue giustificazioni e di quelle altre diligenze che sono dovute a questo offizio.» cfr. Appendice VI.1; MORONI G., op. cit., vol. 15, p. 290.

L’ampio arco temporale coperto da questi documenti (che arriva fino al primo decennio dell’Ottocento), si rivela prezioso, nonostante l’essenzialità delle notizie offerte, giacché quest’ampio periodo è in grado quantomeno di dare un’idea della gestione a lungo termine dell’Accademia e della Pinacoteca. In effetti, in essi troviamo citate le spese per gli acquisti più semplici, ma che dànno l’idea della quotidiana amministrazione dell’Accademia e della Galleria: come la cera di Spagna13 per sigillare i disegni degli studenti, «oglio, legna e carbone» per riscaldare e illuminare gli ambienti, «spazzole, scope, bombace, e altro per l’Accademia e Galleria dei quadri», utili sia per la pulizia dei locali sia per la cura delle opere. Oltre alle spese di routine, a volte troviamo poi note di spese particolari: come quelle per «otto sedie di noce», o quelle per «una cornice nuova dorata a oro buono»; o come anche quando, nel 1781 si ordinano: «per spese straordinarie dell’accademia [...] numero 27 vetri grandi di Boemia»14.

13 Ceralacca rossa per sigillare i disegni realizzati dagli studenti che poi dovevano concorrere per il

premio finale.

14 Per tutti questi esempi cfr. Appendice I.12. Il cristallo veniva utilizzato per realizzare i vetri a

protezione dei dipinti. I cristalli verranno tolti nel 1841, come riporta questo documento: «Eminentissimo e reverendissimo Principe, Diversi quadri nella Galleria Capitolina dal tempo della sua fondazione non sono stati restaurati, ora si vede che li medesimi vanno a soffrire come alcuni fanno testimonianza. Il sottoscritto sempre intento alla conservazione delli medesimi, prega l’Eminenza Vostra Reverendissima di permettere che in specie quelli dipinti a cui è sovrapposto il cristallo sia tolto via per bene del opera stessa, e di utilità di chi deve studiarli; dando il cristallo un colore o tendente al giallo, oppure al verde più assorbendo la umidità nel inverno con grave danno dei dipinti medesimi. In questa occasione farle quelli necessari restauri si crederanno opportuni, sperando della benigna concessione e permesso dell’Eminenza Vostra Reverendissima. Filippo Agricola». In quella circostanza inoltre oltre all’eliminazione dei cristalli, si provvide al restauro di alcuni di questi dipinti: «una tavola di Benvenuto Garofalo diligentemente ripolito ed essendo il colore inaridito datagli la nuova vernice scudi 3; a una tavola di Carracci, restaurato alcuni pezzi avendo sofferto essendo privo d’aria per il sovrapposto cristallo, scudi 5; ad un rame opera di Carracci, restaurate alcune parti per le sopradette ragioni, scudi 3; ad una tavola di Carracci, copia di un quadro di Correggio nel reale museo di Napoli, restauro eseguito da Giovanni Regis scudi 2; ad una lavagna pitturata dell’ Albani ripulito e datole la vernice scudi 2; ad un rame di Agostino Carracci la comunione di san Girolamo per le sovradette ragioni scudi 2; totale scudi 15. Filippo Agricola [19 agosto 1841]», Archivio di Stato di Roma, Camerlengato parte II, b. 200. Ma nel caso del dipinto di Garofalo esistono diversi quadri in Galleria di questo autore, e due, come riporta l’inventario di consegna dei dipinti a Cittadini, hanno il cristallo da prima del loro ingresso in Galleria. L’uso dei cristalli da apporre

Certamente gli interventi sulle due opere di Guercino trovavano la loro spiegazione nell’importanza dei dipinti e nel conseguente fatto che erano probabilmente tra le più copiate, e quindi anche tra quelle maggiormente soggette ad eventuali danni. Un episodio che sembra apparentemente isolato. Questo, tuttavia, va forse inquadrato in una logica più ampia della gestione della Pinacoteca, mentre, in base alla documentazione presentata, poteva sembrare un caso limite.

La documentazione inedita rinvenuta nel corso di questa ricerca dà notizia anche dell’intervento della restauratrice Margherita Bernini e delle disposizioni date a Cittadini per l’operazione:

Fascicolo con indicazione Entrata, 1786,

[...] a detto Cittadini [...] per aver fatto staccare e riattaccare li due quadri che si sono fatti ripulire, scudi 1:20;

[...] A madama Margherita Bernini per la ripulitura delli due quadri del Guercino nella Galleria di Campidoglio rappresentanti, uno la Sibilla Persica, e l’altro la Cleopatra Supplicante ai piedi di Augusto come dalla giustificazione in filza 42815.

Purtroppo, la preziosa documentazione presente nelle Giustificazioni di spesa, alla quale rimanda il testo, è appunto perduta16. Il dettaglio di spesa avrebbe arricchito notevolmente le notizie in nostro possesso, e si sarebbe forse rivelato utile perfino a capire quale fosse l’ancora ignota composizione della manteca utilizzata da Carlo e Margherita Bernini per la pulitura dei dipinti.

In merito poi all’altro restauro compiuto dalla Bernini sulla Pietà, non sappiamo se il conto del 1781 sia collegabile a questa operazione, è tuttavia un fatto che in quell’anno si registra un nuovo intervento eseguito in concomitanza della apposizione dei cristalli di protezione a 27 dipinti: «[...] ripulitura di un quadro e altro scudi 31:20».

sui dipinti era in effetti una pratica dannosa per i dipinti in quanto creava un microclima dannoso alla pellicola pittorica.

15 Cfr. Appendice I.12.

16 Spesso certi fondi venivano smembrati: è accaduto anche con le serie dell’Archivio di Stato di

Roma; ma nel caso specifico qualsiasi tentativo di rintracciare la documentazione in altri enti si è rivelata inutile.

Di sicuro, comunque, gli interventi citati in questi conti non si limitano alle sole operazioni di pulitura e di riparazione. Infatti due registrazioni ricordano:

1774, [...] Al signor Nicola Lapiccola per aver ristaurato diversi quadri della Galleria scudi 89:20

1780, [...] Al signor Marron17 pittore per l’accomodatura18 di un quadro della

Galleria scudi 819

Queste sono le uniche notizie di un intervento sui dipinti della Pinacoteca da parte di veri e propri pittori per tutto il Settecento. Il loro intervento è certamente ascrivibile ad operazioni di ritocco pittorico; pertanto anche il termine «accomodatura» va ricondotto ad un lavoro di integrazione di una lacuna del dipinto. Purtroppo, però, anche in questo caso i dettagli di spesa, ormai perduti, avrebbero aiutato a comprendere su quali dipinti si intervenne e in quale modo operarono i due artisti. Queste informazioni restano comunque preziose.

Si può tuttavia citare altro e nuovo materiale, che va ancora una volta al di là dell’intervento della nota restauratrice Margherita Bernini. Oltre ai citati pittori, in galleria operarono anche quei restauratori «meccanici», noti nel contesto romano per essersi formati in botteghe affermate e il cui lavoro era ben collaudato. Questo, ad esempio, è il caso di Giovanni Principe, un personaggio che già abbiamo ricordato nel precedente capitolo parlando dell’inventario post mortem di Voght, con il quale, in effetti, egli intratteneva rapporti di natura professionale. In particolare nelle «spese fatte per tutto l’anno 1761» viene registrato un pagamento: «[...] A Giovanni Principe per aver riattato un quadro della Galleria scudi 15»20.

17 Anton von Maron. Sposato alla sorella di Anton Raphael Mengs, il von Maron rappresenta,

perciò, un altro anello della catena riconducibile alla figura della restauratrice francese, sia perché fu in contatto con il cardinale Riminaldi, del quale eseguì un ritratto, sia perché fu lui il mediatore tra il Cardinale Francesco Herzan de Harras e la stessa Bernini la quale restaurò alcuni non meglio identificati dipinti della sua collezione. Cfr. DI MEGLIO, op. cit., p. 69.

18 Per accomodatura, anche se il termine lascia intuire un procedimento più meccanico che pittorico,

può però fare riferimento ad un intervento di integrazione pittorica di una parte lacunosa del dipinto, che giustificherebbe l’intervento di un pittore appunto.

19 Cfr. Appendice I.12. 20 Cfr. Appendice I.12.

Il coinvolgimento di Giovanni Principe in lavori inerenti le opere della Pinacoteca si può rintracciare anche in riferimento ad un’altra importante circostanza – indizio, tra l’altro, di una particolare considerazione con cui veniva giudicato questo personaggio: infatti, il suo nome è registrato nella Descriptio, consignatio, et obligatio custodiendi

tabulas pictas figl. quondam dicti Josephus Voget, in cui Principe compare appunto tra i

testimoni firmatari dell’atto nel 1755, in cui si ricorda:

Acta Roma in mansionibus d. Adificii in Capitolio iuxtas contibus signor Joanne Principe filius quondam Francisci romano, et Josepho Gallaucci21 filius quondam Joannis Neapolitano Thestis22

Questo dato, soprattutto se unito alla citata notizia dell’intervento di restauro del 1761 – quando Voght era ancora custode della Pinacoteca –, e visto alla luce della documentata collaborazione professionale fra i due personaggi23, è un elemento che, sebbene non sia suffragato da ulteriori documenti, lascia pensare che questo personaggio fosse presente e partecipe sotto varie vesti della vita di questa istituzione.

Sebbene non diano modo di ottenere una approfondita conoscenza delle operazioni